L’accordo raggiunto Usa-Cina non sembra così vantaggioso per Washington. Pechino disinveste però negli Stati Uniti e ciò profila una tendenza decoupling tra le due economie e una nuova stagione di guerra fredda economica.
Sono almeno tre i fatti importanti delle ultime settimane relativi all’economia cinese: le cifre del prodotto interno lordi per il 2019, l’accordo del 15 gennaio con gli Stati Uniti e gli sviluppi dei processi di decoupling tra Usa e Cina.
La crescita del pil nel 2019
Dunque il Pil della Cina è cresciuto del 6,1% nell’ultimo anno. Mentre i media occidentali hanno sottolineato come si tratti della cifra più bassa degli ultimi decenni e come essa appare influenzata dal conflitto Cina-Usa, i mercati hanno invece festeggiato la notizia.
Come stanno veramente le cose?
Nonostante la riduzione rispetto all’anno precedente, la crescita del Pil cinese continua ad essere la più elevata tra quella dei più grandi paesi del mondo (i mercati erano più pessimisti ex ante sulle cifre) e anzi essa risulta al primo posto nel 2019 anche se si prendono in considerazione tutti i 43 paesi economicamente più importanti del mondo (The Economist, 2020, a).
Qualche anno fa la crescita del Pil dell’India, dopo una revisione dei metodi di calcolo, era apparentemente diventata più elevata di quella cinese. Ma molti erano i dubbi suscitati già a suo tempo dalla notizia; ormai tutti sono oggi d’accordo che quelle cifre erano largamente gonfiate. La stima ufficiale per il 2019 dell’India è ora di una crescita del 4,9%, ma molti pensano che essa si collochi al disotto del 4%.
La riduzione nel ritmo di sviluppo cinese va inquadrata intanto nel fatto che il paese è cresciuto molto negli ultimi anni, assumendo una dimensione ormai molto considerevole e una cifra quale quella indicata significa, se consideriamo i valori con il criterio della parità dei poteri di acquisto, che nel 2019 il paese ha avuto solo come aumento un Pil superiore a quello intero della Spagna e abbastanza vicino a quello dell’Italia.
D’altra parte, il governo punta ormai soprattutto ad una crescita più qualitativa, aumentando il peso dei servizi e dei consumi nonché il livello tecnologico del sistema.
D’altro canto, il peso delle sanzioni di Trump sul risultato va considerato forse in secondo piano rispetto a decisioni che hanno a che fare con questioni interne. In particolare, i dirigenti cinesi cercano di frenare l’aumento dell’indebitamento del paese, accettando il rischio di un rallentamento dell’economia.
Nel prossimo anno lo sviluppo del Pil cinese potrebbe scendere ancora di qualche punto decimale e si valuta che nel medio termine il tasso di crescita possa ancora diminuire (Lemaitre, 2020).
L’accordo Cina-Usa del 15 gennaio
Per cercare di capire quale possa essere il vero senso dell’accordo concluso tra Cina e Stati Uniti si può partire dalle reazioni alla firma dello stesso.
Da una parte c’è l’entusiasmo di Donald Trump, che, sull’onda dell’evento, ha parlato di grande vittoria, di accordo straordinario, storico; dall’altra, invece, i mercati si sono mostrati abbastanza tiepidi (Lockett, 2020), mentre i cinesi hanno mostrato un certo distacco.
La reazione di Trump sembra avere delle motivazioni soprattutto di tipo elettoralistico, perché quello che egli ha ottenuto sembra abbastanza poco.
Intanto si può dire che, per effetto delle tariffe imposte alla Cina, nell’ultimo periodo la produzione industriale Usa è rallentata e i consumatori e molte imprese hanno dovuto registrare dei danni. Certo, ora l’accordo aumenta le speranze che almeno nel prossimo futuro le cose non peggiorino.
Come sottolinea anche un recente articolo del Financial Times (Mitchell, Hancock, 2020), se volgiamo lo sguardo alla imperiose e persino oltraggiose richieste fatte dagli Stati Uniti al momento dell’apertura delle ostilità, nel maggio del 2018, non si può non restare sconcertati rispetto a quanto, dopo quasi due anni, ha ottenuto Washington.
Allora si chiedeva alla Cina di ridurre di 200 miliardi di dollari all’anno il suo surplus con gli Usa; ora invece ci si accontenta che il paese asiatico acquisti 200 miliardi in più di merci statunitensi in due anni. In realtà, poi, molti hanno sottolineato come si tratti di un obiettivo del tutto irrealistico e come i conti alla fine saranno meno positivi.
In cambio, Trump si impegna a sospendere gli aumenti minacciati dei dazi sulle importazioni cinesi, riducendo anche alcuni di quelli già in vigore.
Inoltre si pretendeva allora che, in sostanza, la Cina cambiasse il suo modello di sviluppo, cancellando l’intervento pubblico in economia e stracciando il suo piano “Made in China 2025” di avanzamento tecnologico; si chiedeva, tra l’altro, la cancellazione dei sussidi e di altri tipi di sostegno pubblico, mentre si accusava il paese asiatico di sponsorizzare il furto delle tecnologie Usa. Di questi temi però il nuovo documento non parla e tutto è rimandato a negoziazioni future. In questo senso il patto ha mostrato che la Cina non può essere obbligata con la forza a fare cose che non gradisce (News analysis, 2020).
Certo, qualche danno le manovre di Trump in questo periodo lo hanno procurato. Le esportazioni cinesi negli Stati Uniti si sono ridotte di circa il 10%, ma il vuoto è stato colmato da quelle di altri paesi (Vietnam, Thailandia, Indonesia, e in parte da aziende cinesi impiantate in loco), mentre i produttori cinesi hanno spinto su altri mercati, oltre che sul proprio. Una qualche svalutazione dello yuan ha contribuito ad attenuare i problemi. Alla fine le esportazioni globali di Pechino sono ancora aumentate, sia pure di poco, nel 2019. Quelle degli Usa verso la Cina sono diminuite intorno al 30%. Comunque oggi il deficit commerciale globale degli Usa è più considerevole rispetto al momento in cui Trump ha assunto la presidenza degli Stati Uniti.
L’economia cinese, oltre che quella mondiale, ha avuto dei danni soprattutto di tipo psicologico, di incertezza nelle previsioni, che hanno portato qualche cautela nei programmi di sviluppo.
Il nuovo documento promette genericamente una migliore protezione della proprietà intellettuale e delle tecnologie proprietarie, nonché un maggiore accesso in Cina dei servizi finanziari Usa e la promessa da parte di Pechino di evitare interventi sul renminbi. Ma si tratta di cose che la Cina sta già portando avanti da parecchio tempo, anche perché giudicate favorevoli al paese nell’odierna fase di sviluppo (Fowdy, 2020; Weeijan Shan, 2020).
In Cina domina la prudenza. L’accordo è stato visto come una tregua in una lotta di lunga durata con gli Usa; in se stesso, esso non regola nessuna delle questioni di fondo. Su tali conclusioni sono d’accordo anche molti commentatori nel mondo (si veda ad esempio The Economist, 2020. b). Si sottolinea nella sostanza sia la modestia del risultato, sia il rischio che magari tra qualche settimana Trump ricominci la sua offensiva. In ogni caso, come afferma anche il New York Times (Prasad, 2020), quando la polvere sollevata dalla questione si sarà depositata, la Cina potrebbe finire per essere il paese vincitore nell’affare.
Il ruolo dell’Unione Europea
L’accordo sull’aumento degli acquisti da parte cinese di prodotti Usa danneggerà paesi quali il Brasile, l’Argentina, l’Australia e la stessa Unione Europea. Non a caso il Commissario Ue al settore ha parlato di commercio manipolato, minacciando il ricorso all’Omc, organizzazione mondiale del commercio.
Ciononostante, in questi giorni la stessa Ue ha firmato, insieme agli Stati Uniti e al Giappone, un documento che chiede sempre all’Omc di rafforzare le regole contro i sussidi alle imprese. In sostanza, si vorrebbe di nuovo, per questa via, che la Cina cambi il suo modello di sviluppo centrato su di un forte intervento pubblico. L’episodio mostra ancora una volta la subordinazione dell’Unione Europea agli Usa.
Nonostante tale prova di servilismo, molti si chiedono se gli stessi Stati Uniti, risolti per il momento i problemi con la Cina, non si rivolgano ora contro l’Ue (auto, alimentari), come lo stesso Trump ha minacciato di recente.
Il fronte tecnologico
L’area più importante del confronto tra i due paesi resta quella tecnologica. Gli americani, in maniera pressoché unanime, guardano con preoccupazione alla impetuosa crescita del paese asiatico su tale fronte e vorrebbero in qualche modo fermarla prima che la Cina assuma la leadership globale nel settore, cosa che appare allo stato dei fatti abbastanza plausibile.
Come è noto, al centro della contesa c’è ora la questione Huawei.
La società cinese è da tempo il produttore dominante nelle nuove tecnologie di telecomunicazione (5G), asse centrale dello sviluppo in atto dell’economia digitale. Nell’accordo ora siglato non c’è cenno all’azienda che Trump cerca da tempo di ostacolare.
Le grandi pressioni di Trump sul resto del mondo perché le tecnologie dell’impresa cinese siano bandite non hanno sino a questo momento portato a grandi risultati e solo tre paesi hanno aderito alla richiesta. In queste settimane i vari Stati europei devono decidere in merito, trovandosi in una posizione poco confortevole, schiacciati dalle minacce di ambedue i contendenti.
Ma gli attuali vincoli del presidente Usa, mentre pongono nel breve termine delle difficoltà che potrebbero essere anche importanti per la società cinese, stanno spingendo la stessa, ma anche molte altre società nel settore tecnologico, e non solo del paese asiatico, a diversificare le loro fonti di approvvigionamento e a spingere sull’innovazione interna. Questo dovrebbe portare paradossalmente a rendere il paese asiatico sempre più autonomo dagli Usa e ad accelerare la sua crescita tecnologica.
Il decoupling
I rapporti economici Cina-Usa sembravano fortemente deteriorarsi già con il caso 5G-Huawei. Tra l’altro, la nuova tecnologia 5G non riguarda le sole telecomunicazioni, ma tocca, con le sue interconnessioni, tutto il mondo digitale (computer, telefonini, internet delle cose, intelligenza artificiale e così via).
Qualche tempo fa Trump, dopo l’inizio dell’offensiva contro Huawei, aveva esortato le imprese Usa presenti in Cina a chiudere le loro produzioni nel paese asiatico e a rientrare negli Stati Uniti. Per la verità sino ad oggi sono pochissime le società che hanno fatto una cosa simile e tali prime dichiarazioni di Trump erano state prese a suo tempo come una stravaganza.
Da allora la minaccia di un decoupling tra le economie dei due paesi ha assunto una certa consistenza. Ricordiamo tra l’altro, a parte il caso di Huawei, un certo numero di imprese cinesi che sono state messe al bando dal mercato statunitense.
Nel dicembre del 2019 il dipartimento del commercio Usa ha pubblicato una proposta che permetterebbe di bloccare le importazioni di qualsiasi nuova tecnologia che costituisse una minaccia alla sicurezza nazionale. Questa regola per come è formulata si applicherebbe non solo alla Cina ma anche all’Unione Europea se gli americani giudicassero che una qualche azienda fosse legata in qualche modo a un avversario straniero (Foroohar, 2019).
Del resto il Cfius, il comitato per il controllo degli investimenti stranieri negli Usa, è arrivato a obbligare la proprietà cinese a disinvestire da un’app per appuntamenti tra gay in ragione dei presunti rischi per la sicurezza nazionale.
Intanto i moltissimi tecnici e scienziati cinesi che lavorano negli Stati Uniti sono sempre più circondati da un clima di sospetto e di discriminazione e molti di essi tendono a ritornare nel loro paese di origine (Yuan Yang, 2020).
Del resto il decoupling è invocato sia dai repubblicani sia da molti democratici, tra i quali la solita Elizabeth Warren.
Così gli investimenti cinesi negli Stati Uniti, come del resto, anche se in maniera meno clamorosa, in Europa, sono sostanzialmente crollati (quelli negli Usa del 90%) ed ora, inoltre, la Cina obbliga le organizzazioni pubbliche a comprare apparecchiature elettroniche e relativo software solo nazionale.
Per molti versi dunque il decoupling sta diventando una realtà con la minaccia che porti presto ad una suddivisione del mondo in due sfere chiuse, Usa e Cina (Editorial Board, 2020).
Peraltro, quello tecnologico è un settore globale, con catene di fornitura strettamente integrate. Un prodotto può contenere componenti provenienti da decine di paesi differenti. Sarebbe pressoché impossibile arrivare ad un decopling totale o quasi totale, ma si potrebbero fare molti passi in avanti sulla questione. In ogni caso non ci sarebbero alla fine vincitori (Editorial Board, 2020).
Per altro verso, ricordiamo che le imprese statunitensi producono in Cina ogni anno merci per un valore superiore ai 250 miliardi di dollari e che per molte di esse il paese asiatico è il più importante mercato del mondo. Le imprese Usa devono, più in generale, competere a livello globale e non possono evitare la Cina, l’hub principale delle catene di fornitura globali nel settore dell’elettronica ed uno dei mercati a più rapida crescita dei prossimi decenni. “Voi siete obbligati ad essere presenti in quel paese, qualunque cosa dica Trump”, come afferma un manager Usa (Swanson, Kang, 2020).
Si pone di nuovo una grave alternativa ai paesi europei su questo tema. I principali leader dell’Ue sembrano per il momento inclini a non partecipare al gioco di Trump, consci della posta. Si veda ad esempio in proposito una recente intervista ad Angela Merkel (Il Sole 24 Ore, 2020). Ma nessuno può prevedere quali saranno le scelte finali del nostro continente.
Conclusioni
Nel quadro di un rallentamento dell’economia cinese, che continua peraltro a porla alla testa dei tassi di incremento del Pil tra tutti i paesi economicamente importanti, si assiste all’evoluzione dei rapporti tra la stessa Cina e gli Usa.
Nella sostanza, mentre si può pensare che il contenzioso Usa-Cina non si fermi certo con la firma dell’accordo del 15 gennaio, si può anche valutare che gli sforzi di Trump per mettere in difficoltà l’economia cinese non abbiano grandi prospettive di successo. In ogni caso, al massimo, come commentava il cinese Global Times (Editorial, 2020), il futuro appare a questo punto comunque per lo meno imprevedibile.
Quello che appare certo è che – al contrario del Giappone a suo tempo, che si trovò diversi decenni fa di fronte allo stesso problema – la Cina non accetterà mai di mantenere in maniera permanente un’inferiorità tecnologica rispetto agli Stati Uniti. E questa appare una ragione sufficiente per pensare che il conflitto tra i due paesi sia destinato a durare molto a lungo.
Testi citati nell’articolo
-Editorial, Phase one deal should be cherished, www.globaltimes.com, 16 gennaio 2020
-Foroohar R., Consciously decoupling the US economy, www.ft.com, 1 dicembre 2019
-Fowdy T., Stability is what truly matters when assessing the China-US trade deal, www.chinadaily.com.cn, 21 gennaio 2020
-Il Sole 24 Ore, Merkel, « l’Europa deve rafforzare le relazioni con la Cina », 16 gennaio 2018
-Lemaitre F., La Chine est entrée dans une phase de « ralentissement structurel » , le Monde, 18 gennaio 2020
Lockett H., US-China « phase one » trade deal leaves markets virtually unmoved, www.ft.com, 16 gennaio 2020
-Mitchell T., Hancock T., China views trade deal as welcome respite in US battle, www.ft.com, 16 gennaio 2020
-News analysis, Thorny side to trade deal, The New York Times International Edition, 18-19 gennaio 2020
-Prasad E., China gets the big win in the end, The New York Times International Edition, 17 gennaio 20120
-Swanson A., Kang C., China deal mean big losses for chip makers, The New York Times International Edition, 22 gennaio 2020
–The Economist, Economic & financial indicators, 4 gennaio 2020
–The Economist, Between the lines, 18 gennaio 2020
-The Editorial Board, The world should beware a technology cold war, www.ft.com, 11 dicembre 2019
-Weijan Shan, A delicate truce in the US-chinese trade war, www.foreignaffairs.com, 13 gennaio 2020
-Yuan Yang, Us-China tech dispute : suspicion in Silicon Valley, www.ft.com, 21 gennaio 2020
Fonte
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