di Tomaso Montanari
È una buona
notizia che l’Emilia Romagna non sia passata sotto il governo di estrema
destra della Lega, e che il plebiscito mediatico costruito da Matteo
Salvini non sia andato a buon fine.
Ma francamente sono molto
scettico, e a tratti francamente preoccupato, per la lettura
entusiastica che di questo passaggio elettorale si sta dando anche nella
sinistra che da tempo ha saggiamente deciso di non vedere nei turni
elettorali i generatori del futuro. Provo a spiegare perché.
Innanzitutto,
mi pare che la retorica post-elettorale stia inducendo a travisare i
reali contorni numerici, e con essi i moventi profondi di quello che è
successo.
La maggior parte del territorio dell’Emilia Romagna (e
proprio la parte più povera, e in ogni senso marginale) ha votato Lega.
E se si guardano i numeri assoluti, c’è ben poco da stare allegri:
Bonaccini ha avuto, infatti, 1.195.742 voti e la Borgonzoni 1.014.672.
Non certo ordini di grandezza così lontani (lo scarto è di 181.000
voti): anzi, abbastanza vicini da indurre a parlare di una regione
spaccata quasi esattamente a metà, in cui né il mito buon governo né la
pregiudiziale antifascista sembrano poi così ben in salute.
A
fare la piccola, ma decisiva, differenza finale è stata evidentemente
l’affluenza al voto (indubbiamente favorita dal clamore mediatico
suscitato dalle Sardine), che però è ben lungi dall’essere ‘da record’:
attestandosi al secondo posto negativo nella storia delle elezioni
regionali emiliane. Di meno gli emiliani avevano votato solo quando
elessero il Bonaccini 1 (che nel 2014 fu votato dal 49% di un’affluenza
bloccata al 37,7%). Anche la retorica del popolo chiamato in massa a
scongiurare la caduta della città in mano ai barbari non fa dunque i
conti con la realtà di un terzo degli aventi diritto al voto che rimane
tranquillamente a casa, trovando indifferenti le due soluzioni sul
piatto. È dunque abbastanza evidente che domenica scorsa non ha vinto né
Bonaccini né il ‘buon governo’ né tantomeno il Partito: ha vinto (e
davvero di misura) un comprensibile voto contro. Contro Salvini, e il
suo fascismo citofonico.
Ma si tratta di una vittoria
paradossale: la presenza di una estrema destra potenzialmente eversiva
del sistema di valori costituzionale, diventa di fatto la garanzia del
mantenimento al potere di quella destra (non sempre) moderata che è
diventato il Pd emiliano.
A chi trovasse quest’ultima una
definizione eccessivamente severa, ricordo: l’allineamento dell’Emilia
Romagna di Bonaccini al progetto della ‘secessione dei ricchi’ attuato
attraverso l’autonomia differenziata, massimo obiettivo politico della
Lega; una legge urbanistica mangia-suolo da palazzinari anni ’50, la
peggiore d’Italia; l’opposizione di Bonaccini alla pur timidissima
Plastic Tax del Conte bis: il segno di uno sviluppismo insostenibile,
del tutto disinteressato al futuro; l’incapacità (nel migliore dei casi)
di arginare una infiltrazione della ‘ndrangheta che sfigura in modo
drammatico il tessuto economico e civile della regione; una sanità
sempre più tagliata e privatizzata, con il consenso di Lega e Forza
Italia in consiglio regionale; una politica securitaria e razzista
indistinguibile da quella leghista (si legga per esempio il libro
recentemente dedicato da Wolf Bukowski alla Buona educazione degli
oppressi).
Ora, non c’è dubbio che la Lega avrebbe potuto far
peggio: in certi casi un po’ peggio, in altri molto peggio. E
soprattutto non c’è dubbio che a fare le spese di questo ulteriore
peggioramento sarebbero stati i più fragili. Ma da qua a dire che ‘ha
vinto la sinistra’ ce ne corre davvero molto.
Invece, il rischio
è proprio questo: un ulteriore spostamento a destra dell’intero quadro
politico, con le forze a sinistra del Pd che confluiscono ‘felicemente’
in quest’ultimo. Se l’infelice presenza di LeU nel governo Conte Bis (un
governo, giova ricordarlo, che non riesce a modificare le leggi più
‘fasciste’ del governo Conte Uno) è stato un anticipo di questa
‘soluzione finale’, l’intervista post-elettorale di Nicola Fratoianni al
Manifesto ne tratteggia la road map, prospettando entusiasticamente per
la sinistra politica nazionale un destino ‘emiliano’: e cioè un
permanente e strutturale fiancheggiamento ‘critico’ del Pd in nome del
frontismo antileghista. Di fatto, una confluenza in nome dell’emergenza.
Sarebbe l’accomodarsi permanente della sinistra politica al tavolo
di potere di un centro-sinistra più che mai determinato a non cambiare
alcunché di se stesso: e che nel momento in cui riesce a presentarsi
come efficace baluardo contro i nuovi fascisti, non ha più nemmeno il
bisogno di far finta di cambiare.
Non per caso, l’eclissi
(momentanea o definitiva, ma certamente ampiamente meritata) del
Movimento 5 Stelle ha immediatamente indotto il Pd e i commentatori di
area a prospettare l’abbandono del progetto di legge elettorale
proporzionale, e l’adozione di un maggioritario ancora più sbilanciato
dell’attuale. Il che equivarrebbe a smontare un altro pezzo di
democrazia in nome della perpetuazione della propria rendita di potere.
Una chiusura dalle conseguenze gravissime: e non solo perché potrebbe
approfittarne proprio la Lega, ma per lo stravolgimento di ogni dinamica
democratica. Perché nel maggioritario importa solo vincere, non essere
giusti. Comandare, non rappresentare. Decidere, non includere. Ed
esultando per la vittoria del ‘male minore’ (ma proprio il male minore
che ha generato alla fine il male maggiore che oggi dice di arginare)
siamo già sprofondati in questa deviante logica binaria che non conosce
alternative possibili.
La prima conseguenza di questa ‘mentalità maggioritaria’ è il
congedo del pensiero critico. Perché entrando nel gioco del potere si
possono ottenere delle ‘cose’ (come l’ottima gratuità del trasporto
regionale per i più giovani, che la lista ER Coraggiosa ha felicemente
strappato a Bonaccini), ma al prezzo di rinunciare ad un’analisi critica
senza sconti, che prospetti la necessità di una alternativa radicale
allo stato delle cose. Ovvio: questa proposta radicale non certo è
incarnata dal dato grottesco delle tre sigle più o meno comuniste che in
Emilia si sono spartite pochi decimali: ma questa tragicomica
inadeguatezza rende più pesante, e non già più lieve, la responsabilità
di chi potrebbe costruire consenso, e sceglie di farlo per il Pd, e
dunque in ultima analisi per lo stato delle cose esistenti.
In questo
senso è istruttivo l’entusiasmo, paternalistico e lievemente
maschilista, che sta suscitando nelle roccaforti del pensiero unico di
centro-sinistra l’esperienza della bella figura di Elly Schlein: gli
stessi che non l’hanno mai appoggiata nelle coraggiose scelte di rottura
(l’uscita dal Pd), la lodano ora perché è tornata (e, dal loro punto di
vista, in condizione ancillare) all’ovile democratico, esaltandone
(contro le sue stesse intenzioni) la personalità individuale (a scapito
dell’impresa collettiva della sua lista), secondo i precetti del culto
leaderistico che anima il maggioritario. Sono gli stessi commentatori
che, se un identico 4% fosse stato conquistato fuori dalla santa
alleanza Pd, ne avrebbero irriso il velleitarismo minoritario.
Quanto
alla Sardine, non riesco proprio a condividere l’entusiasmo così poco
analitico di molti amici. È innegabile l’anelito democratico e
partecipativo con cui migliaia di cittadini ne accolgono l’invito a
scendere in piazza, ma come non vedere che anche questa bella novità ha
di fatto giocato a favore del mantenimento dello stato delle cose, e del
sostegno acritico a un governo che tutto è tranne che di sinistra, come
quello di Bonaccini? In queste ore, le Sardine della mia Toscana hanno
diffuso un appello all’«unità dei progressisti» (che significa l’invito
a sottomettersi a posteriori alla pessima candidatura imposta da Renzi
al Pd, quella di Eugenio Giani di cui ho scritto ampiamente in questo
sito) in cui si legge: «Rivendichiamo l’efficienza di una Regione che è
modello di riferimento per il Paese in materia di cultura, turismo e di
distretto industriale».
Dove colpisce non solo il fatto che si siano ben guardate dal
prendere la parola prima, per evitare questa scelta scellerata e lo
facciano ora per farla digerire in nome dell’antifascismo, ma ancor più
il linguaggio inconfondibilmente di destra (l’«efficienza»!), e la
totale sudditanza alla propaganda di un modello radicalmente
insostenibile: perché dire che Firenze è un modello in materia di
turismo e cultura (!), e sostenere un programma che ha al primo punto le
Grandi Opere e lo sventramento della Maremma è come dire che la
permanenza delle Grandi Navi in Laguna è un traguardo ecologico.
Insomma: le Sardine stanno giocando, nei fatti, come truppe irregolari
di questo bruttissimo Pd, e come alfieri dell’egemonia del pensiero
unico della destra da cui non si riesce ad evadere.
In
conclusione, non riesco a sottrarmi in queste ore a un rovello: che
scandalizzerà qualche benpensante, ma che vale forse la pena di far
affiorare. Davvero dobbiamo festeggiare di fronte ad una Emilia Romagna
in cui un milione più spiccioli vota Bonaccini, un milione vota Salvini e
un altro milione non va a votare? Se esultiamo di fronte a questo
quadro francamente disastroso, è solo perché la nostra idea di
democrazia è ormai così povera da ridursi esclusivamente alla dimensione
del governo, e non ci accorgiamo del danno culturale e morale inflitto
da questo ennesimo restringimento dello spazio critico, indotto
dall’illusione ottica per la quale siccome lo ‘schema Bonaccini’
(fermare la destra estrema con la destra moderata) ha avuto successo,
allora è anche uno schema giusto. Anzi, ‘lo’ schema giusto per tutto il
Paese.
Al contrario, non sarebbe necessario chiedersi se – su
quella lunga distanza che non sembra interessare a nessun osservatore
della scena politica italiana – avrebbe fatto davvero più danni un
passaggio del governo dell’Emilia Romagna alla Lega (che del resto
governa già – e sembriamo a questo rassegnatissimi – Lombardia, Veneto,
Piemonte…), o invece se ne farà di più questa tombale legittimazione di
un Pd di destra? Visto tra dieci anni, penseremo ancora che questo sia
stato il male minore? E penseremo ancora che il ‘voto utile’ lo sia
veramente stato?
La domanda, insomma, è questa: se lo
spostamento a destra del Pd ha creato le condizioni per un’egemonia
culturale di destra che ha portato metà dei votanti Emiliani a votare
Lega, cosa succederà con un altro mandato di governo di quello stesso
Pd?
Pur di fermare Salvini, dicono ormai quasi tutti, va bene
qualunque cosa: va bene anche slittare tutti insieme così tanto più a
destra. Va bene anche restringere ancora lo spazio di immaginazione di
un’Italia diversa. Va bene fare (quasi) le politiche di Salvini. Per
parafrasare una celebre battuta su Berlusconi attribuita a Giorgio
Gaber, il timore è che per fermare il ‘Salvini in sé’, sembriamo ormai
tutti disposti a fare spazio al ‘Salvini in me’. Non mi pare ci sia poi
molto da festeggiare.
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