10/09/2017
Visioni Militant(i): Dunkirk, di Christopher Nolan
Christopher Nolan lavora per immagini folgoranti. La scenografia maestosa o epica è il terreno su cui riversa il suo modo di fare cinema, divenendone il tratto riconoscibile. Proprio per questo è uno dei registi più amati dal pubblico e dalla critica contemporanea, perché nell’industria culturale odierna la lavorazione dell’immagine sopravanza il contenuto dell’immagine stessa. Si dirà che il cinema è il luogo d’elezione dell’immagine, un’affermazione che è vera e falsa al tempo stesso, per motivi non più riconosciuti dal discorso pubblico.
Questo Dunkirk conferma la bravura scenografica di Nolan, con l’accortezza di non cadere negli strepiti acclamanti della critica post-moderna. La trama, così come le scenografie, sono semplificate al massimo livello: una spiaggia, quella di Dunkerque appunto, da dove 400.000 inglesi (e francesi) provano a scappare assediati dall’avanzata nazista. Una fuga e una resistenza disperate che avvengono da terra, dal mare e dal cielo. Alla linearità scenografica fa da contraltare la complessa sceneggiatura, altro tratto peculiare del regista inglese. I 106 minuti del film scorrono a ritmi temporali differenti, paralleli e a volte intersecanti: le vicende ambientate sulla spiaggia coprono una settimana; quelle del mare un giorno; i combattimenti aerei un’ora. Tutto finirà per convergere alla fine del racconto. Il tempo – altro topos cinematografico di Nolan – continua ad essere piegato, vivisezionato, decostruito nelle narrazioni del regista. Una trovata interessante ma che complica, a volte senza un vero senso compiuto, l’intera vicenda: meglio arrivarci preparati per apprezzare pienamente lo stravolgersi delle percezioni nello sfasamento temporale della storia. Se dunque a livello scenografico il film possiede una sua forza inequivocabile (niente però di “mai visto”: se c’è un tema su cui Hollywood ha da sempre sfornato fuochi d’artificio scenografico questo è proprio la guerra, dalla Seconda guerra mondiale al Vietnam), e se il piano narrativo è composito ma tutto sommato coerente (mica facile data la complessità), è il piano culturale a essere di più difficile valutazione. Cosa vuole raccontare Nolan? Gli orrori della guerra? L’unità umana (e patriottica, come da lui stesso rivendicato) nei momenti di difficoltà? Oppure addirittura, sfruttando un’audace analogia, la tragedia dei migranti? Il tema “Seconda guerra mondiale” è forse il più abusato della storia del cinema (soprattutto americano). Se settant’anni dopo si decide di ricorrere ancora a quel periodo per dire qualcosa sul mondo di oggi, bisogna maneggiare bene l’argomento. Il rischio di cadere nel già visto, nella retorica, nell’anti-retorica, è dietro l’angolo.
Piccola deviazione. Nel 1998 uscirono quasi contemporaneamente due film sulla Seconda guerra mondiale: Salvate il soldato Ryan, di Steven Spielberg, e La sottile linea rossa, di Terrence Malick. Sono due film statunitensi, hollywoodiani, che trattano dello stesso argomento e dello stesso protagonista: il soldato americano nell’orrore della guerra. Il primo è un film godibile, il secondo è un capolavoro, nonostante il livello scenografico di Salvate il soldato Ryan abbia pochi paragoni nel cinema moderno. Questo per dire che l’immagine, anche nel cinema, è un mezzo e non un fine. La differenza tra i due film non sta nelle immagini, ma nello sguardo attraverso cui il regista racconta una vicenda. Nel film di Spielberg il messaggio è piatto, uniforme, unidirezionale, retorico e abusato: i soldati americani sono i buoni, il nemico è (l’)altrove, la guerra è brutta ma necessaria e a prevalere è sempre la buona volontà individuale. Nel film di Malick la scomposizione psicologica effettuata sui protagonisti è talmente elevata che svaniscono le ragioni e i torti dei contendenti. A rimanere è solo l’uomo davanti all’orrore. Non ci sono buoni o cattivi ma la necessità e la tragicità della storia. La vicenda particolare, nell’arte, è sempre e solo un pretesto: il punto non è il grado di adesione alla realtà, ma il grado di adesione alla verità che vuole comunicare l’artista per mezzo di un’opera. Fine della (parziale) deviazione.
Al netto dei molti e insopportabili momenti retorici (gli applausi fasulli dei soldati come neanche in Indipendence day; l’ufficiale in lacrime all’arrivo delle barche inglesi; il “signor Dowson” – proprietario della barca requisita dalla Marina britannica – che parla col dizionario di retorica in bocca; il discorso di Churchill letto alla fine e sottolineato dalla colonna sonora; eccetera) – momenti che però incrinano l’autorevolezza di tutta l’opera, il film non vuole, almeno ci sembra, soffiare sul fuoco del facile patriottismo. La storia è infatti quella di una ritirata, per quanto eroica, e i protagonisti, una volta tanto, non sono gli americani. E non ci sono eroi. Non è certamente un film anti-patriottico, elemento, come abbiamo letto, sottolineato dal regista stesso: l’unità “del popolo inglese” è vissuta con empatia, certo non con un più salutare distacco.
Qualcuno, ad esempio Wu Ming 4, ha letto l’intera ricostruzione come allegoria del fenomeno migrante, di un’umanità sotto attacco (dalla povertà, dalle guerre, dall’Isis) che cerca disperatamente la fuga per un nuovo inizio, e in questa fuga si “vince” solo se si resta umani (e uniti, senza lasciare indietro nessuno). Potrebbe essere, ma di certo non è un messaggio chiaramente individuabile. Bisogna scavare tra le (molte) righe dell’intertesto per scovare questo piano laterale, questa lettura edificante dello scontro in atto tra umanità e anti-umanità. Il regista pensava ad un film sull’evacuazione di Dunkerque dagli anni Novanta, quindi il pretesto non sembra essere collegato alla vicenda migrante tra Calais e Dover. Questo non toglie che in corso d’opera abbia declinato alcuni temi per interagire con l’attualità, ma è una lettura che, in assenza di evidenze, rimane forzatamente soggettiva. Non la escludiamo, ma il pubblico riceve davvero questo messaggio?
Il film non concentra neanche la propria attenzione sulla ricostruzione psicologica dei personaggi. In questo senso nessun paragone regge rispetto al canone cinematografico di riferimento: da La grande illusione a Un condannato a morte è fuggito, da Apocalypse Now a Full Metal Jacket, da sempre la relazione tra la natura oggettiva (e tragica) della guerra (della storia) e le deformazioni psicologiche che investono il soldato (l’uomo) sono poste al centro del discorso artistico. La maggior parte dei soldati raffigurati sono adolescenti, a rimarcare forse una sostanziale “verginità”, intesa come non colpevolezza, rispetto agli eventi “più grandi di loro”. Nessuno dei personaggi è però davvero approfondito, e quei pochi di cui si tenta un abbozzo interiore finiscono per risultare i più retorici, i meno credibili.
In realtà – questa è però una caratteristica tipica dei lavori di Nolan – l’opera presenta una sua ambiguità non risolta. Un film al tempo stesso retorico e anti-retorico, grandioso e “minimale”, realistico e onirico, lascia lo spettatore incerto sulla sintesi da trarne. E in questa incertezza possono prosperare tutti i punti di vista, da chi ne dà una lettura reazionaria a chi ne scova i tratti progressivi. Nolan ha dichiarato che uno dei film a cui si è ispirato è stato La battaglia di Algeri. E’ un fatto curioso, perché quegli stessi “buoni” costretti alla fuga dal “male”, altrove erano proprio quel “male” contro cui un’umanità depredata combatteva fino alla morte. Come evidente (anche a Nolan a questo punto), la storia non ammette buoni e cattivi, ma possiede una sua verità che travolge le singole vicende. Nel 2017 può essere ancora utile un film sui buoni alleati e sui cattivi nazifascisti, ma nel farlo bisogna tenere presente che la storia non è rimasta ferma al 1945. Una sottolineatura su questo punto avrebbe reso Dunkirk un film veramente compiuto.
Qui la recensione di Goffredo Fofi, da leggere.
Fonte
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