Il giornale online Contropiano pubblica una lunga conversazione fra il segretario di Podemos Pablo Iglesias e il vicepresidente boliviano Alvaro Garcia Linera (la versione video, realizzata per la trasmissione “Otra vuelta de tuerka”, è consultabile qui). Si tratta di un testo di quindici pagine con passaggi di grande interesse sulla biografia personale e politica di Linera, sulla storia della rivoluzione boliviana, sul dibattito teorico fra i marxisti latinoamericani e sugli spunti di riflessione che esso offre alle sinistre radicali europee. Provo a estrarne qui di seguito i nodi essenziali, rinviando il lettore interessato al testo originale (o al video) per approfondimenti.
Linera racconta in primo luogo il suo complesso percorso formativo: l’infanzia in un Paese dove le rivolte proletarie si alternano ai golpe militari, gli studi in Messico, dove ha l’occasione di misurarsi con i testi classici del marxismo e con le migliori menti della sinistra rivoluzionaria del Sud America (in un momento storico che vede convergere in Messico militanti, intellettuali ed esuli politici da tutto il subcontinente), infine il ritorno in Bolivia dove, prendendo le distanze dalla sinistra ortodossa, avvia il suo percorso di riflessione teorica sul ruolo strategico che le masse contadine di etnia india potrebbero svolgere nel processo rivoluzionario – riflessione che si converte in partecipazione alla guerriglia Aymara, che gli costerà cinque anni di carcere.
Nella parte centrale dell’intervista troviamo gli spunti più interessanti di critica all’ortodossia marxista. Le sinistre boliviane, dice Linera, “Non avevano alcuna lettura degli indigeni. Non avevano risposte sul tema dell’identità. Secondo loro continuavano a essere contadini, piccolo borghesi, piccoli proprietari che dovrebbero lasciare che il movimento operaio li educhi e li porti verso la dittatura del proletariato”. Una sinistra del genere, commenta, non serve perché “è in un altro secolo, in un altro paese, dice cose sbagliate”. In alternativa a questa linea Linera contribuisce a costruire un movimento che non individua nelle etnie indie una massa di manovra da egemonizzare bensì l’avanguardia del processo rivoluzionario, e che riconosce nella loro cultura l’embrione di una inedita via comunitaria al socialismo (sulle orme dell’ultimo Marx, mi viene da osservare, il quale aveva nutrito analoghe speranze sulle comunità contadine russe).
Dall’esperienza del carcere impara “a ballare con il tempo”, ad aspettare con pazienza che arrivi il suo momento. Momento che arriva con le grandi rivolte popolari contro le privatizzazioni imposte dal regime neoliberista a cavallo della transizione di millennio: “Si organizzano campagna, città, operai, indigeni, in un modo che non era pianificato da nessuno, da nessun intellettuale, da nessun accademico di sinistra”, è la spinta irresistibile che nel giro di qualche anno porterà alla presidenza Evo Morales: un indio presidente “in una società dove gli indios potevano essere solo facchini, muratori o camerieri”.
Come si è arrivati a questo governo indigeno che ha nazionalizzato le risorse naturali, indetto l’Assemblea Costituente e che ha cambiato, e continua a cambiare, il volto del Paese e la struttura stessa dello Stato? Grazie alla crisi delle idee e del senso comune dominanti, risponde Linera, perché “prima delle grandi vittorie politiche c’è sempre una vittoria del senso comune della gente” (il riferimento, sia implicito che esplicito, al pensiero di Gramsci è costante in tutto il corso dell’intervista).
Infine Iglesias lo conduce a parlare dell’Europa, in una parte conclusiva in cui emerge il debito che lo stesso Iglesias (e il progetto politico di Podemos) hanno contratto nei confronti della lezione boliviana. Ed è forse qui che emergono alcuni limiti, nel senso che, dopo avere riconosciuto che il panorama europeo “per noi, fino a due anni fa, era desolante, deprimente, che parlare d’Europa era come parlare di un continente vecchio in tutti i sensi”, Linera accenna a un riaccendersi della speranza, a un risveglio della società civile nei Paesi del Sud Europa che – considerate le non entusiasmanti situazioni di Grecia e Italia – sembra alludere soprattutto all’esperienza spagnola di Podemos, ma non offre chiari elementi di analisi e riflessione.
Ciò non toglie che da questa lunga conversazione emergano non pochi spunti per chi volesse riflettere sulle condizioni di una possibile rinascita della lotta anticapitalista nel Vecchio Continente: dalla necessità di ragionare sulle inedite forme di una lotta di classe che, tramontati i soggetti tradizionali, tende ad assumere forme spurie, “populiste” (da interpretare attraverso le categorie di egemonia, guerra di posizione e blocco sociale, riscoprendo la lezione di un Gramsci studiatissimo in America Latina e pressoché dimenticato da noi); alla riscoperta della centralità di una questione nazionale che non è qui meno urgente che in America Latina, perché democrazia e sovranità popolare, come ha recentemente ribadito il sociologo tedesco Wolfgang Streeck, si danno solo all’interno degli stati nazionali.
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