La critica musicale suole sancire l’inizio del post-metal con due dischi, entrambi targati 1992. Il primo è “Pure” dei Godflesh di
Justin Broadrick, un disco industrial e sludge-metal che però rispetto
allo straordinario predecessore “Streatcleaner” vede la band di
Birmingham alle prese con un suono meno fangoso e bruciante, che indugia
in numerosi e rumorosi momenti di stasi, vicini a drone e noise music. L’altro è invece il terzo disco dei Neurosis,
“Souls At Zero”, nel quale i californiani guidati da Scott Kelly
cominciano ad allontanarsi dal rozzo hardcore-punk dei loro esordi per
imboccare una strada di metal sperimentale che rifugge sovente strutture
semplici, preferendo avvitarsi in percorsi contorti e ricchi di svolte
arcane – questa attitudine li avrebbe condotti al capolavoro “Through Silver In Blood” (Relapse, 1996).
C’è anche chi per la nascita del post-metal indica una data ancora precedente, ossia il 1991 di “Bullhead” dei Melvins,
anche questo un disco dal suono fragoroso e opprimente, ma segnato da
pause e dilatazioni. In ciascuno di questi casi si tratta però di
post-metal che in un certo qual modo non è ancora cosciente di se stesso
in quanto tale, non ancora codificato – come d'altronde era capitato in
ambito post-rock a progenitori del genere quali Talk Talk o Slint, ai quali l’etichetta sarebbe stata attribuita soltanto ex-post.
Ad ogni modo, si tratta di tre lavori che segnano un prima e un dopo,
ispirando la ricerca di decine di band intenzionate a combinare la
potenza di fuoco sonora del metal a costruzioni ed evoluzioni più ricche
e intricate, e dunque al post-rock. Per forza di cose, i sotto-generi
che avrebbero generato più affluenti del post-metal sono, grazie alle
loro caratteristiche ritmiche e all’immaginario retrostante, industrial e
sludge.
A ben vedere, all’uscita dei dischi elencati poc'anzi,
anche il post-rock non si chiamava ancora così. La denominazione nacque
soltanto nel 1994, quando il critico musicale Simon Reynolds la coniò recensendo “Hex” dei Bark Psychosis.
Fu dunque sul finire degli anni '90 che, avendo il post-rock connotati
ormai ben precisi e una nutritissima schiera di band afferenti (da una
parte del globo e dall’altra), numerose formazioni metal iniziarono,
questa volta con piena coscienza e intento, ad avvicinare i propri sound mastodontici e assordanti a quelle idee di composizione e sviluppo dei brani.
In particolare furono due le etichette che più si dettero da fare affinché il post-metal trovasse casa: la Relapse (Don Caballero, Neurosis, Dillinger Escape Plan e tante altre) di Philadelphia del patron Matt Jacobson e l’Hydra Head (Jesu, Boris, Dalek, Lustmord, Torche) del New Mexico, guidata proprio dal frontman degli Isis Aaron Turner.
La
carriera degli Isis è in effetti, proprio grazie alla coerenza della
visione di Turner (sia come produttore che come musicista), un’efficace
riduzione in scala della storia e dell’evoluzione del post-metal.
Nati
nel 1997 a Boston, gli Isis erano inizialmente formati da Aaron Turner
(chitarra e voce), Jeff Caxide (basso) e Aaron Harris (batteria), tutti
provenienti da altre band della scena metal locale, ma stanchi delle
precedenti esperienze e vogliosi di intraprendere sentieri più
sperimentali. Dopo alcuni primi demo ed Ep fortemente radicati nel metal
estremo e nell’hardcore, gli Isis sperimentarono un vero e proprio
salto di qualità quando, sul finire del millennio, accolsero in
formazione il chitarrista dei Cast Iron Hike Michael Gallagher e il
tastierista dei Gersh Bryant Clifford Meyer.
Sebbene già pervaso dal
grande contributo elettronico di Clifford Meyer e dominato da sentori
distopici e fantascientifici, il primo Lp della band, “Celestial” (Hydra
Head, 2000), è ancora fortemente legato al “vecchio” metal. Spinti dal
crescente ed entusiasta vociare intorno a “Celestial”, gli Isis decisero
che per i lavori successivi sarebbe stato il caso di beneficiare di una
casa discografica dalle più ampie capacità distributive. Tutti fan
terminali dei Melvins, i membri della band convennero di provare ad
accasarsi presso la label dei loro beniamini, ossia la Ipecac di Mike Patton. Una delle intelligenze più progressiste e brillanti della scena metal come il leader dei Faith No More non poteva lasciarsi sfuggire un’occasione del genere; la firma arrivò così, senza troppi patemi o discussioni.
Il
primo parto di questo nuovo sodalizio fu “Oceanic” (Ipecac, 2002),
ossia il disco che davvero sparigliò le carte in tavola e pose con
certezza inizio al post-metal, ispirando e fornendo una direzione
concreta a band come Cult Of Luna, Pelican o Russian Circles
(tutte dichiaratamente debitrici verso la svolta degli Isis). Mentre in
“Celestial” i momenti di stasi ambient, i rilassamenti e le repentine
esplosioni sono relegati a pochi momenti in chiusura di brani come
“Celestial (The Tower)” o “Deconstructing Towers” o a fare da interludio
tra due canzoni, in “Oceanic” diventano centrali nello svolgersi delle
lunghe canzoni. Gli Isis erano diventati a questo punto una band
post-rock quasi a tutti gli effetti, che conservava però la grana
pesante, la potenza esplosiva del metal e l’aitante growl di Aaron Turner.
Non
ci sono dubbi o dispute sul fatto che sia stato proprio “Oceanic” il
disco con il quale il post-metal e, simultaneamente, gli Isis giunsero a
maturazione. In termini tecnici o in fatto di innovazione vera e
propria, “Panopticon” (Ipecac, 2004) non segna difatti alcun passo in
avanti, se non un ulteriore ammorbidimento del sound verso il
post-rock, è però il disco del perfezionamento della formula degli Isis e
del compimento concettuale dell’immaginario della band, il suo
capolavoro.
Laddove “Oceanic” ha al suo centro una oscura vicenda
individuale – la tragica storia di un uomo tradito dalla sua amata in
una relazione incestuosa, che porrà fine alla sua esistenza suicidandosi
per annegamento, con l’acqua evocata dal titolo a fare da letale e
ineluttabile agente purificatore – “Panopticon” è più ambizioso e
abbraccia con la sua metafora distopica una visione più globale,
puntando il suo sguardo disperato ma impietoso verso l’intera società.
Il titolo del terzo disco degli Isis prende nome dal Panopticon
ideato dal filosofo utilitarista Jeremy Bentham sul finire del
Diciottesimo secolo: una terribile struttura carceraria dalla forma
circolare con al suo centro una torre di guardia che permetta al
carceriere di osservare tutti i prigionieri e a questi ultimi di non
sapere in alcun momento quando sono osservati. Nelle note di copertina,
Bentham non è però l’unico pensatore a essere citato, Turner fa infatti
riferimento anche all’interpretazione del panottico data da Michel
Foucault.
Quando nelle interviste rilasciate per promuovere il disco
fu chiesto a Turner dove la visione politica degli Isis fosse
polarizzata, il frontman ci ha tenuto a precisare che non si
trattava in alcun modo di una band politicamente orientata, che però
quanto si evince dai testi criptici e simbolici di “Panopticon” era
inevitabilmente influenzato dallo stato delle cose del periodo. È utile a
tal proposito ricordare che tutti i dischi degli Isis sono usciti
durante i mandati presidenziali di George W. Bush; tuttavia a
preoccupare Turner e gli altri non era tanto la controversa e inadeguata
figura del presidente, quanto il crescente uso della tecnologia, in
particolare di internet, da parte degli Stati Uniti per sorvegliare
sempre più invadentemente i cittadini.
Non c’è migliore brano,
per afferrare il potenziale evocativo, immaginifico e distruttivo del
post-metal degli Isis, che quello che apre “Panopticon”. Sette minuti e
mezzo intitolati “So Did We”, aperti brutalmente da un riff
ruggente che imperverserà per l’intero brano, lasciando però momenti
d’aria a Clifford Meyer, durante i quali il tastierista può lavorare su
atmosfere fumose, giochi di veli, disegnare penombre, lasciare che raggi
di luce le fendano. È la resa estrema del gioco di contrasti,
dell’alternarsi di loud and quiet che caratterizza molto post-rock (quello dei Mogwai,
ad esempio, che non a caso hanno condiviso spesso il palco con gli
Isis), possibile grazie alla distanza tra le atmosfere ultraterrene di
Meyer e la potenza squassante delle chitarre metal di Turner e
Gallagher.
“Backlit” e “In Fiction” sperimentano un’evoluzione ancora
più vicina al post-rock di quanto già non faccia “So Did We”. Entrambe
partono in sordina, tratteggiando una tensione palpabile mediante meste
sequenze di arpeggi smarrite tra effetti oscuri e avvolgenti, quasi come
dei viandanti pensosi in una selva dantesca. Quando è il momento di
esplodere, ecco irrompere però, insieme alle distorsioni di chitarra, il
growl di Turner; ringhioso e aspro, ma comunque più melodico
che nei dischi precedenti. Se “Backlit” conserva un assetto più statico
in termini di tempi e immagini evocate, “In Fiction” sfrutta i suoi nove
minuti e oltre di durata per evolversi in una tellurica e minacciosa
cavalcata alternative metal.
“Will Dissolve” è il brano più
breve del disco e ha il compito di spaccarlo in due, suonando, tra
flessuose torsioni degli arpeggi di chitarra e lo sferragliare dei
tocchi sugli strumenti, quasi come un omaggio al post-hardcore
scheletrico dei maestri Slint.
La copertina di “Panopticon” è uno
scatto di un’indistinta città americana annegata in un asettico filtro
fotografico blu. Potrebbe essere stata scattata da un drone di
sorveglianza o da un aereo militare durante il sopralluogo prima di un
attacco. Con il suo convulso alternarsi di un riff sludge da
guerriglia e di ampie distensioni atmosferiche, durante le quali si ha
l’impressione di planare a bassa quota, “Syndic Calls” mette in musica
gli spazi e la sensazione di pericolo catturati dall’algido artwork.
Quando la band è entrata in studio per registrare il suo terzo full length sotto la regia di Matt Bayles (Pearl Jam, Mastodon, Soundgarden),
il proposito principale di Aaron Turner era quello di esplorare il più
possibile, e ancor più che in passato, estensivi spazi ambientali. Per
fare ciò, ciascun membro della band ha portato con sé i semi di quelli
che poi sarebbero diventati i brani, piccole bozze o linee melodiche cui
il resto del gruppo avrebbe aggiunto il materiale rimanente come in una
perenne jam esplorativa. Questo genere di processo ha portato a
un disco dove ogni brano è stato scritto a più mani, nonché quello
ideato più collegialmente e non – come avveniva nei capitoli
discografici precedenti – in prevalenza da Turner.
Il brano nel quale
il tipo di approccio utilizzato e la ricerca sugli spazi si fa più
evidente è manco a farlo apposta il più lungo della scaletta, “Altered
Course”; che sfiora i dieci minuti per soli tre secondi. Una lunga suite
subacquea, dove il metallo si dissolve e sparge la sua dura luccicanza
tra moti ondosi e profondità oscure. La sezione ritmica, alla quale per
l’occasione si aggiunge anche il basso dell’amico Justin Chancellor (Tool),
dilata i suoi tempi e ammorbidisce i suoi tocchi, mentre le chitarre si
avvitano in mulinelli plastici e sinuosi per dar vita a un brano epico e
solenne.
La violenta conclusione del disco è affidata a “Grinning Mouths”, una canzone indurita da riff
mastodontici e popolata da terribili magistrati che dominano i sogni
del popolo, che rappresenta il momento del disco in cui il tema del
controllo si disvela anche in tutta la sua criptica potenza lirica.
Senza sfumature o dissolvenze, è proprio su uno di questi tramortenti riff che
gli Isis staccano la spina al loro capolavoro definitivo, un album
destinato sin dagli intenti a portare a perfezione la formula della band
e a condurre il post-metal alla sua completa codificazione.
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