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06/04/2017

Trump e la Corea nel mirino

di Michele Paris

La vigilia del primo faccia a faccia tra il presidente americano, Donald Trump, e quello cinese, Xi Jinping, è stata segnata dal lancio, da parte della Corea del Nord, di un missile balistico nel Mare del Giappone, il più recente di una serie che nelle ultime settimane ha accompagnato una pericolosa escalation di minacce americane nei confronti del regime stalinista di Pyongyang.

La stampa sudcoreana ha dato notizia del lancio nella prima mattinata di mercoledì. Attorno alle 6.40 ora locale, dalla base nordcoreana di Sinpo è partito quello che i militari americani hanno identificato come un missile a medio raggio KN-15, affondato in mare 11 minuti più tardi dopo avere percorso circa 60 chilometri.

Visto il quasi completo isolamento internazionale in cui continua a trovarsi la Corea del Nord, i test missilistici sono solitamente il metodo preferito del regime di Kim Jong-un per comunicare con l’esterno, in particolare con i propri nemici.

Come sempre, inoltre, il lancio di ordigni fa aumentare pressioni e provocazioni che soprattutto gli Stati Uniti mettono in atto nei confronti della Corea del Nord. Quest’ultimo paese, a sua volta, insiste nel mantenere un atteggiamento di sfida, alimentando una spirale di minacce e ritorsioni che rischia seriamente di far riesplodere la guerra nella penisola di Corea.

Se l’ultimo episodio della vicenda nordcoreana è tutt’altro che inedito, esso si inserisce in un clima particolarmente teso, con la nuova amministrazione Trump impegnata a mandare segnali espliciti circa una possibile soluzione militare a tutto campo per risolvere definitivamente il problema rappresentato dal regime.

A dare l’idea della situazione è stata la risposta ufficiale del dipartimento di Stato USA al lancio di mercoledì. Il segretario Rex Tillerson non ha cioè nemmeno commentato l’iniziativa di Kim, ma ha semplicemente riconosciuto il lancio di un missile balistico per poi sottolineare in maniera concisa come “gli Stati Uniti abbiano parlato abbastanza della Corea del Nord” e non vi siano “ulteriori commenti” da fare.

Questa sorta di silenzio su Pyongyang da parte di Washington sembra prefigurare l’esistenza di avanzati preparativi per un’azione militare distruttiva. Una sensazione, quest’ultima, suffragata dalle dichiarazioni rilasciate pubblicamente nei giorni scorsi dal presidente Trump, da membri del suo gabinetto e da alti ufficiali militari.

Il presidente americano, in un’intervista al Financial Times, aveva invitato ancora una volta la Cina a collaborare per fermare il programma nucleare di Pyongyang, ma, se ciò non dovesse avvenire, Trump aveva assicurato che gli Stati Uniti si faranno carico da soli della risoluzione del problema nordcoreano.

Trump era stato solo parzialmente contraddetto poco più tardi dal numero uno del Comando Strategico americano, generale John Hyten, responsabile tra l’altro dell’arsenale nucleare USA. Hyten aveva spiegato come Pechino sia essenziale nell’affrontare la sfida della Corea del Nord, lasciando intendere quindi che qualsiasi soluzione unilaterale rischierebbe di trascinare la Cina in un conflitto armato in Asia nord-orientale. Lo stesso generale aveva comunque aggiunto che il comando da lui guidato avrebbe presentato al presidente i piani per una possibile opzione militare in relazione alla Corea del Nord.

L’opzione militare, assieme a nuove sanzioni e cyber-attacchi clandestini, è stata citata apertamente martedì anche da un membro dello staff della Casa Bianca, dal momento che “il tempo è ormai scaduto” e la situazione nella penisola è di “urgente interesse” per l’amministrazione Trump.

Anche il segretario di Stato Tillerson, nel corso della sua trasferta in Estremo Oriente a metà marzo, aveva affermato che la politica della “pazienza strategica” aveva fatto il proprio corso e che, nei confronti della Corea del Nord, sul tavolo vi era anche l’ipotesi di un attacco militare.

Trump e il suo entourage insistono sul fallimento dei precedenti governi americani nel risolvere la crisi coreana attraverso metodi “pacifici” o con la collaborazione cinese. In realtà, però, nel recente passato le amministrazioni americane hanno sempre boicottato i negoziati con Pyongyang, preferendo alimentare lo scontro per i propri interessi strategici.

Malgrado le poche settimane trascorse dall’insediamento, anche la nuova amministrazione non ha ritenuto opportuno considerare l’ipotesi di aprire un qualche dialogo – diretto o indiretto – con Pyongyang. Anzi, quando qualche settimana fa Pechino aveva proposto il ritorno al tavolo delle trattative, chiedendo agli Stati Uniti di interrompere le massicce esercitazioni militari in corso con le forze armate sudcoreane in cambio del congelamento del programma nucleare del regime di Kim, Washington ha opposto un secco rifiuto.

Ex esponenti dell’apparato militare americano hanno anch’essi confermato in questi giorni come l’amministrazione Trump stia seriamente considerando un’operazione militare contro la Corea del Nord. Uno di questi è l’ultimo segretario alla Difesa di Obama, Ashton Carter, che nel fine settimana si è detto pessimista sulla possibilità di risolvere diplomaticamente la crisi nordcoreana con la collaborazione della Cina.

Carter, considerato uno dei più convinti “falchi” della precedente amministrazione Democratica, ha parlato di un possibile attacco “preventivo” contro le installazioni militari nordcoreane, in seguito al quale, però, Pyongyang risponderebbe con un’invasione o un contrattacco nei confronti della Corea del Sud.

A questo punto lo scenario ipotizzato dal numero uno del Pentagono diventa catastrofico e dimostra la totale assenza di scrupoli degli ambienti di potere americani per la vita di milioni di persone. Carter si è mostrato “ottimista” sull’esito dell’eventuale conflitto, ma ha avvertito che la guerra contro il regime di Kim sarebbe di un’intensità e di una violenza tali da essere paragonabile a quella del 1950-1953, al termine della quale, secondo alcune stime, si contarono un totale di circa 5 milioni tra morti, feriti e dispersi.

La stampa occidentale continua a far notare come la Corea del Nord non abbia ancora le capacità tecniche per equipaggiare un missile a lungo raggio con una testata nucleare. Ciò non rappresenta però uno stimolo a percorrere al più presto la strada della diplomazia, ma sembra essere piuttosto un motivo per accelerare un attacco militare prima che sia troppo tardi e la reazione di Kim risulti efficace.

L’ex direttore della CIA, Michael Hayden, ha ad esempio avvertito in una recente intervista alla CNN che, “prima della fine del mandato di Trump, la Corea del Nord sarà probabilmente in grado di raggiungere [la città sulla costa occidentale americana di] Seattle con un’arma nucleare... montata su un missile balistico intercontinentale”.

I venti di guerra in Asia nord-orientale continuano a essere alimentati da un dibattito sui media e all’interno della classe politica americana che omette puntualmente di ricordare le più che probabili conseguenze di un attacco contro la Corea del Nord. Una guerra provocherebbe non solo un numero enorme di vittime nella penisola di Corea, ma rischierebbe di allargarsi rapidamente, coinvolgendo la Cina e, forse, la stessa Russia o il Giappone, mentre estremamente probabile sarebbe il ricorso ad armi nucleari.

Secondo alcuni osservatori, l’escalation di minacce del governo americano contro il regime di Kim rientrerebbe in una strategia che non prevede tanto il ricorso immediato alla forza ma che serve più che altro ad aumentare le pressioni su Pechino, sia per richiamare all’ordine la Corea del Nord sia, ancor più, per ottenere concessioni militari, commerciali e strategiche dalla stessa Cina.

Come già ricordato, la nuova crisi in Asia orientale è esplosa pochi giorni prima dell’arrivo negli USA del presidente cinese Xi per un vertice con Trump che si annuncia estremamente teso e sul quale peserà l’ombra della situazione in Corea. Se anche così fosse, tuttavia, l’aggressività della nuova amministrazione Repubblicana di Washington non può che far aumentare il rischio di un conflitto con la Corea del Nord o con la Cina, nel breve o nel medio periodo.

In ogni caso, l’ipotesi di un attacco militare ordinato da Trump contro Pyongyang non può essere scartata, al di là delle conseguenze che ne deriverebbero. A spingere verso questa soluzione ci sono vari fattori – dalla popolarità in picchiata del presidente al conflitto interno alla classe dirigente americana sulla Russia, dalle pressioni dell’apparato militare alla necessità di far fronte alla crescente influenza cinese – tutti derivanti invariabilmente dal rapido e inevitabile deterioramento della posizione internazionale degli Stati Uniti.

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