E’ stato il risultato peggiore che “i mercati” si potessero augurare. Non solo perché l’estrema destra euroscettica e xenofoba ha ottenuto una robusta centuria di deputati (tra cui spiccano alcuni neonazi abbastanza riconoscibili), ma soprattutto perché il pilastro della stabilità europea a trazione tedesca – la Cdu di Angela Merkel – ne è uscito drasticamente ridimensionata (quasi il 10% in meno). Mentre la Spd tocca il minimo storico ed è costretta a rifiutare qualsiasi nuova ipotesi di grősse koalition.
In realtà è stata proprio l’alleanza tra i due giganti storici della politica tedesca ad aver garantito a lungo un blocco granitico a sostegno delle “riforme” interne e dell’egemonia di Berlino in chiave europea. E tutti i commentatori della vigilia si sono mostrati ancora una volta soltanto dei propagandisti a busta paga dei “mercati”, così come era avvenuto con i referendum sulla Brexit e la “riforma costituzionale” renziana, nonché sulle elezioni Usa.
Quel “populismo” – spesso di estrema destra, altre volte della sinistra riformista che tornava a radicalizzarsi (Sanders, Podemos, Corbyn, Melenchon, fino alla Catalogna, con dibattito ben diverso) – sembrava soffocato dalla vittoria di Macron in Francia e dall’esito negativo delle elezioni olandesi. Ora esplode nel cuore della cittadella principale dell’Unione Europea, con il volto assai poco rassicurante dell’estrema destra e quell’accento che fa trasalire ogni popolo europeo.
Gli ideologi dei “mercati” erano sicuri del contrario – per la solita inversione tra speranza e analisi obbiettiva – per un motivo che sembrava ottimo: la Germania ha sfruttato la crisi economica per diventare il pivot della manifattura continentale, assorbendo filiere e “distretti” come propri contoterzisti. Oppure costringendoli al fallimento. La Germania è un paese più ricco, ora. Ma la sua popolazione sta peggio di prima.
Quelle “riforme” che hanno permesso di riscrivere il mercato del lavoro rendendolo precarissimo e violento nei confronti delle nuove generazioni hanno anche coltivato rabbia, insofferenza, rifiuto dell’establishment, così come in altri paesi. Le “riforme Hartz” portano la firma del socialdemocratico Gehrard Schroeder ed è impossibile per qualsiasi socialdemocratico farlo dimenticare.
L’educatissimo e felpato dibattito politico tedesco, oltre a errori tattici clamorosi della presidente del partito, ha di fatto impedito che fosse la Linke a raccogliere il malcontento popolare. Il solito, stupido, tentativo di “non lasciare alla destra” temi agitati o inventati dalla destra (l’“invasione degli immigrati”) ha come sempre legittimato proprio la destra estrema negli strati popolari, specie dell’Est.
Qualcuno, e noi tra loro, aveva provato a spiegare che la stratificazione sociale tedesca era diventata come quella del resto d’Europa, gonfiata e schiacciata verso il basso dalle politiche di austerità, di taglio della spesa pubblica (quindi del welfare e della mediazione sociale), mentre un’élite sempre più sottile aumentava a dismisura profitti e rendite. Nessuno stupore, dunque, se anche sul piano politico-elettorale questa sostanziale omogeneità inter-europea si fa vedere pubblicamente.
Il dato da cogliere non è dunque “solo” la crescita della destra xenofoba e razzista, ma l’improvvisa impossibilità di governare l’impoverimento sociale programmato dalla gestione ordoliberale della crisi; persino nel luogo dove l’impatto sociale di quelle politiche è stato tutto sommato minore.
Ma è soprattutto nell’Unione Europea che questo voto fa danni seri. La costruzione tecnoburocratica nata per separare anche fisicamente i centri della decisione politica del dèmos – trasferendo la “sovranità” dagli Stati direttamente ai “mercati” – attendeva questo voto per rinsaldare l’asse franco-tedesco e dare il via all’“Europa a due velocità”, più concentrata e decisionista (anche a maggioranza semplice), più militare e protagonista negli scenari di guerra ai confini (Nordafrica e Medio Oriente).
L’indebolimento oggettivo di Angela Merkel, unico “statista” assolutamente stabile, mette ora a rischio i passaggi già delineati. I liberali dell’Fdp, indispensabili a questo punto per formare un governo, sono euroscettici quasi quanto l’Afd, anche se più “educati” nel linguaggio e meno truci nell’immaginario. Ma, fosse stato per loro, la Grecia, l’Italia e la Spagna sarebbero già con un piede fuori dalla Ue. E la concorrenza a destra esercitata dall’Afd potrebbe spingere sia loro che la destra interna alla Cdu a rifiutare qualsiasi “revisione dei trattati” che comporti anche solo il rischio di condividere qualche forma di bilancio comune nell’Eurozona.
Il tutto mentre la Bce – costretta prima o poi a seguire la scia della Federal reserve – si avvia lentissimamente a porre fine alla politica dei bassi tassi di interesse e al quantitative easing, ponendo dunque le condizioni per un’impennata del debito pubblico di quasi tutti i paesi Ue (anche della stessa Germania...).
Facile dunque immaginare che tutto il programma di Bruxelles subirà intanto dei ritardi nella tempistica (per formare il governo già si guarda alle elezioni di ottobre in Bassa Sassonia), visto che a Berlino si dovrà trovare il modo di “rassicurare a destra” per procedere nella direzione voluta. Facile anche immaginare che saranno i migranti a pagare per primi il prezzo di un atteggiamento più “virile”, senza che ovviamente ne traggano il minimo beneficio i milioni di lavoratori precari incagliati nel mini jobs sotto sferza dei JobCenter.
Ma addirittura nel panico appaiono ora tutti quei governanti – dal Pd a Rajoy, allo stesso Macron – che avevano puntato tutto sulla possibilità di rivedere i trattati nel senso di strutturare un minimo di “politica fiscale e industriale” – se non “comune” – almeno più coordinata.
Difficile, insomma, cercare di avere stabilmente “più flessibilità sui conti” in uno schema di governance che punta esplicitamente in direzione opposta.
E’ però anche l’occasione giusta, nella sinistra radicale, per accorgersi finalmente che “lo Stato” contro cui si lotta non è più tanto o solo il manganello di Minniti, ma l’Unione Europea. Al cui interno solo alla Germania è concesso di anteporre le istituzioni e la Costituzione nazionale agli organismi comunitari.
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