19/09/2017
Dall’URSS alla Russia
«Culto della personalità» – 1952: la Pravda pubblica sei volte il ritratto di Stalin; 1964: 147 volte quello di Khruščëv
Dietro le quinte di una cosiddetta “formazione dei militanti” sul tema della storia dell’URSS, si contrabbandano spesso trotskismo, khruščëvismo e gorbačëvismo. Presentando la storia sovietica come un percorso “Dal capitalismo al socialismo e viceversa”, da posizioni idealistiche si attribuisce l’evoluzione e la successiva involuzione dell’esperienza socialista in URSS a soli fattori soggettivi, secondo la vulgata di una presunta “bontà innata” di chiunque si sia opposto a quelle che vengono definite le “criminali” scelte politiche ed economiche della leadership sovietica durante il trentennio in cui Stalin fu a capo del PCR(b).
Di contro, si è tentato di illustrare sommariamente come quelle scelte riflettessero reali rapporti tra le classi sociali, così come si evince da alcune fonti sovietiche. Delimitazione cronologica e schematizzazione tematica sono soggettive e solo indicative del tema.
1932: sul numero 1-2 della rivista “Sotto le bandiere del marxismo”, compare l’articolo di M. Korneev Il secondo Piano quinquennale e l’eliminazione delle classi, che illustra la politica di trasformazione delle campagne in URSS, basata sulla collettivizzazione delle piccole aziende individuali e la definitiva eliminazione dell’ultima classe sfruttatrice rimasta, quella del kulak, i contadini ricchi.
1974: intrattenendosi con lo storico Felix Čuev, l’ex membro del Politbüro, ex presidente del Consiglio dei commissari del popolo ed ex Ministro degli esteri sovietico Vjačeslav Molotov afferma: “contrappongono Stalin a Bukharin e a Dubček: sono i destri che lo fanno – i residui di kulak non liquidati. Khruščëv non è stato casuale. Il paese è contadino e la deviazione di destra è ancora forte. E’ pienamente possibile che tra pochissimo tempo vadano al potere gli antistaliniani, i bukhariniani. Le classi sfruttatrici non erano completamente debellate e questo si rifletteva nel partito. Atteggiamenti kulak ce ne sono ancora a bizzeffe nel partito”.
Tra queste due date c’è il decennio dell’industrializzazione, grazie a cui l’URSS riesce a sconfiggere il nazismo; c’è l’ingerenza, ideologica e materiale, USA: la CIA, sin dal 1957, aveva stilato l’elenco delle zone di Ucraina e Bielorussia “ottimali” per azioni armate di sabotatori; c’è l’aperto revisionismo politico-ideologico khruščëviano e l’inizio di quelle “riforme” economiche di mercato che, approfondite negli anni ’60 e ’70, porteranno alla degenerazione del modello di sviluppo pianificato, alle convulsioni della perestrojka, con il collasso economico e sociale, e, infine, all’aperta controrivoluzione yankee-eltsiniana a colpi di cannone nel 1993.
L’articolo di Korneev appare quasi in contemporanea alla XVII Conferenza del partito, che fissa il principale risultato della 1° Pjatiletka (il piano quinquennale 1928-1932), oltre che nell’eliminazione della disoccupazione nel 1931 – l’83% degli operai passa alla giornata lavorativa di 7 ore – nello “sradicamento definitivo del capitalismo nelle campagne, anteprima della completa liquidazione degli elementi capitalistici e della piena eliminazione delle classi”. Questo significa che la questione leniniana “kto-kogo” (“chi avrà il sopravvento”) è risolta “a discapito del capitalismo e a favore del socialismo pienamente e irreversibilmente. Si sono complessivamente eliminate le classi parassitarie e lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo”. Eliminati disoccupazione e pauperismo, si eliminerà anche la forbice dei prezzi tra città e campagna, mentre aumenta il benessere di operai e contadini. Korneev scrive che l’industria pesante passa dal 48,5% di tutta l’industria nel 1930 al 52,2% nel 1932; gli operai da 8,5 milioni nel 1925 a 21 milioni nel 1932 e ricorda Lenin, secondo cui “Finché saremo un paese di piccoli contadini, ci sarà una base economica più solida per il capitalismo che non per il comunismo”. Dunque, non si potrà risolvere la questione “kto-kogo” finché coesisteranno un’industria socialista e piccole aziende contadine individuali. Di fatto, a fine 1931 oltre il 60% dei contadini sono entrati nei kolkhoz, passati da 57.000 nel 1929 a 224.500 nel 1932 (saranno 250.000 due anni più tardi): le aziende collettivizzate erano il 3,9% nel 1929 e il 65% nel 1933.
Eliminare il kulak
Il kulačestvo, scrive Korneev, è praticamente eliminato e si sono sostanzialmente chiusi i canali per la formazione delle classi nelle campagne. Per la definitiva soppressione delle classi, occorre la completa eliminazione degli elementi capitalistici, soprattutto nelle campagne e la piena liquidazione delle cause che generano le differenze di classe. Si andrà così alla collettivizzazione integrale, cioè alla trasformazione della massa lavoratrice contadina in lavoratori della società socialista senza classi: ciò grazie soprattutto alla meccanizzazione delle campagne e alla trasformazione del lavoro agricolo in lavoro industriale. Si riconosce tuttavia che rimangono ancora elementi kulak: non basta aver tolto loro la base economica, perché manterranno a lungo i propri caratteri politici e ideologici. Si sostiene dunque la necessità di socializzare i mezzi di produzione anche nelle campagne e nei kolkhoz, per eliminare la possibilità del risorgere delle classi. Si deve trasformare il piccolo contadino in operaio, scrive Korneev, anche se questi non ha completamente perso i caratteri di classe del piccolo agricoltore individuale; ciò perché, a eccezione della terra, proprietà dello stato, gli strumenti di lavoro sono ancora proprietà del singolo kolkhoz: da qui l’atteggiamento da piccolo proprietario, rafforzato dal fatto che solo una piccola quota di prodotto finisce nel fondo sociale e il resto va al singolo kolkhoz. Occorre dunque trasformare i kolkhoz in imprese statali socialiste, attraverso le MTS, le Stazioni di macchine e trattori: se nel 1929 ne era stata allestita appena una, nel 1931 erano già 1.400, che affidavano ai kolkhoz oltre 100.000 trattori (saranno oltre 500.000 nel 1936, con mietitrebbie e altri macchinari). Il lavoro agricolo comincia a trasformarsi in lavoro industriale; si era insomma nella fase che, nel 1929, scrivendo delle Questioni di politica agraria dell’URSS, Stalin aveva così caratterizzato: “Ecco perché negli ultimi tempi siamo passati dalla politica di limitazione delle tendenze sfruttatrici del kulak, alla politica di liquidazione dei kulak come classe”.
Con la 2° Pjatiletka, afferma Korneev, terra e strumenti di lavoro dovranno essere statali, con macchinisti e trattoristi che diventeranno simili a tutti gli altri lavoratori industriali, abbandonando l’atteggiamento individualista e lo spontaneismo piccolo-borghese, aiutati in ciò dalla competizione socialista dei lavoratori d’assalto.
Korneev mette comunque in guardia sul fatto che nella 2° Pjatiletka la forza lavoro arriverà all’industria dalla campagna e porterà con sé “le tradizioni del produttore individuale, dell’ugualitarismo, della psicologia del servo: lavorare il meno possibile e arraffare dallo Stato proletario quanto più possibile”. E’ quindi necessario “educare al nuovo atteggiamento verso il lavoro e alla nuova disciplina socialista di lavoro”. Per lo più i kolkhozniki sono infatti i piccoli contadini di ieri e, oltretutto, i residui kulak all’interno dei kolkhoz sobillano a favore della uravnilovka (l’ugualitarismo del piccolo proprietario) per privare i kolkhozniki dell’interessamento al lavoro socialista e ridurre produttività e qualità del lavoro.
Già alla XVII Conferenza si era parlato dell’inasprimento della lotta di classe e dell’influenza di elementi capitalistici: da qui, la necessità di rafforzare la dittatura del proletariato e l’ulteriore lotta contro l’opportunismo e la deviazione di destra – in ragione del fatto che il proletariato russo ha contro di sé sia il capitalismo russo, sia quello internazionale. Dunque: necessità di rafforzare lo Stato proletario contro a) resistenza del kulak, b) spontaneismo piccolo-borghese, abitudini e pregiudizi dei kolkhozniki, creati da secoli di aziende individuali; c) sopravvivenze del capitalismo; d) borghesia internazionale. Permangono inoltre le differenze tra lavoro qualificato e non; la contraddizione tra città e campagna, tra lavoro fisico e intellettuale; permane “l’orizzonte limitato del diritto borghese” – i prodotti si distribuiscono in base al lavoro e non alle necessità – per cui lo Stato si conserverà finché gli individui non lavoreranno volontariamente in base alle capacità, senza obbligarli a rispettare la disciplina di lavoro comunista. La funzione dello Stato decade quale organo di classe all’interno dell’URSS, ma esso non perde il carattere di classe nei confronti del capitalismo internazionale. Sul piano ideologico, scrive Korneev, se la deviazione di “sinistra” è pericolosa per la sua predica dell’ugualitarismo, contro la competizione socialista, la deviazione di destra rimane quella principale, perché riflette l’elemento piccolo-borghese e sottovaluta i residui di capitalismo, rinuncia alla lotta di classe contro il kulak, al superamento della mentalità da piccolo proprietario all’interno dei kolkhoz: rinuncia insomma a lavorare in base alle “sei condizioni” indicate da Stalin.
Le 6 condizioni di Stalin
Quelle sei condizioni vengono illustrate da D. Bilenkin nel numero 3 della rivista e, d’altronde, Stalin le aveva esposte nel 1931 in Nuova situazione – nuovi compiti dell’edificazione economica. Stalin constatava che, se alcuni settori industriali registravano una crescita del 40-50%, altri si fermavano al 6-10% e ciò perché molti dirigenti sottovalutavano 6 nuove condizioni venutesi a creare. 1) forza-lavoro: cessata la fuga dalla campagna, perché si è liquidata la disoccupazione, eliminate le differenze di classe, meccanizzato il lavoro. 2) salario: si deve contrastare la tekučest, la fluttuazione dei lavoratori, migliorando la distribuzione salariale e contrastando la uravnilovka, il non riconoscimento del lavoro qualificato, del lavoro pesante; 3) organizzazione del lavoro: occorre eliminare la obezlička, la mancanza di responsabilizzazione personale, senza con ciò intaccare la nepreryvka, la produzione ininterrotta, attraverso un’adeguata distribuzione delle forze-lavoro; 4) intelligentsia operaia: il Donbass non è più sufficiente a rifornire l’industria di metalli e carbone; si aprono nuovi bacini – Kuzbass, Siberia, Kazakhstan, Turkestan – e occorrono quindi milioni di nuovi tecnici e ingegneri, una nuova intelligentsia di classe; 5) si deve curare quella parte della vecchia intelligentsia borghese, ora ben disposta verso il potere sovietico. 6) khozrasčët, autofinanziamento o rendimento commerciale, quale fonte di accumulazione per l’industria: varie imprese hanno smesso di operare in base a categorie quali “riduzione dei costi improduttivi”, “razionalizzazione della produzione”. Bisogna disarticolare i grossi complessi industriali in cui un unico direttore dirige 100-200 aziende e non le conosce dall’interno: passare dalla direzione collegiale, fatta di chiacchiere e non di lavoro, a quella individuale, effettiva.
Bilenkin, in Sulle sei condizioni storiche del compagno Stalin, scrive che nel 1926-’27 non c’erano le condizioni per liquidare il kulak e “scorticarlo” (espressione dei trotskisti), perché kolkhoz e sovkhoz non erano ancora in grado di sostituire il grano del kulak con la propria produzione. Sul rapporto tra industria socialista e agricoltura e i ritmi di sviluppo industriale, cita quanto detto da Stalin nel 1928: “Non si può continuare a lungo a basare il potere sovietico e la costruzione del socialismo su due diverse fondamenta: grande industria socialista ed economia contadina parcellizzata, piccolo-mercantile. La soluzione è la trasformazione socialista dell’agricoltura”. Così, la superficie seminativa collettiva passa dal 40% nel 1930 al 69,8% nel 1931. Bilenkin denuncia però che in molti kolkhoz la forza produttiva è utilizzata al 45%, a causa di uravnilovka e disorganizzazione; parla della tekučest e dice che la uravnilovka salariale, predicata dai trotskisti, è la concezione del piccolo contadino, secondo cui si deve gettare tutto il prodotto in un unico calderone e poi dividerlo in parti uguali e non in base al lavoro svolto da ognuno; denuncia la obezlička, causa dell’aumento dei costi di produzione; mentre è iniziata la qualificazione tecnica di oltre 4 milioni di operai.
La nuova condizione operaia
Nel 1932 si può affermare che cresce “di anno in anno il benessere e il livello culturale degli operai e dei contadini, cala la mortalità e cresce rapidamente la popolazione”. A metà degli anni ’20, i salari erano già più alti rispetto al 1917; gli operai avevano due settimane di ferie pagate e la giornata lavorativa di 8 ore. Diminuiscono significativamente gli stipendi dei tecnici e cala così la forbice coi salari operai, più alti di quelli degli impiegati, anche se, si dice, le differenze salariali sono uno stimolo alla qualificazione. Se nel 1897 il 55% delle donne salariate era costituito da domestiche al servizio di nobili e ricchi, con un 25% di braccianti e un 17% di operaie, nel 1929 il 52% delle donne lavora nell’industria, il 22% nella sanità e istruzione e il 7% nell’amministrazione.
E’ così che sul numero 1 del 1935 di “Sotto le bandiere del marxismo”, titolando La dittatura del proletariato cambia il volto della classe operaia, P. Olešinskij cita Molotov, che al VII Congresso dei Soviet dell’URSS (genn-febb. 1935) afferma che la struttura sociale del paese è mutata: “gli elementi borghesi sono solo quasi un ricordo”. E’ raddoppiata la popolazione proletaria rispetto al 1913 e i kolkhozniki costituiscono più della metà della popolazione: le due classi insieme ne rappresentano oltre i ¾. Ma, soprattutto, è mutata la loro funzione: al 1933, oltre 700.000 tra operai e figli di operai hanno responsabilità dirigenziali: a capo di grossi complessi industriali, specialisti con istruzione superiore; governatori di regione o di repubblica; giudici, magistrati, insegnanti, scienziati o dirigenti sindacali o di partito, medici; il 42% degli alti gradi militari. Una spinta in questa direzione era venuta nel 1928: dopo “l’affare di Šakhty” (il centro minerario del Donbass in cui si erano verificati atti di sabotaggio da parte di specialisti borghesi), Stalin aveva lanciato lo slogan della creazione di una nuova intelligentsia tecnica, scelta tra la classe operaia. “Bisogna aver cura di ogni lavoratore capace e comprensivo” aveva detto Stalin; “le persone si devono coltivare con cura e attenzione, come il giardiniere coltiva la pianta da frutto prescelta. Educarle, aiutarle a crescere, dare prospettive, farle avanzare per tempo e per tempo trasferirle a un altro lavoro, se non riescono nel loro”. La svolta rispondeva a una precisa linea di classe: Olešinskij cita l’aforisma di Lenin, in Riusciranno i bolscevichi a conservare il potere statale?, a proposito della massaia che dirigerà lo Stato e il successivo, al III Congresso dei Soviet nel gennaio 1918, per cui il potere sovietico sarà forte di un numero sempre maggiore di individui “liberatisi completamente dal vecchio pregiudizio borghese secondo cui un semplice operaio o contadino non può dirigere lo Stato. Può e imparerà, se ci si metterà”. Per cui, nota Olešinskij, la dittatura del proletariato cambia radicalmente la situazione della classe operaia: ora classe dominante che, detenendo i mezzi di produzione sociali, muta i fondamenti della struttura sociale.
Anche l’editoriale del secondo numero della rivista, con Vigilanza bolscevica, inizia con Vjačeslav Molotov che, parafrasando Lenin – “La Russia della NEP è diventata la Russia socialista” – illustra le caratteristiche del paese, divenuto industriale; liquidati gli elementi capitalisti; sconfitto e sostanzialmente liquidato il kulak; nel commercio, liquidato il settore capitalistico privato, quello sovietico è ora l’unico tipo sviluppato. Al nemico di classe sconfitto è stata tolta la base economica; ma sarebbe un “rozzo travisamento del bolscevismo cadere in un opportunistico autocompiacimento e credere che la lotta di classe nel nostro paese sia terminata”. Il nemico di classe è sconfitto, ma non annientato, scrive l’editoriale; le sopravvivenze del capitalismo sono vive nelle coscienze. I resti delle classi sfruttatrici non sono del tutto eliminati: “non è completamente cessato il processo di nascita di nuovi elementi capitalisti, dal momento che esiste ancora una piccola agricoltura sminuzzata, un artigianato, dei falsi artel”.
Ricordando come al Plenum del gennaio 1933 Stalin avesse ammonito sull’inevitabilità dell’inasprimento della lotta di classe nella 2° pjatiletka, si scrive che possono risvegliarsi anche i gruppi sconfitti dei vecchi partiti controrivoluzionari – socialisti rivoluzionari, menscevichi, nazionalisti borghesi – insieme alle schegge dell’opposizione controrivoluzionaria trotskista e deviazionista di destra. Contro questo pericolo, si conta sul largo coinvolgimento di vaste masse di operai e kolkhozniki nell’apparato statale sovietico e l’elevamento ideologico dei membri del partito.
Quindi V. Berestnev, sul n.3 della rivista, in La logica della lotta di frazione, ripete l’ammonimento di Stalin e il compito lanciato dal XVII Congresso del partito (1934) sul rafforzamento del “lavoro ideologico a tutti i livelli”. Cita Stalin sulle “due stabilizzazioni: quella temporanea del capitalismo e la stabilizzazione del sistema sovietico”. Alla XIV Conferenza di partito (1925), Stalin aveva detto che “nel paese ci sono due gruppi di contraddizioni: interne, tra proletariato e contadini, ed esterne, tra il paese del socialismo e i paesi del capitalismo”. Alla domanda se sia possibile costruire il socialismo, “il leninismo risponde affermativamente, dato che proletariato e contadini, oltre che contraddizioni, hanno interessi comuni, consistenti nel fatto che la dittatura del proletariato assicura lo sviluppo dei contadini sulla via del socialismo, nonostante che parte dei contadini medi ondeggi verso il kulak. Il trotskismo nega invece la possibilità di costruire il socialismo in un paese solo, mutuando dai menscevichi la negazione del ruolo dei contadini. La strada del partito è quella della lotta contro il kulak, per il suo isolamento politico, attraverso l’alleanza della classe operaia con le masse di contadini medi, facendo perno su quelli poveri”. Questo non aveva nulla in comune con le teorie dei bukhariniani, a metà degli anni ’20 che, con lo slogan “arricchitevi” rivolto ai contadini, negavano l’esistenza della lotta di classe nelle campagne e parlavano di pacifica integrazione del kulak nel socialismo, revisionando così la teoria leninista sulla natura della piccola agricoltura mercantile che genera spontaneamente il capitalismo. Nulla in comune con le affermazioni di Zinovev che, nello stesso periodo, intendeva la NEP come capitalismo e ne negava il carattere temporaneo; mentre nel 1923 invitava a “inchinarsi” di fronte al contadino, nel ’25 sostituiva allo slogan leniniano dell’unione col contadino medio, quello della sua neutralizzazione: in pratica, liquidare la politica del partito nelle campagne.
L’industrializzazione
In ogni caso, il XIV Congresso del 1925 è quello della svolta verso l’industrializzazione, con l’opposizione che però non crede all’egemonia del proletariato, alla possibilità di attrarre i contadini alla costruzione del socialismo e guarda a essi alla stregua di nemici, li considera “una colonia per l’industria di stato”, chiede l’aumento della pressione fiscale su di loro, che avrebbe portato al fallimento delle aziende contadine, a un restringimento del mercato, alla rottura dell’unione tra proletariato e contadini. Stalin aveva criticato queste posizioni al plenum allargato dell’Internazionale (1926) e, al XV Congresso del partito (1927), aveva detto che “le radici sociali dell’opposizione si celano nella rovina degli strati piccolo-borghesi della città, nella loro bramosia di “migliorare” lo Stato nello spirito della democrazia borghese. Con l’incremento del peso dell’economia socialista, una parte della piccola borghesia va in miseria; l’opposizione esprime lo scontento di questi strati per l’ordine della rivoluzione proletaria”. Al XVI Congresso (1930) Stalin caratterizza l’essenza del trotskismo come negazione della possibilità di costruire il socialismo da parte del proletariato in unione coi contadini, negazione della possibilità di attrarre masse rilevanti di contadini alla costruzione socialista.
Nessuna velleità soggettiva dunque, ma sempre istanze di classe, espresse da questo o quell’altro esponente dell’opposizione.
Nella sostanza, è ancora V. Berestnev che, nel n.6 della rivista, a fine 1935, in Il paese sovietico verso l’età adulta, traccia un panorama della nuova Russia, tornando a citare Molotov, secondo cui il socialismo nel nostro paese ha vinto definitivamente e irrevocabilmente. L’URSS, da paese in cui coesistevano sistemi economici diversi, si è trasformato in un paese in cui domina il sistema economico socialista, sulla cui base matura l’unità di interessi di operai e kolkhozniki. Il nostro paese, scrive Berestnev, celebra il 18° anniversario della Grande rivoluzione proletaria nel periodo di brusco mutamento sull’arena internazionale, nella lotta tra socialismo e capitalismo. Le contraddizioni del capitalismo hanno raggiunto un’asprezza inaudita; il fascismo celebra le proprie orge di sangue in tutta una serie di paesi. Ma “nella coscienza delle masse matura l’idea dell’assalto” (Stalin) e si cita l’esempio degli operai tedeschi e francesi, dei minatori asturiani, degli Schutzbund austriaci, dell’esercito rosso cinese.
Ricordando la parola d’ordine staliniana de “I quadri decidono tutto” e le realizzazioni tecniche, i grandiosi canali artificiali, il movimento stakhanovista, si cita Lenin, secondo cui “la produttività del lavoro è, in definitiva, la cosa più importante, la principale, per la vittoria del nuovo ordine sociale. Il capitalismo ha creato una produttività del lavoro inimmaginabile all’epoca della servitù della gleba. Il capitalismo sarà vinto definitivamente con la creazione da parte del socialismo di una nuova e molto più sviluppata produttività del lavoro”. (La grande iniziativa). L’URSS, scrive Berestnev, occupa il secondo posto mondiale dietro agli USA e il primo in Europa per produzione industriale e durante la 1° pjatiletka sono stati istruiti oltre cinque milioni di trattoristi e mietitrebbiatori. Nelle scuole, 25 milioni di giovani frequentano elementari e medie; negli istituti tecnici e superiori studiano 1.300.000 giovani; 8 milioni di bambini seguono le attività prescolastiche.
Il bilancio delle conquiste si avrà il 5 dicembre 1936 con l’adozione, da parte del VIII Congresso straordinario dei Soviet, della nuova Costituzione dell’URSS. Essa certifica come, in conseguenza dei mutamenti “sopravvenuti nell’economia dell’URSS, si è modificata anche la struttura di classe” della società e “parte dal fatto della liquidazione del regime capitalista, dal fatto della vittoria del regime socialista”, con la “proprietà socialista della terra, delle foreste, delle fabbriche, delle officine e degli altri strumenti e mezzi di produzione; soppressione dello sfruttamento e delle classi sfruttatrici”(Stalin). La nuova Costituzione, che sostituisce quella del 1924, approvata nel primo periodo della NEP, quando il kulak costituiva “ancora una forza abbastanza notevole”, quando ancora non si parlava di “liquidazione, ma soltanto di limitazione” del kulak, vede la luce “alla fine della NEP, nel periodo della completa liquidazione del capitalismo in tutte le sfere dell’economia” e registra il fatto che “nella società non vi sono più classi antagoniste, che la società è composta di due classi amiche l’una dell’altra, di operai e di contadini, che al potere vi sono precisamente queste classi lavoratrici, che la direzione statale della società (dittatura) appartiene alla classe operaia”(Stalin). Essa sancisce l’ulteriore democratizzazione del sistema elettorale, istituendo il suffragio universale, anche per chi, in passato, aveva sfruttato il lavoro altrui.
Eliminate le classi?
Dunque, all’inizio degli anni ’30, si parlava di quasi completa eliminazione delle classi. Ma, quarant’anni dopo, Molotov sosteneva che “Le classi sfruttatrici non erano completamente debellate. La deviazione di destra è ancora forte. Dove è la garanzia che non prenda il sopravvento?”. Di fatto, già con la svolta di Khruščëv, si era aperta la strada all’economia di mercato: soprattutto in agricoltura, si arriva al punto che, secondo l’Accademia delle scienze, a inizio anni ’60 i kolkhozniki guadagnavano meno della metà degli altri lavoratori; da qui la fuga dai kolkhoz e un esborso pari a 860 tonnellate di oro per acquistare il grano dai paesi capitalistici. In generale, se con Stalin i ritmi medi annuali di crescita erano del 10,6%, con Khruščëv scesero a meno del 5%. Sul piano politico: “competizione pacifica” con l’imperialismo, “passaggio pacifico”, “Stato e partito di tutto il popolo”, collaborazione tra le classi e smantellamento della dittatura del proletariato, rimossa anche formalmente dal programma del partito nel 1961.
Nel 1962 appare sulla Pravda l’articolo dell’economista Evsej Liberman “Piano-Profitto-Premio”; nel 1965 la rivista americana Time esce con la faccia di Liberman in copertina e la scritta “The communist flirtation with profits”. In estrema sintesi, la “riforma” Liberman-Kosygin (Aleksej Kosygin sarà primo ministro dal 1964 al 1980) tende praticamente a eliminare ogni regolamentazione nell’attività delle imprese, riducendo da 30 a 9 il numero degli indicatori stabiliti dal piano e puntando su categorie quali profitto, prezzo, premio, credito. Il fulcro del nuovo sistema risiede nell’autonomia delle imprese, nell’aumento di indicatori integrati di efficienza, quali profitto e redditività; agli indicatori della produzione lorda, subentrano quelli del valore venduto; criteri essenziali diventano reddito, redditività e produzione venduta – fattore principale diventa il profitto. Le aziende scelgono autonomamente come attuare il piano, in termini di valore e non di quantità.
Se negli anni ’30 e ’40 c’era un unico generale khozrasčët, autofinanziamento, ora la redditività dell’azienda deve essere assicurata dai prezzi di vendita all’ingrosso: le aziende decidono gamma e varietà di prodotti, numero di addetti, contratti con fornitori e acquirenti. La riforma Liberman-Kosygin sarà alla base delle “riforme” del 1987-1988, che spianano la strada al golpe yankee-eltsiniano. Il fatto inoltre che da tempo l’unità elettorale di base per i Soviet non fosse più il collegio produttivo (fabbrica, officina, ecc.) bensì quello territoriale, consente nel tempo l’inserimento negli apparati statale e di partito di elementi che non rispondevano più ai collettivi operai, bensì, col riprendere forza dell’economia privata (si calcola: circa il 40% negli anni ’80, con un crescente antagonismo di classe), agli interessi dei direttori di impresa e delle consorterie burocratiche a quelli legate.
Nel corso di una tavola rotonda svoltasi a fine 2016, il rappresentante del RKRP (Partito comunista operaio russo) affermava che si può riconoscere come socialista la natura sociale dell’URSS “perché: la proprietà privata dei mezzi di produzione era stata eliminata a metà degli anni ’30; l’economia nazionale era condotta secondo un unico piano; i prodotti erano distribuiti in base al lavoro, aumentava costantemente la quota di fondi di consumo pubblico e molti sussidi per assistenza sanitaria, alloggi e altro erano distribuiti in base ai bisogni; scopo della produzione non era l’utile della singola azienda, ma il benessere generale di tutta la società; non c’era disoccupazione: non agiva la legge generale dell’accumulazione capitalistica, cioè la pressione dell’esercito industriale di riserva sul livello salariale”. Con le riforme economiche di mercato, invece, “lo sviluppo dell’interesse delle singole imprese, contrapposto a quello generale, portò al rafforzamento degli interessi della burocrazia di partito. Gli elementi di mercato nell’economia, uniti alla bassa efficienza della pianificazione statale, si rifletterono in idee non socialiste nella coscienza delle masse. Tutto questo insieme ha portato al crollo del sistema sovietico”.
Artëm Krivošeev scrive sul sito nstarikov.ru che l’economia sovietica postbellica presupponeva che “i vari settori si integrassero l’un l’altro, secondo il principio dell’autofinanziamento nazionale; il Gosplan controllava severamente la produzione in numero di pezzi prodotti e non secondo il valore realizzato. Già con Khruščëv, si ridusse il numero di indicatori controllati dal Gosplan e si passò a stabilire il valore, non la quantità; al contrario, con Stalin alle imprese era assegnata la produzione da realizzare, per cui esse avevano interesse a diminuire i prezzi e non aumentarli”. Con le riforme degli anni ’60 il criterio di efficienza delle imprese non era più la produzione, bensì il profitto e la redditività. L’economia prese a funzionare non più come un unico organismo, bensì come somma di imprese, in cui ognuna perseguiva il proprio interesse. La caduta della produzione reale con la contemporanea “esecuzione” del piano in termini di valore e non di quantità portò a un’inflazione nascosta, con salari aumentati e deficit di prodotti, soprattutto quelli di largo consumo, alla cui produzione, di basso valore, le imprese non erano interessate”. Venne meno lo scambio coordinato tra le imprese, col risultato che un’azienda fermava la produzione, non ricevendo il materiale da quella fornitrice e crebbe in definitiva l’insoddisfazione dei cittadini. “I direttori cominciarono allora a porsi il problema della “riforma” del sistema politico, per arricchirsi più in fretta. E’ così che cominciò a formarsi la “élite” della perestrojka, su cui poi fece perno Gorbačëv”.
La “nuova” Russia
Il resto, è cronaca dei “malvagi anni ’90”: colossi statali svenduti a prezzi di favore, soprattutto nei settori estrattivo ed energetico; giganti industriali messi all’asta, con capitali stranieri che facevano man bassa in settori strategici; imprese privatizzate, valutate oltre 200 miliardi di dollari, vendute per 7 miliardi sul mercato internazionale. Sul fronte sociale, tra il 1988 e il 1993 si registra il minimo di nascite di tutto il periodo postbellico, con una media annuale di 1,4 milioni di nati vivi; si privatizzano sanità e fondi pensione. Medici costretti a vendere frutta nei mercati. Scienziati ridotti a vivere in strada, dopo esser stati licenziati e aver perso tutto.
E oggi, tra crisi economica, crollo del prezzo del petrolio, sanzioni occidentali e bassi salari, cade la natalità e aumenta la mortalità per suicidi e alcolismo. Con oltre 22 milioni di persone ufficialmente sotto la soglia di povertà e altri 30 milioni che arrivano a malapena a fine mese, i poveri costituiscono il 35% della popolazione. Cinque milioni di russi prendono meno di 11mila rubli: il salario medio nazionale a fine 2015 era di 42mila rubli, mentre quello reale si è fermato a 34mila; 72 persone su 100 vivono con meno di 15mila rubli al mese. Il 10% dei russi più agiati è di 16,8 volte più ricco del 10% dei poveri e l’1% dei ricchi possiede il 71% del patrimonio nazionale. Secondo l’ufficiale VTsIOM, un russo su dieci non ha abbastanza soldi per un’alimentazione completa e uno su quattro per i vestiti. Secondo il Rosstat (Comitato statale di statistica) nel 2009 c’erano 7 milioni di disoccupati, pari a circa il 7,7% della forza lavoro; nel 2016 si parlava di oltre 4 milioni di disoccupati, pari a circa il 5%. Nel 2015 i disoccupati registrati ufficialmente erano 1 milione; ma nel 2013, su una popolazione in età lavorativa di circa 87 milioni, la vice primo ministro Olga Golodets aveva dichiarato che “Nei settori a noi noti, sono occupati 48 milioni di individui. Non è chiaro dove siano occupati, in cosa siano occupati e come siano occupati tutti gli altri”. Questa è la nuova Russia.
Da nuova unità, n.4- 2017
Fonte
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