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18/02/2021

Verso la repubblica catalana

Se in una situazione di “normalità” liberaldemocratica le elezioni rappresentano spesso il feticcio al quale si riduce la partecipazione politica, in Catalunya sono un momento rilevante nello scontro che oppone il movimento per l’indipendenza e la repubblica al cosiddetto regime del ’78 (le cui radici affondano nel franchismo) ed è in questa cornice che conviene situarle.

Le elezioni del 14 febbraio si sono svolte infatti in un contesto eccezionale, segnato dalla repressione e dall’intervento tutt’altro che neutrale dello Stato: sono stati i tribunali spagnoli, incuranti del consenso raggiunto tra tutti i partiti sull’opportunità del rinvio della consulta al maggio, ad assecondare il PSC, unica formazione ansiosa di votare prima che si consumasse l’effetto Illa, ossia la popolarità dell’ex-ministro della sanità spagnolo Salvador Illa (candidato alla Generalitat) che avrebbe dovuto assicurare il trionfo del socialisti.

Il Tribunale Superiore di Giustizia di Catalunya ha così imposto il 14 febbraio come il terreno di gioco più favorevole all’unionismo, senza tenere in considerazione la situazione di alto rischio sanitario.

L’intervento degli apparati dello Stato si è palesato anche nella tv pubblica catalana, ai cui giornalisti è stato vietato di usare le espressioni “prigionieri politici” ed “esiliati” durante la campagna elettorale. Contemporaneamente la giunta elettorale ha vietato anche qualsiasi manifestazione di solidarietà con i detenuti politici indipendentisti.

Queste accortezze però non sono state sufficienti ad ottenere i risultati sperati: il PSC è il partito più votato con il 23,04% dei voti, ma Esquerra Republicana de Catalunya e Junts per Catalunya seguono a una distanza minima, portando a casa rispettivamente il 21,3% e il 20,04%. Non solo, socialisti e repubblicani raggiungono entrambi la quota di 33 seggi, mentre Junts gli segue a quota 32.

La riproposizione del centrosinistra statale è del tutto esclusa dai numeri: PSC e Catalunya en Comú (8 seggi) arrivano appena a quota 41, lontani dai 68 seggi che marcano la maggioranza. Una soglia ampiamente superata dallo schieramento indipendentista grazie anche ai 9 seggi della CUP e che assicura ai sostenitori della repubblica una maggioranza di 74 seggi, ancora più ampia di quella che portò al referendum del primo ottobre 2017.

Per la prima volta i partiti indipendentisti superano il 50% dei voti, attestandosi al 51,14%. Un dato assai significativo ma non sorprendente: ci sono ben 800 comuni (su un totale di 933) nei quali gli indipendentisti superano il 50% ormai da tre elezioni consecutive (come nel caso di Girona, Olot, Banyoles e in numerosi centri minori).

Il voto indipendentista continua a crescere anche fuori dai propri feudi situati soprattutto nell’interno: la geografia del voto ci consegna la suggestiva immagine delle campagne che accerchiano la metropoli e il litorale. Il voto unionista si concentra infatti a Barcellona e nella cintura metropolitana, nel 2017 egemonizzato da Ciutadans, oggi rappresentato dal PSC, anche se ERC si affaccia anche qui a contendere con sempre maggior efficacia il primato ai fautori dell’unità dello Stato.

Lo straordinario risultato del composito schieramento indipendentista rende impossibile qualsiasi ipotesi di governo unionista e complica molto l’ipotesi di tripartito delle sinistre (PSC, Catalunya en Comú e ERC) auspicata dal partito di Ada Colau. L’accento da tempo posto dai repubblicani sulla tavola delle trattative, e sulla necessità del dialogo con lo Stato, avevano fatto presagire il via libera di ERC al governo delle sinistre statali (magari in cambio di un indulto per i responsabili del primo ottobre), ma la schiacciante vittoria elettorale rende assai difficile questo scenario.

La giornata elettorale si è svolta di fatto anche fuori dai seggi: nella notte precedente al voto sono stati incendiati due ripetitori della televisione spagnola, uno a Rocacorba (Girona) e uno a Cubells (Lleida), un sabotaggio finora non rivendicato che ha oscurato durante le operazioni di voto la tv dello Stato per gran parte della giornata e che ha ricordato a tutti la presenza di un settore sociale disposto al conflitto, al di la delle scadenze elettorali.

L’episodio ricorda le decine di sabotaggi portati a termine nel corso degli anni ’80 dal movimento dell’epoca (minoritario ma egemonizzato da un’esquerra independentista assai radicale) e diretti soprattutto contro le strutture del monopolio statale dell’energia, le caserme della Guardia Civil e altre amministrazioni dello stato.

D’altro canto le piazze sono state animate durante tutta la campagna elettorale da numerose contestazioni, organizzate dai Comitati di Difesa della Repubblica e dalle piattaforme antifasciste cittadine, contro i comizi di Vox (come a Vic, a Girona, a Tarragona...) che hanno reso difficile il lavoro dei candidati della pretesa nuova destra radicale. Fino all’ultima contestazione subita davanti al seggio dal candidato di Vox alla presidenza della Generalitat, quando un gruppo di femministe di Femen l’ha accolto a seno nudo mostrando cartelli sui quali si leggeva “non è patriottismo, è fascismo” e gridando slogan contro il gruppo della destra nostalgica e xenofoba.

Nonostante il fermo rifiuto espresso da larghi strati della popolazione, Vox entra nella camera catalana con forza, ottenendo un risultato che non sorprende (11 deputati). Dopo una lunga stagione nel corso della quale i tradizionali partiti unionisti (comprese le sinistre dello stato) hanno alimentato l’anticatalanismo e soffiato sul fuoco del nazionalismo spagnolo, una parte dell’elettorato ha preferito l’originale alle copie e ha premiato Vox, soprattutto a scapito di Ciutadans (passato dai 36 seggi che gli avevano conferito la palma del primo partito nel 2017 ai soli 6 attuali) e del PP (sceso da 4 a 3 seggi).

Così il partito che sembra in grado di formare il nuovo governo è ERC. I repubblicani vogliono seguire la proposta che definiscono via ampia, sommando ai partiti indipendentisti anche Catalunya en Comú e arrivando in questo modo a una maggioranza di 82 deputati. Un obbiettivo difficile che vorrebbe coniugare il dialogo con lo Stato da un lato con la radicalità della CUP dall’altro.

Dal canto loro, gli indipendentisti e anticapitalisti hanno già chiarito le condizioni minime per passare dall’opposizione al sostegno al nuovo governo: un referendum d’autodeterminazione vincolante, la fine della repressione (compresa quella derivata dalle denunce della Generalitat), un piano di riscatto sociale per far fronte alle conseguenze della pandemia e un programma di transizione ecologica.

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