Presentazione


Aggregatore d'analisi, opinioni, fatti e (non troppo di rado) musica.
Cerco

18/02/2021

Toyotismo - Qualità totale per chi?

di Fabio Scolari, sociologo presso Università degli Studi Milano Bicocca. Collabora con il Centro Studi del sindacato di base CUB

Prima di entrare nel vivo delle questioni è utile partire da una breve premessa di ordine storico sullo sviluppo, a seguito del secondo conflitto mondiale, del capitalismo giapponese. Richiamare questo elemento è assolutamente necessario se si vogliono comprendere le caratteristiche essenziali del metodo di organizzazione del lavoro ohnista[1]. Non farlo rischierebbe, infatti, di determinare una rappresentazione mistificata ed edulcorata dei suoi tratti più oppressivi e manipolatori. Quindi, capire i motivi della sconfitta del sindacalismo di classe nipponico è il primo passo per scoprire i segreti che hanno prodotto prima l’ascesa economica internazionale della Toyota e poi dell’intero Giappone.

La sconfitta del sindacalismo di classe in Giappone

Il Giappone, uscito sconfitto dalla Seconda Guerra Mondiale, dovette affrontare nei decenni successivi una serie di forti ristrutturazioni, sotto l’amministrazione del generale statunitense Mac Arthur, che ebbero come conseguenza la «modernizzazione» forzata ed accelerata delle strutture socio-economiche nazionali.

A questo proposito, Giovanni Sabbatucci e Vittorio Vidotto indicano l’imposizione di una costituzione redatta nel 1946 da funzionari americani, che trasformò l’autocrazia imperiale in una monarchia costituzionale (solo grazie a questo patto l’imperatore Hirohito poté conservare il trono) ed introdusse un sistema parlamentare, ed una radicale riforma agraria. Questi tentativi, se da un lato riuscirono ad imporre un modello di organizzazione politica e sociale di tipo liberale, provando a rimodellare su basi nuove la struttura economica del paese, dall’altro cercarono di «non indebolire troppo quei ceti conservatori su cui essi [gli USA, N.d.R]contavano per legare a sé il paese e per farne un bastione del “mondo capitalistico” in Asia». Questo orientamento moderato, tra l’altro, «si accentuò quando, con la guerra di Corea, il Giappone divenne base logistica e fornitore dell’esercito americano» e, per questo motivo, «le grandi concentrazioni industriali furono smembrate solo in minima parte».[2]

I due storici fanno poi notare come, a partire dagli anni Cinquanta, esse sarebbero diventate il motore principale di una rapidissima crescita economica, insieme ad una miriade di piccole e medie aziende poste in una relazione di sub-fornitura, favorita dall’assistenza economica e tecnologica degli Stati Uniti, oltre che da una stabilità politica che si fondava sull’egemonia dei gruppi moderati, raccolti nel Partito liberal-democratico. Quindi, la continuità politica interna, associata alla protezione internazionale statunitense ed a una classe capitalistica nazionale spregiudicata, alla guida dei pochi grandissimi complessi industrial-finanziari, furono i motivi che resero possibile sperimentare innovative strategie economiche per risollevare dal declino l’antica potenza asiatica. In sostanza, gli elementi appena richiamati furono ciò che permise al Giappone di mantenere, per tutto il ventennio che va dagli anni Cinquanta agli anni Settanta, un tasso di sviluppo medio annuo intorno al 15%, il triplo di quello sperimentato dai paesi occidentali di più antica tradizione industriale, di invadere i mercati internazionali con i prodotti della sua industria, compensando le importazioni di materie prime e mantenendo in attivo la bilancia commerciale, e di diventare, già nel corso degli anni Sessanta, la terza potenza economica mondiale dietro solo agli Stati Uniti ed all’Unione Sovietica.

In questo clima generale, i due problemi principali che i manager giapponesi si trovarono a dover affrontare furono: il carattere caotico della produzione, che limitava fortemente i livelli di produttività del lavoro, ed il combattivo sindacalismo giapponese che, già nei primi anni Cinquanta, si oppose con decisione ad ogni piano di possibile razionalizzazione delle tecniche produttive all’interno dei singoli stabilimenti. Benjamin Coriat offre una prima ricostruzione di questi scontri, ricordando che:

il movimento sindacale che si era costituito nell’industria automobilistica aveva un forte carattere di sindacalismo d’industria ed era uno dei sindacati più combattivi nell’immediato dopoguerra. È questo tipo di sindacalismo, è opportuno ricordarlo, che prese l’iniziativa del conflitto del 1950, conflitto che, dopo due mesi di sciopero e di diverse forme d’azione di lotta, si concluse con una bruciante sconfitta del sindacato ed il licenziamento in massa di circa 1600 dipendenti. Tuttavia, non si trattava che di un semplice rinvio. Infatti, nel 1952, poco dopo il ritiro dell’amministrazione americana, per iniziativa o con il sostegno del sindacato si sviluppa una grande ondata di lotta contro l’intenso processo di razionalizzazione della produzione che attraversa tutto il paese. La Toyota non sfugge a quest’ondata e il sindacato lancia ed organizza al suo interno un movimento di rivendicazione salariale e di lotta alla razionalizzazione che durerà 55 giorni. La direzione s’oppone di nuovo ad ogni compromesso formale e negoziato e consegue infine i propri obiettivi: il conflitto si conclude con una nuova sconfitta del sindacato. Una sconfitta così radicale che la direzione della Toyota, approfittando dei nuovi rapporti di forza, perviene a trasformare la sezione locale del sindacato d’industria in un sindacato interno (o “giallo”) di cui essa stabilisce in gran parte le nuove regole e procedure di funzionamento. Si può dunque affermare che nel 1953 il movimento sindacale storico di questo settore è stato praticamente annientato. [3]

In ogni caso, nel 1954, anche questo sindacato corporativistico non fu considerato sufficientemente collaborativo dalla direzione e venne sciolto al fine di sostituirlo con uno nuovo di cui vennero modificati ulteriormente gli statuti e le strutture organizzative interne.

In maniera speculare a quella dello studioso francese, anche Ricardo Antunes richiama questi avvenimenti facendo presente che:

nel 1950, ci fu una significativa ondata di scioperi contro una serie di licenziamenti in massa alla Toyota (tra 1600 e 2000 lavoratori), ma proprio in quel nuovo contesto si verificò la prima sconfitta del sindacalismo combattivo giapponese. Nel 1952-1953 si scatenò una nuova lotta sindacale in varie imprese contro la razionalizzazione del lavoro per aumenti salariali, che ebbe la durata di 55 giorni e dalla quale il sindacalismo uscì nuovamente sconfitto. È importante ricordare che in questo conflitto la Nissan, per demoralizzare gli scioperanti, fece ricorso alla serrata.[4]

I motivi della sconfitta del sindacalismo giapponese si possono leggere, infatti, secondo una doppia lente: da un lato questo esito fu il risultato delle azioni repressive eseguite dalle direzioni aziendali contro i collettivi di militanti politici e sindacali che operavano nei luoghi di lavoro, dall’altro, però, non bisogna tralasciare anche l’importanza di alcune operazioni di controllo sociale che furono messe in atto dagli organi dello Stato. A questo proposito, si può pensare alla scelta di vietare lo sciopero dei dipendenti pubblici, decretata dal Comando Supremo delle Forze Alleate (SCAP) all’indomani della fine del conflitto bellico, ed alla famigerata «Purga Rossa», attuata alla vigilia della guerra di Corea, tramite la quale oltre 20 mila sospetti comunisti furono licenziati dagli uffici pubblici e privati.[5]

È proprio a partire dalla sconfitta della resistenza dispiegata dai lavoratori nipponici e dalle organizzazioni sindacali conflittuali che si deve intraprendere l’analisi di questa forma di organizzazione del lavoro che ebbe come prima necessità proprio quella di doversi appoggiare su un «sindacalismo di impresa», totalmente assoggettato alle esigenze ed all’universo padronale. Sempre Ricardo Antunes descrive in questi termini l’azione di questo nuovo tipo di sindacato cooperativo:

unendo repressione e cooptazione, il sindacalismo di impresa ottenne, come contropartita alla sua subordinazione al padrone, l’impiego a vita per una parte dei lavoratori delle grandi imprese (circa il 30% della popolazione lavoratrice) e aumenti salariali legati alla produttività. Come nel caso della Nissan, i sindacati hanno un ruolo rilevante nella “meritocrazia” dell’impresa, poiché esprimono opinioni (con la possibilità di veto) sull’ascesa di grado dei lavoratori. [6]

A questo proposito, è evidentemente superfluo fare presente che:

“questa maniera di agire subordina i lavoratori all’universo dell’impresa, creando le condizioni per l’impianto duraturo del sindacalismo di coinvolgimento, che è essenzialmente un sindacalismo manipolato e cooptato. È a partire da questi condizionamenti storici che si è gestito il modello giapponese.”[7]

Quindi, si può sostenere che furono proprio la disfatta del sindacalismo conflittuale giapponese e la sua mutazione in senso collaborativo le precondizioni essenziali per il successo capitalistico dell’impresa giapponese. Per questi motivi, l’elemento centrale che, in via preliminare, deve essere subito colto del toyotismo è rappresentato dalla strategia aziendale che, unendo sapientemente cooptazione e repressione, fu in grado di imporre un controllo neo-corporativo nei riguardi della forza-lavoro, mascherato da un’apparente cooperazione volontaria tra le parti. In fondo, la richiesta di Taiichi Ohno, l’ingegnere a cui si deve la prima sistematizzazione dei principi della lean production, fu proprio relativa al fatto che non solo i lavoratori dovessero fare propri gli obiettivi, sempre mutevoli, dell’azienda, ma che, in aggiunta, essi dovessero tramutarsi in despoti di se stessi, attuando consapevolmente delle forme di auto-controllo sia della produzione sia della propria prestazione lavorativa. Sono questi, dunque, i motivi che spiegano la funzione di disciplinamento della forza lavoro assunta dal lavoro in teams o in équipe nella fabbrica toyotista. In merito a questi temi, in un pionieristico saggio, Knuth Dohse, Ulrich Jürgens e Thomas Malsch scrivevano:

“il principio organizzativo del sindacalismo aziendale costituisce un terreno di negoziazione molto più vantaggioso per il management di quanto non sarebbe un sindacato di categoria. Per quest’ultimo sarebbe più facile perseguire finalità che limitino le prerogative manageriali nell’utilizzazione della forza lavoro e comportino svantaggi produttivi per l’impresa. Se questi vantaggi si applicassero a tutte le imprese, il loro impatto sulla competitività sarebbe neutro in un contesto nazionale. I sindacati di impresa sono in una situazione del tutto diversa. Il loro collegamento ad una singola impresa li rende molto più dipendenti dai successi sul mercato e quindi dalla struttura dei costi e dalla produttività della loro impresa. Come conseguenza, la portata delle rivendicazioni sindacali si restringe; gli obiettivi conflittuali rispetto all’utilizzazione della forza lavoro vengono evitati e si ricercano posizioni che possano essere di beneficio per entrambe le parti. Questa funzione pacificatrice inerente alla struttura del sindacato d’impresa fu stabilizzata negli anni ’50 dalle imprese automobilistiche giapponesi attraverso la distruzione dei sindacati militanti. (…) Le “relazioni armoniose” scoperte in Giappone dai teorici dell’approccio culturale e delle relazioni umane sono, pertanto, la conseguenza della sconfitta del movimento sindacale militante e solo in questo contesto possono essere adeguatamente comprese. L’attuale struttura “armoniosa” delle relazioni è stata conquistata dal management con una dura lotta.”[8]

L’intreccio degli elementi appena richiamati è stato colto anche da Riccardo Bellofiore, il quale sostiene che:

“il successo dell’organizzazione del lavoro giapponese è dipeso da condizioni storiche e sociali ben diverse dalla leggenda che circonda i tentativi di imitazione: tra queste condizioni, bisogna almeno menzionare l’efficace strategia di divisione impiegata dal padronato giapponese in risposta ai vivaci conflitti operai prima e dopo il secondo conflitto mondiale, che ha portato a una esclusione della forza lavoro femminile dai vantaggi del sistema, e a un indotto vasto in cui prevalgono i bassi salari e la precarietà della condizione lavorativa. Va aggiunto che una organizzazione del lavoro dove le barriere tra le diverse mansioni sono ridotte al minimo, e dove anzi viene imposta una rotazione tra le mansioni, delega allo stesso gruppo di lavoratori il controllo reciproco”.[9]

Quindi, proprio in questo senso, è evidente come l’interiorizzazione del comando capitalistico con il sistema di organizzazione del lavoro giapponese voglia raggiungere un grado ancora più profondo di quanto fu precedentemente sperimentato con il taylorismo. Alla luce di questo aspetto, infatti, se Frederick Taylor riteneva indispensabile che i lavoratori manuali dovessero essere strettamente controllati nei movimenti e nei tempi, l’ingegnere nipponico, al contrario, giudicava possibile giungere fino ad una completa espropriazione dell’intelletto e delle conoscenze possedute dall’operaio. In questa chiave, la cooperazione delle maestranze doveva essere estorta non solo attraverso meccanismi repressivi, ma anche tramite una serie di contropartite materiali, tra le quali si possono ricordare l’impiego a vita oppure l’abolizione delle più rigide prescrizioni previste dal taylorismo-fordismo. In un certo senso, quindi, l’ohnismo potrebbe essere giudicato e valutato come la risposta più convincente offerta, almeno fino a questo momento, dal capitale alla difficoltà di ottenere e di valorizzare il consenso ed il coinvolgimento dei lavoratori salariati nell’ambito aziendale, che fu il grande problema contro il quale si andò a scontrare l’Organizzazione Scientifica del Lavoro. Pare accorgersi, di tutto questo, anche Giuliana Commisso, la quale, analizzando le concrete modalità di implementazione delle tecniche produttive giapponesi nello stabilimento Fiat di Melfi, scriveva che:

“l’ipotesi fondamentale che ha guidato la nostra ricerca è che la trasformazione tecnologico-organizzativa della fase attuale non annulla né riduce il contenuto di comando insito nel processo lavorativo capitalistico. È proprio la tendenza dell’impresa post-fordista a sussumere il potenziale sinergico del lavoro cooperativo, mettendolo al servizio della valorizzazione capitalistica, a produrre una nuova dislocazione dell’antagonismo. Il mutamento della forme del comando, la sua metamorfosi, può produrre dialetticamente forme di resistenza e di estrinsecazione della soggettività antagonistica che non possono essere comprese se si continua a guardare la metamorfosi stessa con le vecchie lenti del fordismo-taylorismo. (…) Ciò che è emerso chiaramente dalla ricerca è, infatti, una nuova modalità di esercizio del potere che potremmo chiamare “fluidificazione del comando”.[10]

Con quest’ultima etichetta, infatti, la studiosa italiana intendeva riferirsi ad un processo:

attraverso cui ogni forma di micro-conflittualità e di resistenza individuale o collettiva all’auto attivazione è sussunta nelle relazioni sociali interne al gruppo di lavoro e affrontata come se si trattasse di una normale disfunzione operativa del lavoro cooperativo.[11]

Per tutti questi motivi, un ulteriore aspetto da non tralasciare attiene proprio alla mutazione dell’ideologia dei lavoratori dal momento che:

“il toyotismo ha portato con sé, insieme con una certa, limitata, polivalenza dei lavoratori, la illimitata tendenza ad aziendalizzare gli stessi, a far penetrare in loro l’imperativo aziendale di accrescere la produzione e la “qualità” della produzione (i profitti) come se fosse un loro bisogno vitale di affermazione personale e di riconoscenza verso la protezione garantita dall’azienda-madre”.[12]

In relazione a quest’ultimo aspetto, Pietro Basso riconosce, infatti, come il vero segreto dell’ohnismo risieda proprio:

“nell’ottenere che ogni operaio profonda nella esecuzione delle sue mansioni tanto l’intera sua capacità fisica, quanto l’intera sua capacità mentale; che egli si auto-attivi per aiutare la direzione a rettificare “in corsa” gli eventuali difetti e del processo lavorativo e del prodotto; che egli nel suo lavoro non sia mai, con la sua mente, “altrove”, ma sia sempre presente “a sé stesso”, a quel secondo e superiore “sé stesso” che è l’azienda; che egli dia “il meglio di sé” (non soltanto le sue capacità esecutive) nel farsi egli stesso azienda”.[13]

A questo proposito, infatti, non è un caso se ai licenziamenti di massa appena ricordati seguiva la promessa di un impiego a vita garantito e l’offerta di forme di welfare aziendale ad almeno una parte della manodopera industriale, quella ovviamente rimasta alle dipendenze dell’impresa-madre. Proprio a fronte di tutto questo, non bisogna stupirsi dell’apparente clima di armonia e di collaborazione che sembra regnare, almeno in superficie, nell’impresa giapponese dal momento che, come sostiene Domenico Laise:

la comunanza di interessi tra capitalisti e lavoratori salariati nella fabbrica toyotista è la stessa che esiste tra strozzino e strozzato. (…) Il lavoratore è costretto, in base a sistemi incentivanti di vario tipo, a comportarsi in modo cooperativo come se fosse il proprietario della fabbrica, ma in realtà la proprietà dei mezzi di produzione è del capitalista. Il lavoratore è costretto, cioè a condividere e a realizzare gli obiettivi aziendali imposti dal management. Dietro l’apparenza della comunanza di interessi vi è, tuttavia, una realtà di interessi disallineati. (…) L’armonia e la pace sociale nella fabbrica giapponese riflettono, perciò, la sconfitta dei lavoratori salariati e non la loro comunanza di interessi con i capitalisti.[14]

In aggiunta, può essere utile richiamare anche quanto sostiene Mario Sai che, istituendo un paragone con i metodi di Taiichi Ohno, ricorda come l’obiettivo perseguito da Sergio Marchionne, una volta divenuto amministratore delegato della FCA, prima di imporre una ristrutturazione produttiva sulla base del WCM (Word Class Manufacturing)[15], fosse «quello di eliminare l’ostacolo di fondo al funzionamento di questo modello di organizzazione della produzione e del lavoro: un sindacato autonomo e con una visione generale dei problemi». Per garantire una «produzione armonica» dovevano essere precedentemente «espunti il conflitto e la contrapposizione di interessi». Inoltre, egli sottolinea che «come trent’anni fa i delegati di gruppo omogeneo rappresentavano un contro-potere da eliminare se si voleva mano libera nell’utilizzo delle innovazioni tecnologiche, oggi serve la trasformazione del sindacato in organizzazione aziendale. Essa deve garantire la produttività di un sistema nel quale la flessibilità delle nuove tecnologie viene compressa nei vecchi schemi organizzativi (una sorta di neo-taylorismo cibernetico), si scarica sul lavoro e si trasforma in precarietà».[16]

In conclusione, quindi, è possibile evidenziare come il passaggio su larga scala al toyotismo, oppure ai suoi derivati più recenti, richieda, in primo luogo, la necessità di sradicare il conflitto di classe e la contrapposizione di interessi dall’ambito aziendale. Solo grazie a questo elemento è possibile, infatti, imporre e rendere praticabili delle forme di cooptazione e collaborazione tra maestranze e direzioni aziendali con il fine di recuperare il savoir-faire dell’operaio, così tanto disprezzato dall’ingegner Taylor, senza però che questo comporti una effettiva riduzione della separazione tra lavoro manuale ed intellettuale o l’abolizione della gerarchia autocratica connaturata all’impresa capitalistica. Una forza lavoro docile, accondiscendente verso il management e completamente subordinata al comando capitalistico è il primo segreto del successo internazionale dell’impresa giapponese.

Continuità e discontinuità tra taylorismo ed ohnismo

Le prime tecniche di «controllo della qualità» furono importante in Giappone nell’immediato secondo dopo guerra dal comando alleato. In particolare, fu Edwards Deming, un ingegnere statunitense, il primo a tenere diversi seminari sul Controllo Statistico di Qualità per il top management giapponese. Questo evento, che potrebbe apparire come una semplice postilla, è invece centrale per capire come la rivoluzione manageriale prodotta dal toyotismo si sia potuta, in breve tempo, diffondere in tutto il mondo aggiornando e non certo ribaltando, come vorrebbe un certa vulgata sociologica dominante, i principi tayloristici sperimentati, fin dai primi decenni del Novecento, in Europa e negli Stati Uniti.

Verso la metà degli anni Settanta del Novecento, in concomitanza con l’inasprirsi del conflitto operaio nell’ambito della produzione, i mercati di alcuni beni standardizzati, tra cui quello dell’automobile, erano considerati ormai saturi. La doppia crisi energetica, del 1973 e del 1979, non ebbe altra conseguenza se non quella di segnare l’inizio di una fase caratterizzata simultaneamente dalla crescita dell’inflazione, causata dall’aumento dei prezzi delle materie prime, e dall’incremento nei livelli di disoccupazione in tutti i principali paesi capitalistici avanzati. I circa tre decenni di crescita economica post-bellica subirono, per la prima volta, un deciso rallentamento, tanto da tramutarsi, ben presto, in una grave recessione. Il problema che a questo punto emerse per le imprese occidentali fu quello di dover «incentivare il ricambio attraverso la diversificazione e il miglioramento della qualità dei prodotti, da integrare con servizi di assistenza personalizzata ai clienti»[17]. Una sfida non facile da affrontare, se si considera la descrizione che Aris Accornero ha offerto dei problemi strutturali legati al settore dell’automotive durante questo periodo di svolta:

negli anni ’70 le crisi petrolifere inasprirono le rigidità del taylor-fordismo nei rapporti con i lavoratori e con il mercato. Negli Stati Uniti i fabbricanti di automobili trovavano soltanto più persone di colore disposte a entrare nei loro stabilimenti, e per assumere la Fiat fu costretta a raschiare il fondo del barile, mentre era scossa dalle agitazioni sindacali e dal terrorismo politico. Le difficoltà delle imprese ad affrontare le turbolenze di mercato facevano declinare i vantaggi delle economie di scala. I piazzali gremiti di auto, le scorte di materiali e i “polmoni” di mano d’opera ponevano sì rimedio agli intoppi o agli imprevisti del flusso produttivo, ma dilazionavano le soluzioni e talvolta occultavano i problemi. (…) L’impresa autosufficiente voleva e doveva pianificare tutto, ma la domanda dei consumatori e la competizione con i concorrenti non erano più gestibili in quel modo. Il rapporto Made in America attribuì la declinante produttività americana a manager e imprese incapaci di adeguarsi al paradigma emergente, espresso dalla coppia usata da Chandler per descrivere l’evoluzione secolare del capitalismo negli Stati Uniti, in Gran Bretagna e in Germania: dalla scala allo scopo.[18]

Il cuore di queste difficoltà risiedeva, infatti, nella necessità di un ripensamento complessivo del modo di organizzare e di gestire l’impresa industriale, dal momento che le funzioni di servizio si avviavano ad essere la prima linea e l’integrazione verticale in singoli stabilimenti doveva essere progressivamente soppiantata da una più flessibile integrazione orizzontale tra diverse unità produttive. Quindi, è in questo scenario, connotato da una forte instabilità economica, politica e sociale, che crebbe l’attenzione per il modello di organizzazione del lavoro e della produzione sperimentato ed applicato, per la prima volta, alla Toyota.

Detto questo, i suoi tratti caratteristici si possono sintetizzare come segue: 1) al contrario del fordismo, sotto il toyotismo la produzione è diretta dalla domanda e ricondotta direttamente ad essa; 2) la produzione è varia, diversificata e pronta a sopperire al consumo. È quest’ultimo che determina ciò che sarà prodotto, e non il contrario, come invece avviene nella produzione in serie e di massa del fordismo; 3) il miglior sfruttamento possibile del tempo di produzione (incluso anche il trasporto, il controllo di qualità e lo stoccaggio) è garantito dal just-in-time; 4) il kanban, un sistema di cartellini utilizzati per il rifornimento dei pezzi, è fondamentale, nel momento in cui si inverte il processo: è dalla fine, dopo la vendita, che si inizia il rifornimento degli stock, e il kanban è il segnale utilizzato per indicare la necessità di rifornimento dei pezzi/prodotti.[19]

Questi quattro elementi, uniti alla necessità di venire incontro alle esigenze più individualizzanti del mercato, determinarono non solo la rottura di quella rigida relazione tra uomo e macchina che aveva, da sempre, caratterizzato il fordismo, ma resero possibile anche operare una parziale ricomposizione delle mansioni lavorative, promuovendo una sorta di «riqualificazione» (sempre nel significato che il capitale attribuisce a questo termine) della forza-lavoro impiegata. Ciò che però subì una trasformazione sostanziale fu la struttura dell’impresa capitalistica che, sulla base del principio del just-in-time, venne drasticamente de-verticalizzata per favorire una compressione, anche questa sempre più estrema, di ogni costo/spreco superfluo (in primo luogo di forza-lavoro). Per questi motivi, la fabbrica snella secondo Taiichi Ohno deve essere definita come la fabbrica dei 6 zeri: zero stock, zero difetti, zero tempi morti di produzione, zero conflitti, zero tempo di attesa per il cliente, zero burocrazia.

Gli altri due principi organizzativi che sorreggono l’intero impianto organizzativo toyotista sono: l’autoattivazione ed il kaizen. Per quanto riguarda il primo, esso si fonda sull’importanza attribuita alla qualità ed alle risorse umane. Secondo quanto previsto dall’ohnismo, infatti, non solo le macchine devono essere dotate di dispositivi in grado di determinarne l’arresto automatico, al fine di prevenire qualsiasi difetto dei prodotti, ma agli «operatori umani» deve essere richiesta anche una interazione costante con i mezzi di produzione per prevenire qualsiasi anomalia. In questo modo, agli operai, che lavorano quasi sempre in gruppo, è attribuito non solo il compito di un controllo costante della qualità durante tutte le singole fasi di produzione, ma anche la ricerca di miglioramenti continui (kaizen) dei prodotti e dei processi di lavoro. In termini marxiani, si può affermare che al lavoratore produttivo vengono attribuiti anche compiti non direttamente produttivi di valore.

Quanto è stato appena richiamato, viene poi concretamente realizzato attraverso la mediazione dei Circoli di Controllo di Qualità (CCQ). Tramite questi, infatti, i teams di lavoratori sono «istigati dal capitale a discutere il loro lavoro e disimpegno, con il proposito di migliorare la produttività delle imprese, convertendosi in un importante strumento affinché il capitale si appropri del savoir faire intellettuale e cognitivo del lavoro, che il fordismo disprezzava»[20].

Quindi, a questo proposito, è assolutamente corretto far notare che l’impresa flessibile e la produzione snella:

sono più sensibili e più reattive agli imprevisti e l’antidoto alla propria vulnerabilità sta in una tempistica scattante e rigorosa. Le tecnologie consentono oggi di impostare e di modificare con agilità le linee di produzione per passare tempestivamente dall’uno all’altro articolo, lotto o modello. Ciò abbrevia di molto i tempi di progettazione, di approvvigionamento, di allestimento (set-up), di riconversione (switch-time), fino ad abbattere la durata di attraversamento del processo dal principio alla fine (lead-time). La variabilità della domanda non comporta soltanto delle novità nei rapporti con il mercato ma anche nei rapporti con il lavoro. Passando dalla produzione di massa alla produzione snella, l’impresa che si è resa flessibile ha da una parte il bisogno vitale di coinvolgere i lavoratori, di renderli partecipi, di farli cooperare, e dall’altra ha un bisogno estremo che anch’essi si rendano flessibili.[21]

Se quanto fino ad ora richiamato si è concentrato principalmente sulle discontinuità introdotte dal sistema di organizzazione del lavoro giapponese, bisogna, una volta giunti a questo punto, prendere in considerazione quelli che possono essere considerati, invece, i tratti di profonda continuità con lo scientific management.

Il problema dal quale partirono le riflessioni di Frederick Taylor fu come riuscire ad accrescere la produttività del lavoro in presenza di una tendenza intrinseca dei lavoratori a ridurre consapevolmente il loro impegno durante l’attività di produzione (il cosiddetto fenomeno del soldering). Questo atteggiamento, secondo l’ingegnere statunitense, non era soltanto dovuto ad una errata convinzione dell’operaio di perdere il posto di lavoro, ma era anche determinato dagli antiquati metodi di organizzazione e di gestione della forza-lavoro a lui contemporanei. Questi, infatti, garantendo ancora ampi margini di discrezionalità alle maestranze rendevano impossibile alle direzioni aziendali esercitare un controllo puntuale sul processo produttivo e questo generava inevitabilmente diffusi sprechi (di tempo, di risorse ecc.) all’interno delle singole officine. Quindi, la soluzione del problema, secondo il suo parere, andava ricercata in uno studio attento e minuzioso di ogni mansione lavorativa con il fine di valutare tutti i singoli movimenti per eliminare i gesti inutili, stabilire dei tempi medi di realizzazione e ridurre ogni spazio di libera iniziativa del lavoratore. Da questa realtà, derivava necessariamente una ristrutturazione complessiva dell’organizzazione e della gerarchia aziendale sulla base di una netta separazione tra fasi di ideazione, assegnate ai vertici aziendali, e quelle di esecuzione, affidate ad una massa di operai generici ed indistinti. L’introduzione della catena di montaggio, incorporando i tempi in un meccanismo automatico, non fece altro che accentuare ulteriormente la tendenza alla degradazione del contenuto professionale del lavoro per portarla ad un livello ancora più infimo.

A fronte di questa situazione, la proposta dell’Organizzazione Scientifica del Lavoro si può sintetizzare in quattro punti: 1) rigida definizione dei tempi e dei metodi di lavoro; 2) definizione di criteri e procedure rigorosamente scientifici per il reclutamento di manodopera; 3) instaurazione di relazioni di lavoro improntate non più sulla minaccia, ma sulla cordiale collaborazione; 4) ristrutturazione dell’organizzazione e della gerarchia aziendale sulla base di una netta separazione tra fasi di ideazione e quelle di esecuzione.[22]

La scommessa di Taylor era quindi sostanzialmente legata ad uno scambio ineguale tra le parti: da un lato, il lavoratore doveva accettare l’espropriazione delle sue conoscenze sui processi produttivi, con un drastico ridimensionamento della sua professionalità; dall’altro, però, le direzioni aziendali avrebbero dovuto rendere sostenibile nel tempo questa situazione garantendo relazioni cordiali con le maestranze ed aumenti salariali, chiaramente proporzionali all’incremento della produttività del lavoro. Si potrebbe sostenere, infatti, che l’insuperabile limite del taylorismo risiedé, in definitiva, proprio in questo rapporto strutturalmente diseguale che, avendo come fine ultimo quello di instaurare un modello di relazioni industriali tipicamente corporativo, comportò esclusivamente, nel momento in cui la sua applicazione venne generalizzata, un accrescimento del carattere autocratico del comando capitalistico sul lavoro.

Partendo da queste premesse, è abbastanza facile dimostrare come anche tutta l’impalcatura analitica di Taiichi Ohno non si discosti in alcun modo dagli obiettivi indicati, già a suo tempo, dall’ingegnere statunitense. In sostanza, il risultato che anche il suo omologo nipponico voleva raggiungere non era nient’altro che l’accrescimento della produttività del lavoro da ottenersi, però, con il minimo utilizzo possibile di manodopera e con la totale eliminazione/compressione di tutti gli sprechi superflui. Alla fine, si potrebbe affermare che la meta ideale del toyotismo non sia nient’altro che i sessanta secondi lavorati al minuto, i sessanta minuti lavorati all’ora e quindi un rendimento globale pari al 100%. Secondo Pietro Basso, infatti,

“questa ossessione (il termine di Ohno è davvero ben scelto) per la riduzione al minimo della quantità lavoro da impiegare nel processo produttivo porta con sé un indefinito innalzamento della densità del tempo di lavoro. Il tempo di lavoro del toyotismo è un tempo di lavoro che, ancora più di quello del taylorismo e il fordismo, è privato di tutte le sue discontinuità. In esso durata formale e durata effettiva dell’orario si avvicinano al massimo grado, e non a caso il contingente di forza lavoro da immettere nel processo produttivo vi viene programmato di qualche punto al di sotto di ciò che è considerato indispensabile, sì da garantirsi stabilmente un livello di tensione lavorativa più elevato possibile.”[23]

Quindi, non solo la linea di produzione non si deve mai arrestare, salvo che per correggere anomalie, ma il suo moto perpetuo è ciò che garantisce il fatto che, alla fine, la differenza tra output potenziale ed output effettivo si riduca sempre di più fino a scomparire. Come sia possibile parlare, a questo punto, di una inversione o di un ribaltamento[24] dei principi tayloristici rimane un vero mistero. Al contrario, invece, risulta evidente che:

“il sistema-Toyota, ad un tempo brutalmente autoritario e sofisticato in fatto di capacità manipolatoria, ha unito al martellamento dei “chiodi sporgenti” l’ossessiva ricerca delle migliorie da apportare al processo di produzione attraverso la mobilitazione (a questo fine) di tutte le risorse intellettuali e creative presenti nei lavoratori – una mobilitazione che si presenta, e ci tiene molto a farlo, come valorizzazione (e premio) delle qualità superiori della forza-lavoro, nel quadro di un contesto organizzativo nel quale sono state abolite tutte le più rigide e sciocche forme gerarchiche proprie del taylorismo, come ad esempio la mensa separata per operai e dirigenti”.[25]

Tra l’altro, proprio in relazione a quanto fino ad ora trattato, Paolo Barrucci nota come all’interno dell’impresa snella giapponese non solo si mantiene intatta la principale forma di divisione del lavoro ossia la separazione tra ideazione ed esecuzione, ma anche la riduzione della estrema parcellizzazione della mansioni, imposta dal taylorismo, serve unicamente a:

“rendere più produttiva la forza-lavoro (marxianamente: nuove modalità di estorsione del plusvalore relativo) assegnando ai lavoratori maggiori responsabilità e più ampi margini di controllo sulle modalità operative, ma che garantiscono alla direzione (anche grazie a nuovi sistemi elettronici) un inaudito controllo sul processo produttivo.”[26]

Un parere non dissimile da quello precedente lo fornisce anche Lucia Pradella, la quale ritiene che:

“il toyotismo, impostosi in Giappone e da lì generalizzatosi, si è concentrato sull’organizzazione del lavoro più che sull’automazione: con l’azzeramento delle scorte e la produzione “snella”, esso mira a far dipendere la produzione dalla domanda effettiva presente sul mercato, riducendo al massimo gli sprechi di materiale e di tempo, e quindi di manodopera. (…) Nel sistema toyotista rimane intatta la separazione tra le funzioni di progettazione e quelle di esecuzione: il lavoro è semplice, frammentato e ripetitivo, addirittura più controllato e standardizzato che nella fabbrica fordista. La tanto decantata centralità del “talento individuale” e del “gioco di squadra” ha incrementato, in realtà, la sorveglianza reciproca tra gli operai, facendo interiorizzare il controllo esterno e disciplinare taylorista e riducendo così le spese per il lavoro improduttivo”.[27]

A proposito di queste tematiche, anche Riccardo Bellofiore ritiene che, sebbene sia sbagliato negare che il modello giapponese comporti una parziale riqualificazione del lavoro:

“vi è qui, per così dire, uno scambio da cui le imprese non hanno che da guadagnare: riconoscere, consentire e stimolare una conoscenza ed un controllo, da parte dei lavoratori, di spezzoni del processo produttivo, per ottenere in contropartita una maggiore saturazione degli impianti. In poche parole, l’intensificazione del lavoro è raggiunta non soltanto attraverso l’eliminazione di ogni poro superfluo nel tempo di lavoro (per gli imperativi zero stock, di just-in-time e di kaizen), ma anche attraverso quella parziale ricomposizione delle mansioni che è essenziale per massimizzare l’utilizzo degli impianti: le due cose sono anzi, a ben vedere, la medesima. D’altronde, la riduzione al minimo delle scorte per ovviare a interruzioni del ciclo lavorativo o a turbolenze di mercato è possibile soltanto grazie ad un controllo maggiore e, non minore, dello scorrere del flusso mentre esso si svolge; e questo – che, sia detto per inciso, rende in potenza più fragile il processo – non può che essere compito di una forza lavoro più attenta e più elastica, e di cui si deve mantenere il consenso: con la carota e/o con il bastone!"[28]

In aggiunta, pure George Ritzer suggerisce come il passaggio tra l’americano just-in-case al giapponese just-in-time debba essere interpretato come l’estensione, non il superamento o l’inversione, dei principi propri della catena di montaggio a tutta la filiera dei fornitori. Egli, infatti, scrive che:

nel sistema just-in-case le scorte sono immagazzinate nell’impianto fino al momento in cui (nel caso che) ve ne sia richiesta. Con gli sprechi che ne conseguono, soprattutto l’acquisto e il deposito in magazzino (con costi rilevanti) di parti non necessarie per tempi anche lunghi. Per rimediare a queste inefficienze i giapponesi hanno elaborato il sistema just-in-time: i pezzi di cui c’è bisogno arrivano alla catena di montaggio proprio nel momento in cui devono essere montati sulla macchina o qualsiasi altro prodotto in lavorazione. L’inefficienza intrinseca all’altro sistema viene così eliminata organizzando, in effetti, tutti i fornitori attorno ad un’unica, enorme catena di montaggio.[29]

Tra le altre cose, questo pilastro (il just-in-time) del modello di organizzazione del lavoro giapponese, che secondo i suoi apologeti renderebbe effettiva la sovranità del consumatore così cara ai modelli economici neo-classici, risponde invece alla necessità costante di ridurre il tempo di rotazione del capitale, risultato che può essere ottenuto attraverso la compressione, sempre più spinta, del tempo di circolazione. Secondo Marx, infatti, quanto maggiore è il numero dei cicli che il capitale riesce a completare in un dato periodo temporale tanto maggiore è la quantità di plusvalore che si riesce ad accumulare ed a realizzare. A questo proposito, Tony Smith riconosce che:

l’approccio “just in time”, per esempio, è concepito affinché ogni stadio del processo di produzione e distribuzione risponda rapidamente alle richieste dello stadio successivo, in modo da ridurre il tempo di circolazione. Tutte le innovazioni per diminuire la “lentezza” e rendere “snella” la produzione e la circolazione – come l’eliminazione dei dipartimenti separati di controllo della qualità – sono chiaramente volti alla riduzione del tempo di circolazione. Così anche l’introduzione delle macchine a compito multiplo come robot, strumenti controllati dal computer, mezzi di trasposto automatizzati, sono tutti volti alla velocizzazione della trasformazione delle materie prime nel prodotto finito. La spinta alla riduzione del ciclo del prodotto per mezzo della progettazione simultanea è un’altra caratteristica del modello di produzione snella finalizzata alla riduzione del tempo di circolazione. Si deve aggiungere a questa lista la divisione della produzione per mezzo delle “esternalizzazioni”. Se gli stadi della produzione e della distribuzione sono gestiti da un’azienda integrata verticalmente [vertically integrate company], una considerevole quantità di capitale è vincolata a lungo prima della vendita finale. Negli accordi di subappalto, gli stadi del processo di produzione e di distribuzione sono assegnati a differenti unità di capitale, ognuna delle quali procede nel proprio circuito ad una velocità proporzionalmente più elevata rispetto al capitale investito nelle imprese integrate verticalmente del fordismo [vertically integrated firms].

In questo modo, è possibile anche agire sulle giacenze degli input e degli output lungo tutto il ciclo produttivo e distributivo, la cui deperibilità potrebbe determinare perfino un arresto dell’accumulazione capitalistica. Anche in questo caso, lo scopo esplicito del

“sistema “just in time” è quello di ridurre le giacenze ad ogni livello del processo di produzione e di distribuzione. La quantità di materie prime e semilavorati ottenuti dai fornitori diminuisce; le scorte di sicurezza delle parti utilizzate nella produzione si riducono; i rapporti con i distributori sono coordinati in vista della riduzione delle giacenze di prodotti invenduti. Tutte queste misure confermano la tesi marxiana espressa nel secondo libro, secondo la quale le giacenze giocano un ruolo molto importante nel processo di accumulazione del capitale”.[30]

Quindi, sulla base di queste evidenze, non è un caso se Ricardo Antunes sia giunto alla conclusione che il sistema toyotista possa essere considerato come:

“un processo di organizzazione del lavoro la cui finalità essenziale, reale, è l’intensificazione delle condizioni di sfruttamento della forza lavoro, riducendo molto o eliminando il lavoro improduttivo, che non crea valore, sia le forme ad esso analoghe, specialmente nelle attività di manutenzione, accompagnamento e ispezione di qualità, funzioni che sono passate ad essere direttamente incorporate al lavoratore produttivo. Ri-ingegneria, lean production, team work, eliminazione di posti di lavoro, aumento della produttività, qualità totale, fanno parte del sistema di idee (e della pratica) quotidiana della “fabbrica moderna”. Se all’apogeo del taylorismo-fordismo la forza di un’impresa si misurava per il numero di operai che in essa esercitavano la loro attività, si può dire che nell’era dell’accumulazione flessibile e dell’impresa ridotta meritano rilievo, e sono citate come esempi da seguire, le imprese che dispongono di minore contingente di forza lavoro e che malgrado questo hanno maggiori indici di produttività”.[31]

Solo grazie a questi aspetti, infatti, si può affermare che la pragmatica toyotista arrivi ad utilizzare

“il sapere operaio, l’intelletto del lavoro, per aggregare e/o potenzializzare plusvalore nella produzione, sia essa prevalentemente materiale o immateriale. (…) Contemplando tratti di continuità in relazione al fordismo, vigente nel corso del XX secolo, ma secondo un ricettario con chiari elementi di differenziazione e discontinuità, l’impresa della flessibilità liofilizzata è finita per generare nuovi e più complessi meccanismi di interiorizzazione, di personificazione del lavoro, sotto il “coinvolgimento incitato” del capitale, incentivando l’esercizio di una soggettività marcata dall’inautenticità, cioè, quello che occorre quando lo stimolo per l’esercizio della soggettività del lavoro è sempre conformato agli interessi delle imprese, non comportando nessun tratto che si confronti con il sistema ideale del profitto e dell’aumento di produttività. (…) L’estraniazione diventa, così, meno dispotica in apparenza, ma più intensamente interiorizzata.”[32]

Allo stesso modo degli studiosi richiamati in precedenza, anche Gianfranco Pala e Maurizio Donato ritengono che:

“la nuova organizzazione scientifica del lavoro è articolata su procedure che Taiichi Ohno ha mutuato, sviluppandole, dal taylorismo di fabbrica. Lo stesso Ohno spiega che quei principi non sono affatto annullati, ma conservati nella trasformazione che li supera dialetticamente. In questo senso non è corretto considerare l’ohnismo come una organizzazione del lavoro “radicalmente” nuova, dimenticando quale sia, rispetto alle precedenti esperienze, il chiaro nesso di continuità e discontinuità, che fa leva sulla flessibilità e sull’eliminazione degli sprechi. Anzi, l’osservazione condotta sulla catena di montaggio tayloristica è stata proiettata sull’intero ciclo di produzione, a monte e a valle, interno ed esterno, ed è stata estesa dall’approvvigionamento fino alla commercializzazione. La consonanza di tale modulo di ristrutturazione organizzativa con l’interdipendenza funzionale e gerarchica delle filiere e delle catene del valore è evidente”.[33]

Solamente tenendo presente gli aspetti di marcata continuità tra ohnismo e taylorismo-fordismo, è possibile comprendere come, in ultima analisi, la concezione di fondo che si sostanzia nel modello di organizzazione del lavoro giapponese stia:

“nell’osservazione che – in un sistema di macchine flessibili, flessibili come la forza-lavoro (ciò di cui Taylor non poteva disporre appieno) – una corrispondenza troppo stretta tra uomo e macchina comporta lo spreco del tempo di attesa tra un’operazione e l’altra. Tendenza del capitale, diceva Marx, è identificare tempo di produzione e tempo di lavoro. Eliminare i tempi morti, e con essi l’eccesso di manodopera (e l’assenteismo). Ridurre i pori della giornata lavorativa e condensare il tempo di lavoro. La soluzione di Ohno è consistita dunque nel mettere più macchine di diverso tipo in sequenza, affidandole a un solo lavoratore: “un’ora di sessanta minuti”! L’identificazione tendenziale del tempo di lavoro con il tempo di produzione – nella quale si inserisce anche parallelamente il passaggio ai cicli continui di produzione – ha una conseguenza molto importante: la tendenza della riduzione a zero delle scorte. Qui è l’arcano dell’ohnismo. Quando si dice scorte zero, capitalisticamente parlando, si intende riferirsi sia al capitale costante (materie prime, semilavorati e macchine) sia al capitale variabile (forza-lavoro). L’obiettivo di Ohno, in primo luogo, è consistito nell’eliminazione degli sprechi di materiali (inclusa l’utilizzazione degli impianti) e di tempo di lavoro (di qui l’attenzione, ora ricordata, rivolta all’intensificazione e alla condensazione del processo di lavoro). In secondo luogo, ciò consente anche forti risparmi aggiuntivi nei costi di approvvigionamento, trasporto, magazzinaggio e gestione delle scorte”.[34]

A questo punto, si dovrebbe aver dimostrato che se da un lato risulta ampiamente scorretto considerare il sistema di organizzazione del lavoro giapponese unicamente in opposizione ai classici principi del taylorismo e del fordismo, dall’altro, però, bisogna sicuramente prendere atto del fatto che il toyotismo sia riuscito, attraverso la scomposizione della grande fabbrica verticalmente integrata, ad infierire un duro colpo alle capacità di conflitto e di organizzazione della classe operaia a livello internazionale. Questi esiti sono chiaramente da ricondurre non solo all’intensificazione dei ritmi di lavoro, ma anche alla concreta possibilità di suddividere, attraverso i processi di esternalizzazione/outsourcing, la forza-lavoro occupata in due segmenti distinti ed apparentemente in contrapposizione: da un lato, si trovano i lavoratori che svolgono mansioni più qualificate, assunti direttamente dall’impresa-madre e che, per questo motivo, godono di buone protezioni normative e di alte retribuzioni; dall’altro, si può, invece, osservare un esercito fluttuante di salariati flessibili e precari occupati dalle aziende fornitrici privi di ogni forma di tutela sociale. Quindi, proprio la liofilizzazione organizzativa prodotta dall’ohnismo ha reso realizzabile una trasformazione radicale delle strutture delle imprese capitalistiche, che ha dato corpo alla possibilità di legare, in maniera sostenibile, ad una tendenziale de-concentrazione della forza-lavoro una parallela centralizzazione del comando capitalistico. A proposito di questo aspetto, Knuth Dohse, Ulrich Jürgens e Thomas Malsch riconoscono, infatti, che la struttura economica giapponese:

“è caratterizzata da un dualismo molto accentuato. Le grandi imprese pagano salari relativamente alti, mentre le piccole imprese pagano solo bassi salari con scarsi o nulli benefit sociali ed esigua sicurezza del posto di lavoro. Questo dualismo in una certa misura può essere riscontrato in tutti i paesi occidentali, ma in Giappone è molto più pronunciato. (…) Le imprese automobilistiche giapponesi fondano il loro vantaggio competitivo su questo dualismo, dal momento che ordinano particolari e componenti ai loro fornitori economicamente dipendenti piuttosto che produrli essi stessi. La produzione di particolari è stata delegata a piccole e medie imprese in misura molto maggiore rispetto all’industria automobilistica mondiale e ciò costituisce una peculiarità rispetto ai principali grandi impianti. Nello stesso tempo le industrie automobilistiche giapponesi mantengono una struttura altamente integrata perché le imprese minori sono economicamente e legalmente dipendenti, e in molti casi possono essere viste come divisioni delle imprese maggiori. Le grandi imprese hanno pertanto interiorizzato le strutture dualistiche. Ciò è stato possibile solo a causa della frammentazione a livello di impresa dei sindacati, che sono stati incapaci di opporsi all’integrazione economica delle grandi imprese con contrattazioni collettive integrative dei salari e delle condizioni di lavoro”.[35]

Con tutta probabilità, questo è il tratto veramente originale che ha caratterizzato e sempre di più caratterizzerà il processo di ristrutturazione produttiva su scala planetaria che, dagli anni Settanta, ha inaugurato l’era dell’accumulazione flessibile.

Giunti alla conclusione, può essere utile richiamare anche le considerazioni a cui sono arrivati tanto Riccardo Bellofiore quanto Domenico Laise.

Secondo il primo:

“per un verso, la continuità tra vecchio e nuovo ordine produttivo è altrettanto, se non più, rilevante della discontinuità. Per l’altro verso, gli elementi di superamento della separazione tra concezione ed esecuzione del lavoro e della standardizzazione dei processi produttivi sono essi stessi il mezzo di un approfondimento della subordinazione dei processi di lavoro al processo di valorizzazione capitalistica. Dietro l’illusione organicistica dei lavoratori dentro il corpo (e i valori) dell’impresa non sta affatto l’obsolescenza del conflitto, o della classe operaia, come in troppi, da tutte le parti, ci vogliono far credere. Sta piuttosto una rivoluzione passiva di parte imprenditoriale, che è stata in grado di mettere sulla difensiva il movimento organizzato dei lavoratori e di conquistare il consenso temporaneo dei lavoratori individuali”.[36]

A parere del secondo:

“a partire dagli anni Settanta del secolo scorso, è sembrato evidente che il modello fordista di organizzazione stava lasciando il posto a uno post-fordista, che si identificava sempre di più con la J-Form (Japanese-Form). L’imitazione della J-Form da parte delle organizzazioni dei paesi occidentali è diventata, nel seguito, una necessità per la sopravvivenza. Molti aspetti dei paradigmi superati (taylorismo e fordismo) sono stati abbandonati, ma l’organizzazione del lavoro nella fabbrica ha mantenuto i caratteri capitalistici del paradigma tayloristico-fordista. Anzi, gli aspetti capitalistici di tale organizzazione sono stati accentuati alla massima potenza. Al “cronometro” è stato affiancato il “metronomo” ed il controllo della prestazione lavorativa e routinaria è diventato ancora più oppressivo”.[37]

Tutto questo, sempre a giudizio di Domenico Laise, ha realizzato concretamente tutte le condizioni che il filosofo inglese Jeremy Bentham aveva idealmente previsto nel progetto del Panottico.[38]

Tra l’altro, a far propria la metafora panopticista per descrivere la realtà della fabbrica post-fordista è anche Domenico Masino. A parere di questo autore, se il fordismo si basava principalmente su un «controllo esercitato», cioè l’organizzazione veniva progettata a partire dalla presunzione di una razionalità organizzativa forte, la novità delle più moderne soluzioni organizzative si sostanzia nel fatto che:

“il postfordismo non solo non si contrappone alla logica suddetta, ma la estende e la rafforza attraverso un insieme di pratiche basato non più solo sulla capacità di controllo esercitata, ma anche sulla “capacità di un controllo esercitabile”. (…) Il controllo è efficace non solo quando è esercitato esplicitamente attraverso vincoli diretti, ma anche quando spinge i comportamenti nella direzione desiderata grazie al palesarsi dei rapporti di dipendenza informali. (…) Di conseguenza, le “nuove” forme organizzative non rappresentano un “superamento” del fordismo, né un ribaltamento della sua logica, ma un perfezionamento un suo ampliamento. Un perfezionamento, perché le pratiche postfordiste consentono una maggiore efficienza ed efficacia dell’azione di controllo in quanto realizzata attraverso capacità esercitabile, ossia iscrizione dei processi di lavoro in un quadro di dipendenza variabile. Un ampliamento, perché le pratiche postfordiste implicano l’estensione della regolazione eteronoma a sfere di attività che, nelle tradizionali soluzioni fordiste, sfuggivano al controllo esercitato”.[39]

A questo proposito, quindi, l’aspetto più rilevante riguarda l’accrescimento di un controllo realizzato in una maniera «indiretta». Solamente in questo modo, non solo la coercizione continua a sussistere, ma tende anche ad essere riprodotta a livello periferico grazie al fatto che essa viene delegata ai lavoratori stessi che la subiscono.

Conclusione

Un’analisi che voglia dar conto degli effetti prodotti sul lavoro dall’applicazione su larga scala del toyotismo non può che partire dai tratti peculiari che hanno caratterizzato e che caratterizzano tutt’oggi il capitalismo giapponese. In questo senso, è importante richiamare i motivi che hanno determinato la sconfitta del sindacalismo di classe nipponico per dimostrare come questa tecnica produttiva trovi, ieri come oggi, nel sostegno di un sindacalismo di impresa, totalmente subalterno all’universo padronale, un elemento assolutamente imprescindibile del suo successo.

Solo grazie a questo, infatti, Taiichi Ohno riuscì ad imporre una razionalizzazione dei processi produttivi con il fine di innalzare i livelli di produttività del lavoro, attraverso l’intensificazione dei ritmi, riducendo contemporaneamente al minimo l’utilizzo di forza lavoro ed ottenendo il taglio di tutti i costi e gli sprechi superflui.

Con l’inizio di una profonda crisi nei modelli di accumulazione capitalistica, databile intorno alla metà degli anni Settanta del Novecento, l’interesse per il sistema di produzione sperimentato alla Toyota crebbe drasticamente, anche alla luce delle sue ineguagliabili performance economiche. Molti studiosi occidentali, però, concentrando l’attenzione esclusivamente sugli aspetti di discontinuità rispetto al taylorismo sono giunti ad offrire una rappresentazione edulcorata e mistificata del toyotismo. Anzi, è possibile affermare che la tesi dell’inversione/rovesciamento/ribaltamento sia giunta ad offrire una giustificazione per gli aspetti maggiormente oppressivi e manipolatori del sistema ohnista.

Oggi è forse giunto il momento di provare ad offrire un descrizione più articolata e che sappia dar conto soprattutto degli elementi di continuità tra i due modelli di organizzazione del lavoro. Questo può essere fatto solamente dimostrando come l’organizzazione giapponese dei processi produttivi non solo non rappresenta una alternativa al paradigma fordista, ma anzi, in alcuni suoi tratti, si configura come l’applicazione pratica «dei principi organizzativi del fordismo in una condizione di prerogative manageriali illimitate»[40]. In questo senso, la pressione sui lavoratori, mediata dai gruppi di lavoro, è non solo l’elemento centrale che consente a questo sistema di funzionare, ma anche uno dei degli aspetti maggiormente regressivi per quanto riguarda le condizioni di lavoro.

Quindi, da questo punto di vista, era abbastanza prevedibile come lungi dal riscontrare «una social democratizzazione del toyotismo», al contrario, si sarebbe assistito, in questi ultimi decenni, ad «una toyotizzazione de-caratterizzante e disorganizzante della socialdemocrazia». Per questo motivo, in conclusione, si può affermare che «l’occidentalizzazione del toyotismo» abbia rappresentato «una decisiva acquisizione del capitale contro il lavoro».[41]

Note:

[1]Taiichi Ohno (1912-1990) è stato un ingegnere giapponese. Dopo essersi laureato nel 1932 è stato nominato direttore della Toyota nel 1954. È universalmente considerato l’ideatore del Toyota Production System (in questo saggio definito anche toyotismo oppure ohnismo).

[2]giovanni sabbatucci vittorio vidotto, Storia contemporanea Il Novecento, Bari, Editori Laterza, 2008, p. 225

[3]benjamin coriat, Ripensare l’organizzazione del lavoro concetti e prassi del modello giapponese, Bari, Edizioni Dedalo, 1993, p. 41-42

[4]ricardo antunes, Addio al lavoro? Le metamorfosi e la centralità del lavoro, Trieste, Asterios, 2019, p. 53-54

[5]Per approfondire questi temi: rosa caroli francesco gatti, Storia del Giappone, Bari, Editori Laterza, 2016

[6]Op. cit., p. 54

[7]Op. cit., p. 54

[8]michele la rosa, Il sistema giapponese, Milano, Franco Angeli, 1998, p. 113-114

[9]1riccardo bellofiore, Il lavoro di domani globalizzazione finanziaria, ristrutturazione del capitale e mutamenti della produzione, Pisa, BFS edizioni, 1998, p. 41

[10]giuliana commisso, Il conflitto invisibile forma del potere, relazioni sociali e soggettività operaia alla Fiat di Melfi, Catanzaro, Rubettino Editore, 1999, p. 7-8

[11]giuliana commisso, Il conflitto invisibile forma del potere, relazioni sociali e soggettività operaia alla Fiat di Melfi, Catanzaro, Rubettino Editore, 1999, p. 95

[12]pietro basso, Un cataclisma, e il suo lucido narratore, p. 15 in ricardo antunes, Addio al lavoro? Le metamorfosi e la centralità del lavoro, Trieste, Asterios, 2019

[13]pietro basso, Tempi moderni, orari antichi L’orario di lavoro a fine secolo, Milano, FrancoAngeli, 1998, p. 77-78

[14]domenico laise, La natura dell’impresa capitalistica, Milano, Egea, 2015, p. 502-503

[15]Nel passaggio tra oriente ed occidente, del sistema di organizzazione del lavoro toyotista furono assunti principalmente tre elementi: quelli «organicisti» (l’impresa è come il corpo umano ed i singoli lavoratori sono le sue cellule per questo motivo essi devono subordinarsi ed accettarne i fini), il «just in time» ed il «muda» (lo sforzo, soprattutto fisico, degli operai per garantire il miglioramento costante della produzione). Questo ha posto in essere il WCM, una nuova forma di organizzazione del lavoro applicata nelle imprese dei paesi occidentali (ad esempio alla FIAT).

[16]mario sai, Vento dell’Est Toyotismo, lavoro, democrazia, Roma, Ediesse, 2015, p. 82-83

[17]paolo barrucci, Le divisioni del lavoro sociale: dagli spilli di Smith alle catene transnazionali del valore, Milano, Franco Angeli, 2014, p. 91

[18]aris accornero, Il mondo della produzione. Sociologia del lavoro e dell’industria, Bologna, Il Mulino, 2013, 301-302

[19]ricardo antunes, Addio al lavoro? Le metamorfosi e la centralità del lavoro, Trieste, Asterios, 2019, p. 55

[20]ricardo antunes, Il lavoro e i suoi sensi affermazione e negazione del mondo del lavoro, Milano, Edizioni Punto Rosso, 2016, p. 70

[21]aris accornero, Il mondo della produzione. Sociologia del lavoro e dell’industria, Bologna, Il Mulino, 2013, p. 306

[22]paolo barrucci, Le divisioni del lavoro sociale: dagli spilli di Smith alle catene transnazionali del valore, Milano, Franco Angeli, 2014, p. 73

[23]pietro basso, Tempi moderni, orari antichi L’orario di lavoro a fine secolo, Milano, FrancoAngeli, 1998, p. 77-78

[24] La tesi secondo la quale il toyotismo rappresenterebbe un ribaltamento della logica taylorista-fordista la si può ritrovare in benjamin coriat, Ripensare l’organizzazione del lavoro. Concetti e prassi del modello giapponese, Bari, Edizioni Dedalo, 1993

[25]pietro basso, Un cataclisma, e il suo lucido narratore, p. 16 in ricardo antunes, Addio al lavoro? Le metamorfosi e la centralità del lavoro, Trieste, Asterios, 2019

[26]paolo barrucci, Le divisioni del lavoro sociale: dagli spilli di Smith alle catene transnazionali del valore, Milano, Franco Angeli, 2014, p. 95

[27]lucia pradella, L’attualità del Capitale accumulazione e impoverimento nel capitalismo globale, Padova, Il Poligrafo, 2010, p. 312-313

[28]1riccardo bellofiore, Il lavoro di domani globalizzazione finanziaria, ristrutturazione del capitale e mutamenti della produzione, Pisa, BFS edizioni, 1998, p. 41-42

[29]george ritzer, Il mondo alla McDonald’s, Bologna, Il Mulino, 1997, p. 86

[30]riccardo bellofiore roberto fineschi, Marx in questione il dibattito “aperto” dell’International Symposium on Marxian Theory, Napoli, La città del sole, 2009, p. 217-219

[31]ricardo antunes, Il lavoro e i suoi sensi affermazione e negazione del mondo del lavoro, Milano, Edizioni Punto Rosso, 2016, p. 68

[32]ricardo antunes, Il privilegio della servitù il nuovo proletariato di servizi nell’era digitale, Milano, Edizioni Punto Rosso, 2020, p. 98

[33]gianfranco pala maurizio donato, La catena e gli anelli: divisone internazionale del lavoro, capitale finanziario e filiere di produzione, Napoli, La Città Del Sole, 1999, p. 36

[34]gianfranco pala carla filosa, Il terzo impero del sole il neo-corporativismo giapponese nel nuovo ordine imperialistico mondiale, Bologna, Synergon, 1992, p. 26

[35]michele la rosa, Il sistema giapponese, Milano, Franco Angeli, 1998, p. 94-95

[36]1riccardo bellofiore, Il lavoro di domani globalizzazione finanziaria, ristrutturazione del capitale e mutamenti della produzione, Pisa, BFS edizioni, 1998, p. 43

[37]domenico laise, La natura dell’impresa capitalistica, Milano, Egea, 2015, p. 498

[38]Il Panottico è un progetto di carcere ideale elaborato da Jeremy Bentham. In questa struttura, un unico sorvegliante sarebbe stato in grado di controllare tutti i carcerati senza, però, che questi ultimi potessero stabile, in maniera certa, se fossero o meno osservati.

[39]giovanni masino, Le imprese oltre il fordismo retorica, illusioni, realtà, Roma, Carrocci Editore, 2005, p. 86

[40]michele la rosa, Il sistema giapponese, Milano, Franco Angeli, 1998, p. 120-121

[41]ricardo antunes, Addio al lavoro? Le metamorfosi e la centralità del lavoro, Trieste Asterios Editore, 2019, p. 61

Fonte

Nessun commento:

Posta un commento