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18/05/2017

Il pesce puzza dalla testa

“La politica”, nell’Occidente capitalistico, è attività moribonda. I partiti storici (con un briciolo di orizzonte ideale e programmatico) svaniscono, così come gli altri corpi intermedi (sindacato, in primo luogo) che traducevano interessi sociali differenti, ma visibili e legittimati, in progetti di governo. Con molte mediazioni, certo, ma con qualche obiettivo raggiungibile.

In Francia emerge un giovane “senza partito” ma con robustissimi sostenitori finanziari, nazionali e non. Negli Usa un vecchio palazzinaro nazionalista sbaraglia repubblicani e democratici, gettando nello sconcerto un’amministrazione statale abituata a dettare l’agenda del mondo. In Italia l’offerta politica “di governo” è limitata ancora a un Renzi, abile nello “scalare” il Pd come una società quotata in borsa, ma che non riesce a risalire la china del dopo-referendum.

C’è un legame tra questi fenomeni? Cominciamo dall’Italia, per ovvi motivi d’attualità...

Non ci sarebbe motivo di occuparsi della telenovela “Io e ‘l mi babbo” se non fosse per quel ronzio che fa scattare nella testa, riportando in superficie il vecchio detto “il pesce puzza dalla testa”.

Avrete assistito nauseati a qualche decina di talk show o scorso distrattamente i titoli dei giornali. Sapete dunque l’essenziale: un ex premier ed ex segretario del Pd in attesa di rinomina ad entrambe le cariche prova a istruire il padre alla vigilia di un interrogatorio davanti ai giudici (che è cosa diversa da un’intervista a un giornale compiacente). Sgradevole, inopportuno, familistico, ma non un reato. Un fatto, però, indicativo di uno stile e di una certa visione delle cose. Un pasticcetto da pezzenti che neanche suppongono di poter essere intercettati pur essendo uno dei due (Tiziano Renzi) coinvolto in un’indagine dai pesanti risvolti politici, sia per la cosa in sé (gli appalti Consip, ossia la corruzione ai vertici della “centrale acquisti dello Stato”), sia per il ruolo rivestito dall’altro (Matteo) negli ultimi anni.

A colpire è dunque lo scarto abissale tra l’oggetto della conversazione (“Devi dire tutta la verità ai magistrati, non puoi dire che non conosci Mazzei perché lo conosco anche io. Devi ricordarti tutti i nomi e tutti i luoghi, non è più la questione della Madonnina e del giro di merda di Firenze per Medjugorie”. Fino al patetico: “Non dire di mamma, se no la interrogano”) e la figura pubblica di un “leader” che si presenta come amico di Obama e Macron, che può chiamare Putin e la Merkel, interloquire con mezzo mondo.

Si capisce che il padre è figura “di paese”, faccendiere di piccolo cabotaggio che nel momento in cui si ritrova un figlio presidente del Consiglio pensa di poter “allargare” il giro dei propri affari, invece di ritirarsi in buon ordine per non dare fastidio a una carriera fulminante che non può mancare di portare vantaggi di ogni tipo anche ai familiari più stretti.

Stupisce, semmai, che il figlio non l’abbia “interdetto” – politicamente e come sistema di relazioni – nel momento stesso in cui ha varcato per la prima volta il portone di Palazzo Chigi. Non si può infatti correre il rischio di cadere dalla cima del potere politico – per quel che ne resta oggi – a causa di un familiare che non si rende conto dell’importanza della partita.

Stessa cosa per Maria Elena Boschi che contatta l’allora amministratore delegato di Unicredit per caldeggiare l’acquisizione di Banca Etruria, di cui il padre è vicepresidente. Come se fosse la cosa più normale del mondo, nonostante che la carica ricoperta in quel momento (ministro delle “riforme istituzionali e dei rapporti con il Parlamento”) tutto preveda meno che la soluzione dei problemi di singole banche, a partire da quella “di famiglia”.

Inutile vederla dal lato dei soggetti coinvolti (Renzi e Boschi sono giovani, disinvolti fino alla iattanza, indifferenti o ignoranti in materia istituzionale, “rottamatori” di ogni regola, ecc). Quello che stupisce è che personaggi del genere (“personaggetti”, li qualificherebbe il Crozza-De Luca) siano stati scelti ed elevati ai vertici dello Stato. Come se l’establishment non avesse trovato di meglio sul mercato degli aspiranti politici di successo. Oppure – più probabile – come se i selezionatori avessero commesso un errore imperdonabile, scambiando i difetti per pregi, nell’ansia di confezionare un prodotto inequivocabilmente “nuovo”, “giovane”, “simpatico”, “fresco”.

Alziamo gli occhi dalla triste Italietta. I cugini francesi hanno trovato un equivalente ben più credibile. Emmanuel Macron è, sì, giovane, ma può vantare un curriculum “classico” che oltralpe è assolutamente obbligatorio: si è laureato all’Ena (scuola di alti studi dell’amministrazione pubblica), ha lavorato per la banca Rothschild (ma un’altra qualsiasi, di pari livello, sarebbe andata bene lo stesso), era stato chiamato da Hollande e Valls a fare il ministro dell’economia, sa recitare meglio di Renzi (variando il registro tra il comizio e l’appuntamento istituzionale).

Quasi uno statista, insomma, per quanto di basso conio rispetto ai grandi del passato (da De Gaulle a Mitterand), non un maneggione di provincia. Uno scelto per fare della Francia quel che il capitale finanziario e multinazionale ha deciso, senza indugi e senza mezze misure. Non un pastrocchiatore intento a mediare tra gli stessi ordini (Jobs Act e loi travail sono praticamente identici, e a Macron spetta l’ignominia di aver reso legale – come aveva fatto Mario Monti – il lavoro domenicale) con piccoli interessi familiari, clientelari, para-massonici.

Si capisce dunque facilmente perché, ora, una parte importante dell’establishment (con in testa il Corriere della Sera) stia impallinando il contafrottole di Rignano sull’Arno, complicandone terribilmente la via del ritorno alla guida del paese.

Alzando ancora di più il punto di osservazione si nota un filo conduttore tra i problemi di Renzi, l’ascesa di Macron e le defaillance di Trump sull’intelligence. Se il 2016 è stato segnato da una serie clamorosa di sconfitte dell’establishment imperialista (Brexit, elezioni Usa, referendum italiano, crescita dei “populisti” da entrambe le sponde dell’Atlantico), il 2017 è percorso da un’ansia di restaurazione, di ripristino e rafforzamento della governance (termine che indica la gestione aziendale, ovviamente verticistica e per definizione “non democratica”).

Una restaurazione che negli Usa sembrare bruciare le tappe verso l’impeachment del palazzinaro col ciuffo, mentre in Europa si blinda nuovamente l’”asse franco-tedesco” in vista di una riscrittura dei Trattati ancora più verticistica, autoritaria, a-democratica (Schaeuble ha spiegato chiaramente che i prossimi trasferimenti di sovranità dagli Stati all’Unione dovranno essere sottratti al voto dei singoli Parlamenti nazionali e, ancor più, ai referendum popolari).

Non sarà semplice imporre questo nuovo giro di vite senza suscitare forze eguali e contrarie (“populismi” di destra e ancor più “di sinistra”), ma non sembra che l’establishment multinazionale abbia altre possibilità.

Di certo, comunque, a questo livello non servono più ominicchi che non sanno tenere distinti gli affari internazionali e quelli familiari.

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