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05/09/2017

“Indivisibili”, la mediocrità elevata ad opera d’arte

Chiariamolo subito. Ho guardato Indivisibili, film di Edoardo De Angelis del 2016, con tutte le buone intenzioni, nonostante che l’endorsement del sopravvalutatissimo, a mio parere, maestro Sorrentino, che lo avrebbe voluto agli Oscar al posto di Fuocoammare di Rosi, e la strombazzante esultanza dei media mainstream mi avessero profondamente infastidito e dato la quasi certezza che la pellicola non mi sarebbe piaciuta. E, difatti, non solo non mi è piaciuta ma mi ha intimamente irritato proprio in ciò per cui è stata tanto fragorosamente acclamata dalla critica festivaliera: il suo risvolto, diciamo così, ideologico.

Film, dunque, misteriosamente – o forse, considerata l’epoca culturalmente tanto modesta, dovrei dire “logicamente” – osannato e premiato con sei David di Donatello. Indivisibili è, a mio discutibilissimo parere, la mediocrità di un postmodernismo di risulta, col gusto della citazione posticcia, elevata ad opera d’arte cinematografica. Un film che, appunto nel suo approccio ideologico, lungi dal restituire l’immagine struggente, lancinante, commovente, di uno squallore che pretenderebbe di mostrare nella sua cruda realtà sottoproletaria – quella di un Sud marginale ed emarginato – materialmente e simbolicamente reso attraverso l’ostensione corporea della deformazione che affligge le gemelle siamesi, protagoniste del film (Dasy e Viola), finisce per speculare proprio su quella dimensione liminare e su quell’algia sociale e umana, che martoriano il nostro meridione. Condizioni, queste ultime, illustrate oleograficamente dall’alto di una paternalistica sicurezza borghese, che spazientisce non poco.

Indivisibili risulta, perciò, un lavoro privo di originalità espressiva, mancante di quell’autenticità necessaria per fare di un “prodotto artistico” un’opera d’arte, quale si vorrebbe fosse, e la cui cifra stilistica sembra essere l’approssimazione – il sincretismo linguistico-formale abbisognerebbe di ben altro spessore creativo – ma soprattutto costruito in assenza di quell’afflato poetico che i media, la critica di regime e il premio Oscar Sorrentino gli hanno voluto riconoscere.

Un film, spiace doverlo sottolineare, ancora una volta ispirato, invece, dal Mercato, dalle sue indagini, dalle sue regole, da leggi sul cinema – regionali e nazionali – rigidamente elaborate seguendo le assurde logiche del profitto e del ritorno economico, anche attraverso l’indotto turistico.

Considerazioni politico-finanziarie a parte, Indivisibili, nella sua impalcatura formale, si connota come un ibrido garroniano-sorrentiniano, mancante dello sporco realismo del primo – si veda l’esulcerante e a tratti ripugnante L’Imbalsamatore dell’esordiente Garrone, con un grandissimo Ernesto Mahieux – e dell’estetismo baroccheggiante, ancorché autocompiaciuto, del secondo. Una indigesta miscela di generi che rimesta e rielabora, senza mai preoccuparsi di dare omogeneità al tutto, stilemi, linguaggi, cifre registiche, registri recitativi e, addirittura, arcaismi antropologici di matrice magico religiosa, alla De Martino.

Si passa, senza soluzione di continuità, dalla tragedia esistenziale alla sterile denuncia sociale, dagli accenti melodrammatici al grottesco, purtroppo involontario, dal dramma familiare di estrazione piccolo-borghese, ai toni surreal-espressionistici alla Marco Ferreri, dal minimalismo poetico di matrice pasoliniana alla visionarietà freak di un Francis Bacon, fino alla spettacolarità kitsch tipica del talent televisivo e all’improvviso e malriuscito parossismo della sceneggiata, in salsa religiosa.

Un neo-neorealismo in cadenze neomelodiche e con venature trash, di cui sfugge, per quasi tutto il film, il senso profondo che, sono certo, pur ci sarà. Un film noioso, quasi avvilente, nel suo incedere per strappi illogici e mai funzionali, nel suo eccedere l’ambito ed il contesto della storia narrata. L’ambientazione in uno dei luoghi più desolati dell’hinterland partenopeo, quella Castel Volturno spesso assurta ai tristi onori della cronaca per fatti di camorra e per essere centro di sfruttamento della prostituzione, non trova mai la sua piena giustificazione nell’interazione osmotica tra personaggi e cornice sociale, tra Storia e Natura.

Gli elementi che dovrebbero andare a comporre l’architettura del film sembrano infatti cozzare e respingersi vicendevolmente, sospinti da una sorta di vortice centrifugo, che non consente di percepire la visione d’insieme. In tal modo, ad esempio, le prove dei singoli interpreti si attestano su registri recitativi e linguistico/vernacolari eterogenei, dimensionati su una cifra personale ma quasi mai coerente, tanto con il contesto socio-culturale (dunque, extra-testuale) in cui si svolge la vicenda, quanto con i coefficienti cotestuali (intra-testuali) che determinano o dovrebbero determinare le relazioni espressivo-recitative tra gli attori. Insomma, ciascuno sembra imboccare una propria corsia interpretativa ed espressiva, che raramente si ricongiunge all’arteria principale su cui corre la storia.

Brutto risultato, da attribuirsi non solo ad una regia che sembra non sapere, come si accennava, che direzione prendere, ma anche ad una scrittura filmica – attorno a cui si condensa il lavoro attoriale – che, disattendendo le premesse e gli intenti pur importanti che il soggetto prometteva di sviluppare, si sgretola, messa di fronte all’arduo compito di dover raccontare, con sguardo analitico eppur doloroso, partecipato ma critico, privo di superfetazioni enfatiche ma commosso, una realtà dura, sia esistenziale che socio-culturale, procedendo per cliché e immagini stereotipate, prodotto di un immaginario estetico, mai etico.

Ne consegue che, se la prova delle due gemelle siamesi, protagoniste del film – Dasy e Viola (Marianna e Angela Fontana) – qualche sussulto lo regala, resta per me un oscuro dogma della fede critico/cinematografica il secondo David di Donatello attribuito ad Antonia Truppo, dopo quello vinto con l’altro sovrastimato Lo chiamavano Jeeg Robot, trionfatore della manifestazione nell’anno in cui nulla raccolse l’ultima opera – quella sì, un capolavoro per la profondità intellettuale ed emozionale raggiunta nel toccare temi scottanti e mai banalizzati o superficialmente resi attraverso la loro rielaborazione estetica e linguistica – di un Maestro come Calligari: “Non essere cattivo”. Dogmi del mercato globale!

Ma tornando ad Antonia Truppo – che pure mi dicono brava a teatro, dov’è stata allieva del grande Carlo Cecchi – devo ammettere che le sue prove al cinema (Luna Rossa, La doppia ora e il già menzionato Lo chiamavano Jeeg Robot) non mi hanno mai entusiasmato. Sensazione, questa, confermata anche dalla pellicola in parola. La sua recitazione antinaturalistica, “a gettare” – nel senso di sbarazzarsi, benianamemte, della figura retorica del personaggio – sporca, artaudiana, che vorrebbe e dovrebbe restituire quel senso di crudo, incandescente, realistico, orrorifico naufragio joyciano, di cui è intessuta la vita intima dell’uomo contemporaneo (marcusianamente a una dimensione) non è sostenuta né da una sapienza tecnica tale né da un istinto recitativo “animale” che le consentirebbe di scavare tra le molteplici pieghe dell’anima e, attraverso il “vibrato”, tanto corporeo quanto vocale, di regalarci quella musica delle emozioni fisiche, ancor prima che psichiche, che si vorrebbe far ascoltare allo spettatore.

In questo Indivisibili, la Truppo – madre delle gemelle siamesi – recita come rapita da un perenne stato di estasi catatonica, non giustificabile (condizione depressiva a parte) con le troppe canne fumate. Semmai posture, languidezze e sciatterie tanto evidenti andrebbero collegate ad un abuso di eroina. Ma sorvoliamo.

D’altro canto, seppur apprezzabile per la buona volontà, Massimiliano Rossi – il papà delle due ragazze – non riesce a sentire dentro di sé quelle ancestrali voci di violenza patriarcale che farebbero del suo personaggio un padre-padrone insostenibile e viscido, collerico e sfruttatore. Quel Padre padrone descritto da Gavino Ledda nell’omonimo romanzo, trasposto cinematograficamente da Paolo e Vittorio Taviani e magistralmente interpretato, nel 1977, da Omero Antonutti. Altro cinema. Altra Italia!

A Rossi manca, ovviamente, quello stesso spessore interpretativo, ma la regia non lo guida a dovere. Assistiamo, così, ad un padre che si avvicina più all’eduardiano e piccolo-borghese Gennaro Jovine, di Napoli milionaria, che ad un esponente di quel lumpenproletariat brutto, sporco e cattivo, immorale e disposto a tutto pur di far soldi. Oscillante tra improvvisi ed improvvidi eccessi espressivi, sospesi tra la rabbia ed il sentimento di sconfitta incombente. Stessa indefinibilità accompagna il prete, interpretato da Gianfranco Gallo, connotato più come un capobastone che come un sacerdote.

In conclusione, una pellicola disomogenea, sfilacciata, che smarrisce sé stessa in mille rivoli, senza mai trovare la foce che lo possa condurre in quel mare aperto dove la tempesta delle emozioni possa alzare onde tali da sommergerci, lasciandoci, poi, catarticamente riemergere come da un lavacro.

Resta inspiegabile, dunque, per chi scrive, la grancassa mediatica e critica che ha accompagnato l’uscita di un film che può essere considerato, ripeto, un poco più che trascurabile prodotto nel mare magnum dell’industria cinematografica. Non certo, quell’opera d’arte che si pretende che sia.

Con tali parametri di giudizio, va detto chiaro, si fa del male al cinema italiano. Non se ne risollevano di sicuro le sorti. Ma la merce è merce e il denaro ha le sue regole. Come diceva Carmelo Bene: «Non si scampa alla volgarità dell’azione, alla scoreggia drammatica della rappresentazione di Stato. Si è in balia del mondano e… c’è bisogno di soldi. Non si può che trovarsi in malafede».

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