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19/11/2018

La demografia si appresta a riscrivere le mappe del mondo?

Cosa è successo nei quindici anni intercorsi dal 2000 al 2015 in campo demografico?

L’incremento demografico registra la presenza di qualche caso limite il più eclatante dei quali è la Nigeria che si prevedeva avrebbe avuto nel 2015 circa 163 milioni di abitanti ed invece già nel 2014 ne aveva circa 176 milioni.

Dove si andrà di questo passo? Altri paesi con incrementi di popolazione oltre le attese sono stati l’India (che forse già nel 2025 avrà una popolazione più numerosa della Cina), gli Stati Uniti, l’Indonesia, le Filippine, il Brasile, il Messico, l’Etiopia. Relativamente meglio (rispetto alle previsioni) sono andati Pakistan (che però in questi anni ha avuto un incremento di popolazione di 50 milioni di persone pari al 37%), Bangladesh, Vietnam, Egitto, Iran. I paesi dell’Est Europa hanno avuto una flessione dovuta forse all’intensa emigrazione.

La natalità più alta la hanno sempre i paesi africani anche se si è scesi da una banda tra 55/1000 (55 nati per 1000 abitanti) e 42/1000 per i primi venti nel quinquiennio 2000-2005 ad una banda tra 49/1000 e 35/1000 per i primi venti nel 2015-2020. Niger, Somalia e Angola rimangono in testa a distanza di 15 anni. I risultati migliori (ma ottenuti come? E con quale rilevanza?) sono del Ciad (sceso da 48,4 a 36,1 del 2016), dell’Angola (da 51,2 a 38,6) del Congo (da 44,2 a 35,1), del Niger (da 55,1 a 44,8) ma quest’ultimo con un tasso di fecondità che rimane altissimo (7 nati per donna). Mentre i progressi più scarsi sono del Burundi, del Camerun, dell’Etiopia (una possibile bomba demografica), del Malawi, della Nigeria (la bomba demografica più preoccupante), dell’Uganda, dello Zambia. Per quanto riguarda il tasso di fecondità anche qui i progressi sono stati pochi o quanto meno non del tutto tranquillizzanti (anche se gli Stati con oltre sette nati per donna da 6 sono scesi ad uno solo e quelli oltre sei figli da 14 sono scesi a 4).

Gli orizzonti più preoccupanti sono quello africano e quello del sub-continente indiano: Nigeria, Etiopia, Egitto, Sudafrica, Tanzania da un lato non sembrano progredire molto per quest’aspetto mentre India, Pakistan e Bangladesh dall’altro per quanto in progresso rimangono paesi con alta densità di popolazione e le prospettive sono tali per cui solo un intervento complessivo di diversi paesi (soprattutto europei nel caso dell’Africa) può attenuare gli effetti che possono derivare da queste linee di tendenza. Nel caso di paesi islamici come nel subcontinente indiano questi processi potrebbero portare ad un’accresciuta instabilità politica. Il tasso di natalità di Timor Est combinato con l’incremento demografico indonesiano, la presenza islamica e quella degli immigrati cinesi rende l’Indonesia un altro incubatore di problemi politici.

Giappone, Germania ed Italia sono i paesi con l’età media più alta (anche se in Germania e Italia la percentuale di over 65 è diminuita contrariamente al Giappone dove sono aumentati in maniera sensibile) e dunque si devono attrezzare (più con l’immigrazione che non il tasso di fecondità) a riequilibrarsi da questo punto di vista. I problemi più forti li avrà probabilmente il Giappone la cui tendenza isolazionista ha radici storiche e culturali profonde e dunque difficili da superare (i migranti in Germania sono più di 12 milioni mentre in Giappone sono poco più di 2 milioni). Un forte invecchiamento in questi quindici anni ha caratterizzato Portogallo, Grecia, Bulgaria e Lituania mentre i paesi scandinavi (grazie forse all’immigrazione) hanno relativamente migliorato la loro situazione (la percentuale di over 65 è aumentata in Finlandia ma è più sensibilmente diminuita in Svezia e Danimarca).

Proprio per quanto riguarda l’immigrazione, a parte i paesi della penisola arabica, ci sono paesi in cui la percentuale di migranti sulla popolazione è diventata considerevole (Usa 16%, Austria 17,5%, Canada 22%, Nuova Zelanda 23%, Australia 28%, Svizzera 29%) e questa tendenza sarà sempre più forte proprio a causa degli squilibri demografici dovuti da un lato alla crescita della popolazione nel Sud del mondo e dall’altro all’invecchiamento della stessa nel Nord del mondo. Hanno voglia i leghismi e i neofascismi di sbraitare: stanno cercando di far rientrare il dentifricio nel tubetto.

Dell’immigrazione una percentuale concerne i rifugiati. Se Iran e Pakistan sono ormai dall’invasione statunitense dell’Afghanistan sede di almeno 2,5 milioni di profughi, possiamo ipotizzare che la guerra civile siriana non sia senza rapporto con il milione e mezzo di profughi dall’Iraq del 2007 e l’intervento recente della Turchia e di Hezbollah non sia senza rapporto con il milione e mezzo di profughi dalla Siria in Turchia del 2014 e del milione di profughi in Libano. Studiare queste dinamiche diventa necessario per capire l’evoluzione futura.

A questo proposito vale la pena analizzare la tendenza all’urbanizzazione che però è stata rilevante per poche nazioni (per quanto essa si sia affermata in tutte): il caso più importante è quello della Cina che dal 32,1% è passata al 55,6% della popolazione urbanizzata e questo ha accompagnato uno sviluppo che ha dello spettacolare. L’urbanizzazione è un presupposto fondamentale per l’affermazione completa del modo di produzione capitalistico.

Tuttavia ci sono eccezioni significative a questo discorso e cioè paesi già capitalisticamente avanzati che hanno mantenuto una percentuale di urbanizzazione superiore al 50% ma non altissima e questo a dimostrazione forse che a determinati livelli tecnologici è possibile anche che l’industrializzazione di un paese non sia correlata all’urbanizzazione in maniera così diretta (o che almeno la finanziarizzazione dell’economia dei paesi più sviluppati consenta una distribuzione della popolazione sul territorio meno concentrata nelle aree urbane): in Austria ad es. dal 64,7% di urbanizzazione del 2000 si è passati al 66% del 2015, in Bulgaria dal 69,6% si è passati al 73,9%, in Irlanda dal 59% si è passati al 63,2%, nella stessa Italia si è passati dal 67% al 69%, in Polonia dal 65% si è tornati indietro al 60,5%, in Portogallo dal 63% al 63,5%, in Romania dal 56,2% si è tornati indietro al 54,6%, in Slovacchia dal 57,4% si è tornati indietro al 53,6%, in Slovenia dal 50,4% al 54,6%, in Ucraina dal 68% al 69,7%, in Germania dall’87,5% al 75,3%.

Ovviamente ciò non toglie nulla al fatto che la tendenza storica sia stata tale soprattutto nello scorso secolo da portare la popolazione mondiale da un tasso di urbanizzazione del 9,5% del 1900 al 34,1% del 1990. Il mondo è passato dal 48% del 2003 al 54% del 2014. La tecnologia però probabilmente darà un piccolo freno a questo trend e permetterà addirittura in certi casi una sia pur lieve inversione di marcia.

Quali altri paesi hanno avuto in questi 15 anni un certo aumento dell’urbanizzazione? Oltre la Cina, la Finlandia dal 67,3% all’84,2%, il Giappone dal 78,8% al 93,5%, la Grecia dal 60,1% al 78%, , l’Indonesia dal 40 al 53,7%, l’Iran dal 61% al 73,4%, la Malesia dal 57,4% al 74,7%, la Thailandia dal 21,6% al 50,4%, il Vietnam dal 19,7% al 33,6%.

Alcuni paesi però sono rimasti con una bassa percentuale di urbanizzazione pur con un forte aumento di popolazione (il Pakistan al 38,8%, la Nigeria al 47,8%, il Kenya al 25,6%, l’India al 32,7%, le Filippine al 44,4%, l’Egitto al 43,1%, il Bangladesh al 34,3%).

Concentrando l’attenzione su questi paesi a rischio demografico vediamo che gli occupati dell’agricoltura del Bangladesh nello stesso periodo sono diminuiti dal 63% al 47,5% e l’incidenza dell’agricoltura sul Pil è scesa dal 25% al 16%. In Egitto gli occupati nell’agricoltura scendono dal 34% al 28% e l’incidenza dell’agricoltura sul Pil dal 17,4% all’11%. Nelle Filippine gli occupati dell’agricoltura scendono dal 37% al 30% mentre l’incidenza dell’agricoltura sul Pil dal 17,5% all’11%. In India gli occupati nell’agricoltura scendono dal 60% al 49,7%, mentre l’incidenza dell’agricoltura sul Pil dal 26,8% al 18%. In Nigeria l’incidenza dell’agricoltura sul Pil è passata dal 37,4% al 20%. Infine in Pakistan gli occupati dell’agricoltura sono rimasti invariati al 43-44%, mentre l’incidenza dell’agricoltura sul Pil è scesa dal 27% al 25%.

Per comprendere il problema facciamo il caso dell’India dove il 67,3% degli abitanti non vive nelle città, dove gli occupati dell’agricoltura sono il 50% del totale degli occupati e dove l’incidenza dell’agricoltura sul Pil è il 18%. Questi tre parametri devono allinearsi maggiormente? E questo almeno parziale allineamento dovrà consistere di un grande spostamento verso le città? E visto l’incremento demografico cosa comporterà tutto questo? Se consideriamo che la maggior parte di questi paesi ha una componente islamica considerevole la conclusione che ne possiamo trarre è che il fenomeno del fondamentalismo non subirà una diminuzione, ma un incremento, se il problema demografico di questi paesi non sarà affrontato di concerto da tutti i paesi del mondo. Al momento, nelle campagne di questi paesi si sta consumando una tragedia silenziosa, ma questa tragedia presto o tardi si presenterà agli occhi del mondo.

Il punto fondamentale è che la questione demografica viene quasi sempre presentata in termini neo-malthusiani quando invece essa va inserita all’interno della crescita delle forze produttive della teoria di Marx e delle contraddizioni che questa crescita comporta. Se lo sviluppo dell’automazione tecnologica da un lato e quello della popolazione dall’altro sembrano processi che entreranno in conflitto tra di loro, questo è dovuto alla permanenza dei vecchi rapporti di produzione. Una prospettiva rivoluzionaria invece potrebbe ricomprenderli all’interno di un circolo che non sia più vizioso e, quindi, profondamente antisociale.

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