di Michele Paris
La vigilia del primo faccia a faccia tra il presidente americano,
Donald Trump, e quello cinese, Xi Jinping, è stata segnata dal lancio,
da parte della Corea del Nord, di un missile balistico nel Mare del
Giappone, il più recente di una serie che nelle ultime settimane ha
accompagnato una pericolosa escalation di minacce americane nei
confronti del regime stalinista di Pyongyang.
La stampa
sudcoreana ha dato notizia del lancio nella prima mattinata di
mercoledì. Attorno alle 6.40 ora locale, dalla base nordcoreana di Sinpo
è partito quello che i militari americani hanno identificato come un
missile a medio raggio KN-15, affondato in mare 11 minuti più tardi dopo
avere percorso circa 60 chilometri.
Visto il quasi completo
isolamento internazionale in cui continua a trovarsi la Corea del Nord, i
test missilistici sono solitamente il metodo preferito del regime di
Kim Jong-un per comunicare con l’esterno, in particolare con i propri
nemici.
Come sempre, inoltre, il lancio di ordigni fa aumentare
pressioni e provocazioni che soprattutto gli Stati Uniti mettono in atto
nei confronti della Corea del Nord. Quest’ultimo paese, a sua volta,
insiste nel mantenere un atteggiamento di sfida, alimentando una spirale
di minacce e ritorsioni che rischia seriamente di far riesplodere la
guerra nella penisola di Corea.
Se l’ultimo episodio della
vicenda nordcoreana è tutt’altro che inedito, esso si inserisce in un
clima particolarmente teso, con la nuova amministrazione Trump impegnata
a mandare segnali espliciti circa una possibile soluzione militare a
tutto campo per risolvere definitivamente il problema rappresentato dal
regime.
A dare l’idea della situazione è stata la risposta
ufficiale del dipartimento di Stato USA al lancio di mercoledì. Il
segretario Rex Tillerson non ha cioè nemmeno commentato l’iniziativa di
Kim, ma ha semplicemente riconosciuto il lancio di un missile balistico
per poi sottolineare in maniera concisa come “gli Stati Uniti abbiano
parlato abbastanza della Corea del Nord” e non vi siano “ulteriori
commenti” da fare.
Questa sorta di silenzio su Pyongyang da parte
di Washington sembra prefigurare l’esistenza di avanzati preparativi
per un’azione militare distruttiva. Una sensazione, quest’ultima,
suffragata dalle dichiarazioni rilasciate pubblicamente nei giorni
scorsi dal presidente Trump, da membri del suo gabinetto e da alti
ufficiali militari.
Il presidente americano, in un’intervista al Financial Times,
aveva invitato ancora una volta la Cina a collaborare per fermare il
programma nucleare di Pyongyang, ma, se ciò non dovesse avvenire, Trump
aveva assicurato che gli Stati Uniti si faranno carico da soli della
risoluzione del problema nordcoreano.
Trump era stato solo
parzialmente contraddetto poco più tardi dal numero uno del Comando
Strategico americano, generale John Hyten, responsabile tra l’altro
dell’arsenale nucleare USA. Hyten aveva spiegato come Pechino sia
essenziale nell’affrontare la sfida della Corea del Nord, lasciando
intendere quindi che qualsiasi soluzione unilaterale rischierebbe di
trascinare la Cina in un conflitto armato in Asia nord-orientale. Lo
stesso generale aveva comunque aggiunto che il comando da lui guidato
avrebbe presentato al presidente i piani per una possibile opzione
militare in relazione alla Corea del Nord.
L’opzione militare,
assieme a nuove sanzioni e cyber-attacchi clandestini, è stata citata
apertamente martedì anche da un membro dello staff della Casa Bianca,
dal momento che “il tempo è ormai scaduto” e la situazione nella
penisola è di “urgente interesse” per l’amministrazione Trump.
Anche
il segretario di Stato Tillerson, nel corso della sua trasferta in
Estremo Oriente a metà marzo, aveva affermato che la politica della
“pazienza strategica” aveva fatto il proprio corso e che, nei confronti
della Corea del Nord, sul tavolo vi era anche l’ipotesi di un attacco
militare.
Trump
e il suo entourage insistono sul fallimento dei precedenti governi
americani nel risolvere la crisi coreana attraverso metodi “pacifici” o
con la collaborazione cinese. In realtà, però, nel recente passato le
amministrazioni americane hanno sempre boicottato i negoziati con
Pyongyang, preferendo alimentare lo scontro per i propri interessi
strategici.
Malgrado le poche settimane trascorse
dall’insediamento, anche la nuova amministrazione non ha ritenuto
opportuno considerare l’ipotesi di aprire un qualche dialogo – diretto o
indiretto – con Pyongyang. Anzi, quando qualche settimana fa Pechino
aveva proposto il ritorno al tavolo delle trattative, chiedendo agli
Stati Uniti di interrompere le massicce esercitazioni militari in corso
con le forze armate sudcoreane in cambio del congelamento del programma
nucleare del regime di Kim, Washington ha opposto un secco rifiuto.
Ex
esponenti dell’apparato militare americano hanno anch’essi confermato
in questi giorni come l’amministrazione Trump stia seriamente
considerando un’operazione militare contro la Corea del Nord. Uno di
questi è l’ultimo segretario alla Difesa di Obama, Ashton Carter, che
nel fine settimana si è detto pessimista sulla possibilità di risolvere
diplomaticamente la crisi nordcoreana con la collaborazione della Cina.
Carter,
considerato uno dei più convinti “falchi” della precedente
amministrazione Democratica, ha parlato di un possibile attacco
“preventivo” contro le installazioni militari nordcoreane, in seguito al
quale, però, Pyongyang risponderebbe con un’invasione o un contrattacco
nei confronti della Corea del Sud.
A questo punto lo scenario
ipotizzato dal numero uno del Pentagono diventa catastrofico e dimostra
la totale assenza di scrupoli degli ambienti di potere americani per la
vita di milioni di persone. Carter si è mostrato “ottimista” sull’esito
dell’eventuale conflitto, ma ha avvertito che la guerra contro il regime
di Kim sarebbe di un’intensità e di una violenza tali da essere
paragonabile a quella del 1950-1953, al termine della quale, secondo
alcune stime, si contarono un totale di circa 5 milioni tra morti,
feriti e dispersi.
La stampa occidentale continua a far notare
come la Corea del Nord non abbia ancora le capacità tecniche per
equipaggiare un missile a lungo raggio con una testata nucleare. Ciò non
rappresenta però uno stimolo a percorrere al più presto la strada della
diplomazia, ma sembra essere piuttosto un motivo per accelerare un
attacco militare prima che sia troppo tardi e la reazione di Kim risulti
efficace.
L’ex direttore della CIA, Michael Hayden, ha ad esempio avvertito in una recente intervista alla CNN
che, “prima della fine del mandato di Trump, la Corea del Nord sarà
probabilmente in grado di raggiungere [la città sulla costa occidentale
americana di] Seattle con un’arma nucleare... montata su un missile
balistico intercontinentale”.
I venti di guerra in Asia
nord-orientale continuano a essere alimentati da un dibattito sui media e
all’interno della classe politica americana che omette puntualmente di
ricordare le più che probabili conseguenze di un attacco contro la Corea
del Nord. Una guerra provocherebbe non solo un numero enorme di vittime
nella penisola di Corea, ma rischierebbe di allargarsi rapidamente,
coinvolgendo la Cina e, forse, la stessa Russia o il Giappone, mentre
estremamente probabile sarebbe il ricorso ad armi nucleari.
Secondo
alcuni osservatori, l’escalation di minacce del governo americano
contro il regime di Kim rientrerebbe in una strategia che non prevede
tanto il ricorso immediato alla forza ma che serve più che altro ad
aumentare le pressioni su Pechino, sia per richiamare all’ordine la
Corea del Nord sia, ancor più, per ottenere concessioni militari,
commerciali e strategiche dalla stessa Cina.
Come
già ricordato, la nuova crisi in Asia orientale è esplosa pochi giorni
prima dell’arrivo negli USA del presidente cinese Xi per un vertice con
Trump che si annuncia estremamente teso e sul quale peserà l’ombra della
situazione in Corea. Se anche così fosse, tuttavia, l’aggressività
della nuova amministrazione Repubblicana di Washington non può che far
aumentare il rischio di un conflitto con la Corea del Nord o con la
Cina, nel breve o nel medio periodo.
In ogni caso, l’ipotesi di
un attacco militare ordinato da Trump contro Pyongyang non può essere
scartata, al di là delle conseguenze che ne deriverebbero. A spingere
verso questa soluzione ci sono vari fattori – dalla popolarità in
picchiata del presidente al conflitto interno alla classe dirigente
americana sulla Russia, dalle pressioni dell’apparato militare alla
necessità di far fronte alla crescente influenza cinese – tutti
derivanti invariabilmente dal rapido e inevitabile deterioramento della
posizione internazionale degli Stati Uniti.
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