Di permanenza o uscita dall’euro si è discusso molto e male, in questi anni. Alle libere opinioni di commentatori improvvisati si sono aggiunte le petizioni di principio di colleghi che hanno preferito una pigra partigianeria alla fatica della divulgazione scientifica. Il lettore, desideroso di informarsi, si è trovato a scegliere tra sfocati bozzetti di catastrofi o paradisi, il più delle volte privi di riferimenti alla letteratura. Bene dunque ha fatto Luigi Zingales a promuovere una nuova discussione esortando gli studiosi partecipanti a seguire alcune semplici regole della ricerca, tra cui la buona prassi di distinguere tra impressioni personali e tesi supportate da pubblicazioni accademiche, contributi istituzionali, consensus tra gli esperti.
Zingales ci sollecita a valutare innanzitutto i costi e i benefici di un’eventuale decisione dell’Italia di uscire dall’euro. Ai fini di tale calcolo sarà bene evitare un’incresciosa abitudine che andava di moda tra gli accademici qualche anno fa, e che li induceva a esaminare l’economia come fosse costituita da un fantomatico agente unico, rappresentativo dell’intera collettività. Non occorre scomodare Marx per ricordare che in realtà il sistema è formato da attori sociali molto diversi tra loro, ed è quindi necessario chiarire a quali di essi facciamo ogni volta riferimento nelle analisi.
Per citare un esempio tra tanti, consideriamo l’idea piuttosto diffusa secondo cui il ritorno a una moneta nazionale darebbe facile sfogo alle svalutazioni e quindi alimenterebbe l’inflazione. Distinguendo i diversi gruppi sociali in gioco, questa tesi induce a ritenere che l’uscita dalla moneta unica favorirebbe le imprese e in generale i soggetti che fanno i prezzi, mentre avrebbe ripercussioni negative sui percettori di redditi relativamente fissi: orfani e vedove, come si diceva un tempo, e soprattutto lavoratori dipendenti.
In campo istituzionale e politico questa congettura conta diversi estimatori. L’idea che l’abbandono dell’euro darebbe luogo a una «grande inflazione» è stata autorevolmente avanzata da Mario Draghi agli esordi del suo mandato in Bce, e la connessa previsione che i soggetti sociali più “deboli” ne sarebbero conseguenzialmente colpiti è stata suggerita da più parti, di recente anche dal ministro Padoan.
Queste posizioni trovano sostenitori anche nella letteratura scientifica: dal giovane Krugman, ad Eichengreen ad altri, fino a Blanchard, Giavazzi e Amighini, i quali l’hanno anche riportata nel loro celebre manuale. Le analisi empiriche, tuttavia, forniscono risultati in parte diversi [1]. Durante l’ultimo trentennio, gli abbandoni di regimi monetari a cambi rigidi con successive svalutazioni hanno avuto in media un impatto sull’inflazione rilevante e duraturo nei Paesi meno sviluppati ma modesto e solo temporaneo nei Paesi relativamente avanzati, tra cui l’Italia. In tali Paesi si rilevano pure ripercussioni negative sui salari e spostamenti distributivi a favore dei profitti, che però non sembrano troppo distanti dai deterioramenti del potere d’acquisto e delle quote di reddito da lavoro che si sono comunque registrati dall’inizio della crisi della moneta unica, nel periodo delle riforme strutturali e delle politiche deflattive.
Insomma, la tesi che l’abbandono di un regime monetario provochi una «grande inflazione» trova riscontri storici solo parziali, e l’idea che i “poveri” sarebbero i più colpiti pare non tener conto del fatto che essi patiscono in misura non dissimile le politiche deflattive vincolate a un regime monetario con cambio rigido. Dunque, la scelta di uscire dal regime monetario e svalutare sembra influire solo in parte sugli andamenti della distribuzione del reddito tra capitale e lavoro. Più rilevante pare l’impatto sulla distribuzione interna al capitale, tra imprese che riescono a far profitti anche sotto un regime deflattivo e imprese in affanno che avrebbero bisogno di slancio monetario per ripartire.
Qualcuno potrebbe obiettare che l’euro è altra cosa rispetto ai regimi monetari del passato, e che stavolta sarebbe diverso. La critica è epistemologicamente ardimentosa: se noi economisti rinunciamo a gettare almeno uno sguardo sulla storia empirica passata, cosa ci resta per indagare sui possibili stati del mondo futuri? Non molto, temo.
Ho citato solo uno dei vari esempi in cui l’indagine sui costi e i benefici della permanenza o dell’uscita dall’euro può dare risultati in parte difformi rispetto alla vulgata. Devo aggiungere, tuttavia, che questo tipo di analisi potrebbe non esser decisivo. Esiste infatti una possibilità concreta che dovremmo considerare prioritaria nelle nostre discussioni: al di là del calcolo statico dei vantaggi o degli svantaggi, a un certo punto la dinamica degli eventi potrebbe inesorabilmente condurci all’abbandono della moneta unica.
Il dibattito tende solitamente a considerare tale eventualità in relazione agli esiti di una vittoria politica di forze cosiddette “anti-sistema”. Ma la questione non è solo legata alle dinamiche elettorali. Un problema ulteriore, io credo, attiene alla fragilità dei meccanismi europei imbastiti in questi anni per gestire il cumulo di squilibri nei rapporti di credito e debito e garantire la solvibilità delle istituzioni finanziarie. Molti sono gli indizi che l’Unione sia inadeguata ad affrontare eventuali nuove crisi bancarie, e in letteratura è largamente condivisa l’idea secondo cui il sopraggiungere di tali crisi può alimentare fughe di capitali di tale portata da rendere inevitabile l’abbandono di regimi di cambio fisso o unioni monetarie. Detto in poche parole, un Paese dell’Unione potrebbe vedersi costretto a ripristinare il controllo nazionale sulla moneta per brutali e urgenti esigenze di ricapitalizzazione e stabilizzazione del settore bancario. È questa in fin dei conti la tesi che venne avanzata dall’Fmi nel 2012, e che è stata riproposta dal “monito degli economisti” pubblicato nel 2013 sul Financial Times [2].
Se questo scenario è ritenuto verosimile, il gioco di fazioni perde un po’ di consistenza: anche le forze favorevoli alla permanenza nell’euro sarebbero costrette a dotarsi di qualche “piano B”.
In cosa dovrebbe consistere tale “piano”? In fondo si tratta di risolvere il vecchio problema delineato da Padoa Schioppa e altri: tra piena apertura ai movimenti di merci e di capitali, cambi fissi e politica monetaria nazionale autonoma, sono compatibili tra loro solo due opzioni su tre. Se la soluzione della delega della politica monetaria a un ente sovranazionale come la Bce fallisce, c’è chi sostiene che basterà abbandonare la logica dei cambi fissi e affidare i movimenti valutari al gioco del mercato e degli speculatori. Ad avviso mio e di altri, questa strada porterebbe nuovi problemi senza risolvere i vecchi. Molto meglio recuperare alcuni spunti recenti dell’Fmi e iniziare a ragionare sul ripristino di controlli sulla circolazione internazionale dei capitali.
Note
1. Rassegna ed evidenze empiriche contenute in Brancaccio, E., Garbellini, N. (2015). Currency regime crises, real wages, functional income distribution and production. European Journal of Economics and Economic Policies: Intervention. Vol. 12, 3.
2. Aa.Vv. (2013). The economists’ warning: European governments repeat mistakes of the Treaty of Versailles, Financial Times, September 23 (www.theeconomistswarning.com).
Fonte
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