Da mesi a Roma siamo dentro una trasformazione del rapporto tra fascismo e antifascismo. Un mutamento che costringe alla riflessione perché cambia non solo gli attori in campo, ma anche le modalità politiche con cui si combatte il fascismo in città. L’autunno sarà sempre più attraversato da scontri come quelli avvenuti la scorsa settimana al Tiburtino III o in estate a Tor Bella Monaca, motivo in più per attrezzarci rapidamente alla mutazione genetica in corso.
Ma cosa sta cambiando in concreto? E’ la periferia metropolitana il nuovo contesto che costringe al salto di paradigma. Per alcuni le periferie si starebbero drammaticamente “spostando a destra”. Per altri sono definitivamente serbatoio di elettori e militanti neofascisti. Il nostro lavoro quotidiano nelle periferie ci racconta altro: è la politica che è stata espunta completamente dalla periferia, sia essa di destra o di sinistra. Lontani dalle rappresentazioni mediatiche, le difficoltà che incontriamo noi, come sinistra, a rientrare nei quartieri (veramente) popolari, le incontra anche la destra neofascista. Le vicende di Tor Bella Monaca e di Tiburtino III confermano questa lettura: nonostante gli strepiti, alla prova dei fatti i fascisti erano soli e nei fatti isolati dai compagni e dal resto del quartiere. La periferia è un territorio completamente de-politicizzato, che rifiuta qualsiasi forma di aggregazione politica distante dai comportamenti della periferia stessa. Questo deserto sarà sempre più terreno di scontro perché il tentativo di ri-politicizzare questi straordinari territori dove resiste il proletariato metropolitano è l’unica possibilità di concreto radicamento sociale. Fuori dalla periferia c’è la città vetrina del centro storico o la città gentrificata dei quartieri della movida universitaria. C’è il nulla borghese insomma, direttamente contrapposto agli interessi della periferia. Questa contrapposizione è d’altronde chiara agli abitanti della cintura periferica metropolitana: il centro è il nemico. E *centro*, nel (giusto) pensiero comune di chi abita la periferia, è sinonimo di politica.
Questa lotta alla ri-politicizzazione delle periferie è il terreno di scontro tra sinistra e neofascismo.
L’antifascismo deve prendere atto di questo scenario mutato. Se prima era assicurata una legittimità diversa tra una sinistra radicata nelle periferie e una destra sostanzialmente esogena, oggi (da tempo) non è più così. La destra continua a rimanere esogena, esterna tanto ai quartieri popolari quanto ai concreti interessi dei suoi abitanti. Il problema (drammatico) è che tale “esternità” è condivisa anche dalla sinistra, qualsiasi essa sia. Questo il mutamento di contesto che stravolge anche una serie di modalità politiche sedimentate nel corso di decenni. L’antifascismo ideologico non fa più presa nei quartieri proletari, anzi: il modo migliore per essere estromessi dal quartiere è fare dell’antifascismo una bandiera politica, “a prescindere” dai problemi sociali della periferia. Anche perché i fascisti si presentano nei quartieri come “non fascisti”. Un tentativo sempre fatto, ma che di questi tempi trova meno anticorpi popolari per smascherarlo.
Il terreno di confronto è la soluzione delle contraddizioni sociali devastanti che vive la periferia. In questo senso nessun fascista potrà mai risolvere alcunché, ma se la sinistra verrà identificata con *il centro*, e quindi con l’origine di quei problemi, la destra potrà non risolvere nulla, ma almeno non venire assimilata al nemico. La difficoltà di agire politicamente in questo contesto è lampante, così come evidente la soluzione politica: non c’è alternativa al radicamento che contendere questi territori al neofascismo. Questa contesa avverrà sempre più con ogni mezzo necessario, e sempre meno con le bandiere (qualsiasi esse siano, a partire da quella antifascista) in mano. L’antifascismo dovrà viaggiare nelle cose, nelle vertenze, negli scontri con le istituzioni politiche ed economiche che governano i destini della periferia.
Detto altrimenti, dovrà essere un antifascismo sociale, molto pratico e poco teorico, disponibile a stravolgersi per sopravvivere. Consapevole, peraltro, che i “fascisti” nei quartieri non sono i militanti fascisti organizzati. Che la parola fascismo nasconde quel rifiuto verso il centro, nella sua declinazione politica e sociale, che non ha nulla a che fare col neofascismo propriamente inteso. La confusione politica che regna nella periferia è talmente degradata che molti si dichiarano al tempo stesso fascisti e antifascisti, come spesso sentito al Tiburtino III in questi giorni. Antifascisti nel rimando storico del nome, e fascisti come grido di disperazione. E’ difficile che un “vecchio” possa capire questi ragionamenti, ma i giovani colgono questa discrasia immediatamente.
Chi in questi anni recenti ha lavorato politicamente nei quartieri, aprendo sportelli di assistenza sociale o palestre popolari, ha già assimilato questo nuovo modo di intendere l’antifascismo. Chi invece non si è mai posto il problema probabilmente non capirà molto di questo discorso. Questi ultimi continuano ad essere il nemico, tanto dei quartieri popolari quanto della sinistra di classe.
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