Le fasi di sviluppo dei modelli economici e produttivi, come ampiamente indagato, sono sempre contraddistinte dall’impiego di fonti energetiche; un processo che per intere epoche ha visto nelle fonti naturali – acqua, vento, sole – gli unici elementi a disposizione dell’uomo, dal cui imbrigliamento mediante lo sviluppo tecnico, l'uomo ha tratto vantaggi per la propria condizione, anche di natura sociale e territoriale.
In epoca capitalistica, la prima rivoluzione industriale con lo sfruttamento del carbone per l’azionamento delle macchina a vapore, ha rappresentato la prima transizione energetica, con il protagonismo assoluto della Gran Bretagna.
La seconda rivoluzione industriale con il motore a combustione interna si è realizzata attraverso l’impiego del petrolio, con il dominio in campo capitalistico degli Stati Uniti, ed anch’essa ha avuto luogo in una fase di transizione energetica.
Nel nostro tempo, irrompe prepotentemente una nuova fase di transizione energetica connessa alla produzione digitale, in modo pressoché unanime definita come terza rivoluzione industriale, con una fonte primaria di metalli denominati terre rare, la cui produzione ed estrazione è in modo preponderante concentrata nella Repubblica Popolare Cinese.
È opportuno tenere ben presente che le transizioni energetiche non costituiscono un esautoramento della funzione delle precedenti fonti di approvvigionamento energetico, nessuna di queste, dal carbone al petrolio, al nucleare, tutte inserite nelle varie fasi economico produttive, è realmente prossima al tramonto. Emblematico il carbone, per cui una completa fuoriuscita in ambito europeo è prevista, con tutte le incognite del caso, per la seconda metà del secolo.
Ciò che connota le fasi di transizione energetica è il loro collegamento con le tecnologie, con la componente tecnico-scientifica delle forze produttive che nella nostra epoca capitalistica risultano inevitabilmente inscritte nell’attuale sistema di rapporti sociali di produzione.
Le transizioni energetiche scandiscono, dunque, le fasi del modello di accumulazione capitalistico, assicurarsene il controllo tecnologico e produttivo, come le precedenti fasi sembrano dimostrare, equivale a garantirsi un ruolo di primo piano, tendenzialmente dominante, nello scenario della competizione inter-capitalistica, ormai dispiegata su scala planetaria.
Le terre rare, proviamo a spiegare, rappresentano un sottoinsieme di metalli, dai nomi poco noti – cerio, vanadio, germanio, antimonio, berillio, gallio, promezio, ecc. – con particolari proprietà magnetiche, catalitiche e ottiche decisamente amplificate rispetto ai metalli più comunemente diffusi, a cui si trovano associati in natura.
La loro produzione è particolarmente problematica e costosa: per produrre un chilo di vanadio serve purificare otto tonnellate di roccia; per un chilo di cerio sedici tonnellate, cinquanta tonnellate per un chilo di gallio, è così via.
Il risultato è una sorta di principio attivo straordinariamente potente concentrato negli atomi di questi metalli, taluni hanno parlato di una sorta di effetto dopante, incomparabilmente maggiore a quelli più in uso, ed è agli esperti che lasciamo volentieri la parola sulle proprietà chimico fisiche ultra-performanti di questi elementi.
Ciò che invece interessa è il loro impiego cruciale nei campi della tecnologia digitale e della cosiddetta green-economy, anzi la fusione dei due settori è all’origine di quella che è stata definita la transizione ecologica.
In effetti, pale eoliche, pannelli solari, motori elettrici trovano nelle terre rare il loro principio attivo, così come il funzionamento di cellulari, tablet e computer. Insomma, tutta la frontiera dell’economia digitale si fonda sulle proprietà dei metalli rari, e la promessa, come propagandato dalla composita schiera dei sostenitori della green-economy, di un ambiente liberato dagli impatti devastanti delle emissioni di carbonio sarebbe nell’ordine delle possibilità.
Nella realtà le cose sono molto più complesse. Se è vero che l’impiego di questa gamma merceologica è a impatto climatico prossimo allo zero, è altrimenti vero che i processi di estrazione e produzione dei metalli rari hanno costi sociali e ambientali enormi.
La loro presenza in natura, come detto, è associata a quello di altri metalli, per la loro estrazione e raffinazione dalle cavità terrestri sono necessari masse di lavoratori, quantità enormi di acqua e pericoli processi chimici.
Il risultato e che intorno alle miniere di terre rare dominano paesaggi di devastazione ambientale, tassi letali di inquinamento del suolo e delle acque causato dallo sversamento di metalli pesanti e come conseguenza inevitabile sulla popolazione un’incidenza abnorme della mortalità per tumori. In sintesi “ottenere una tonnellata di terre rare richiede almeno duecento metri cubi di acqua che, al passaggio, si carica di acidi e metalli pesanti”.
Una condizione che coinvolge alcune migliaia di siti diffusi sul territorio della Repubblica Popolare Cinese, ovviamente conosciuta dalle autorità e su cui da anni organi locali del partito e stampa sono costantemente impegnati in una duro scontro con interessi industriali, sovente collegati alla presenza di capitali esteri non sempre ufficiali, per il contenimento e il risanamento, spesso con buoni risultati.
Non è il solo processo estrattivo dei metalli a generare gravi ripercussioni ambientali, la produzione di merci della cosiddetta economia verde è tutt’altro che neutra.
Alcuni esempi: la produzione di un pannello solare genera per il silicio contenuto oltre 70 chili di CO2, dando per scontati i ritmi di crescita della produzione di energia fotovoltaica ogni 10 gigawatt supplementari all’anno riverserebbero nell’ambiente carbonio pari alle emissioni di 600mila automobili; le circa 10miliardi di mail scambiate in un ora nel mondo richiedono energia equivalente alla produzione di un’ora di 15 centrali nucleari, in generale il 10% dell’elettricità mondiale necessaria alle tecnologie dell’informazione e della comunicazione ha un impatto nello sprigionamento dei gas serra del 50% superiore al trasporto aereo; lo stesso dicasi per la generazione di batterie elettriche a crescente autonomia, il loro potenziamento aumenta la richiesta di energia e il conseguente aumento delle emissioni nocive.
Pur tenendoci a debita distanza da ipotesi catastrofiste, fondate su una linearità indefinita dei processi che nella realtà economico produttiva non avviene, è innegabile la tendenza alla crescita delle necessità energetiche in tutte le sue componenti, e come la presunta riconversione ecologica vada collocata nei termini della funzionalizzazione allo sviluppo delle forze produttive che nella modulazione digitale, supportata dalla narrazione “green”, individua la trainante base tecnologica di un nuovo modello di accumulazione.
La diffusione delle terre rare, come ci ricorda l’unità della Commissione europea che si occupa delle materie prime, è distribuita in più punti del globo: Stati Uniti, Russia, Brasile, Sudafrica, Repubblica Democratica del Congo, Turchia, ecc., ma la Repubblica Popolare Cinese è il vero “ Sancta Santorum” delle terre rare con ben 28 di queste risorse minerarie e con una produzione mondiale spesso superiore al 50%.
Evidentemente non è la sola dotazione naturale a fare della Cina un gigante della produzione di terre rare. Come tutto ciò che avviene sul piano economico- produttivo nel “Paese del Dragone”, si palesa una visione strategica dello sviluppo concepita in tempi ben anteriori e tenacemente perseguita.
Nel ‘76 Deng Xiaoping dichiarava “la scienza è una forza produttiva”, nel ‘92 affermava “il Medio Oriente ha il petrolio. La Cina ha le terre rare”, dichiarazione fatta in un contesto in cui la transizione ecologica era semplicemente inesistente e la Cina era considerata la “fabbrica del Mondo”.
L’acquisizione di competenze tecnico scientifiche nella lavorazione delle terre rare è diventato il filo conduttore di una strategia mirata al conseguimento di una posizione dominante e irradiata in tutti i luoghi dell’occidente capitalistico.
Il primato nello sfruttamento delle terre rare fino alla metà degli anni ‘80 ha avuto il suo epicentro negli Stati Uniti nel deserto del Mojave in California, la crescita della capacità produttiva cinese a costi decisamente inferiori e l’insorgere di pressioni ambientaliste ne hanno decretato l’antieconomicità e la chiusura nei primi anni 2000.
Analoga sorte per gli stabilimenti francesi di La Rochelle, in cui venivano purificate negli anni ‘80 fino al 50% della produzione mondiale di terre rare, il gruppo Rhone-Poulenc ne decide di fatto la chiusura avviando un jont-venture con i cinesi e mettendo a disposizione le proprie competenze.
Ancora, un’altra proprietà insita nella potenza magnetica delle terre rare è la possibilità di miniaturizzare gli oggetti e negli anni ‘80 i leader indiscussi sono i Giapponesi con in testa il gruppo Hitachi, la possibilità offerta dalla Cina di delocalizzare a Canton la produzione a costi incommensurabilmente minori era irresistibile, mettendo di fatto a disposizione dell’industria cinese l’intero know-how giapponese.
Innumerevoli altri esempi potrebbero essere fatti, tuttavia dovrebbe apparire chiaro che l’accentramento sul territorio cinese di produzioni e tecnologie, concepito dall’Occidente capitalistico come funzionale all’innalzamento dei profitti, è stato un movimento guidato non da un generico interesse alla crescita, ma all’acquisizione di risorse imprescindibili per lo sviluppo delle forse produttive al livello più alto dei processi tecnologici, reso possibile dalla transizione energetica e digitale.
Un processo accompagnato, come accennato, da costi sociali ed ambientali elevatissimi, ma la costruzione sul proprio territorio nel modo il più possibile integrale dell’intera catena del valore della produzione digitale, riducendo la propria dipendenza tecnologica, si è rivelato decisivo per rendere la Cina protagonista e sovrana nello scenario della competizione globale.
Lo straordinario sviluppo economico e sociale della Repubblica Popolare Cinese si è realizzato all’interno di quella che viene definita globalizzazione, il cui avvio può essere ricondotto alla fine dell’esperienza socialista nell’Est-Europa.
L’intera traiettoria della “nuova Cina” è dunque incardinata nella affermazione del modo di produzione capitalistico su scala planetaria ed il volano della impetuosa crescita cinese è stata l’assunzione del modello capitalistico nel proprio sistema di relazioni economiche.
La crescita della Cina va dunque interpretata nel contesto delle relazioni capitalistiche, a cui in un quadro di strategia pianificata, si è fatto affidamento per lo sviluppo delle forze produttive. Avventurarsi nella comprensione di una simile scelta sarebbe estremamente problematico e richiederebbe l’impiego di un armamentario storico, economico, politico, ideologico fuori dal comune e forse ancora insufficiente, limitiamoci a dire, contro ogni interpretazione liquidazionista dell’esperienza socialista in Cina, che il contesto internazionale, le relazioni problematiche, finché è esistito, nel movimento internazionale comunista, costituiscono il sostrato della scelta cinese.
Certo, immaginarsi oggi una Cina dedita alla costruzione della propria società socialista in continuità totale con la costruzione della Cina di Mao, sia chiaro l’opera di Mao è un bagaglio fondamentale sotto tutti i profili, equivarrebbe ad un paese nella migliore delle ipotesi assediato ed in condizioni di sostanziale ristagno economico.
La scelta cinese di misurarsi con il livello più alto delle forze produttive del capitalismo, accettandone il terreno e abbassando il livello per un’intera fase dello scontro ideologico, vedi il ruolo del Partito nelle relazioni esterne, un percorso inedito e con incognite irrisolte, ci consegna una Cina non semplicemente competitiva sotto il profilo economico e produttivo ma capace di proporsi come modello di emancipazione sociale per la propria popolazione, condizione necessaria, sebbene non sufficiente, per qualsiasi ipotesi di avanzamento socialista.
Un paragone con l’esperienza sovietica, maturata in un contesto storico molto diverso, potrebbe apparire forzato, tuttavia l’esperienza della pianificazione socialista nella sua ultima fase, in una condizione di sviluppo delle relazioni economiche concentrato nel campo socialista, in cui la legge del valore era obiettivamente contenuta da un regime di prezzi amministrati, mentre sul fronte delle relazioni con il mondo capitalista si misurava in ragione del primato del dollaro, generando squilibri interni alla lunga rivelatisi insostenibili, con ripercussioni sempre più nefaste sulla base produttiva e sullo sviluppo delle forze produttive.
Ebbene, questa condizione di oggettiva subalternità, ripetiamo a scanso di equivoci, in un contesto totalmente diverso, non riguarda la Cina che nella proiezione economico-finanziaria trova ragioni di crescita e di rafforzamento del proprio ruolo di competitore globale. Cosa questo concretamente rappresenti, una sfida all’ordinamento capitalistico o una transizione verso un nuovo centro egemonico dell’accumulazione è questione destinata a restare al momento aperta.
Una cosa comunque è chiara immaginarsi nel ruolo di spettatori in uno scontro geo-politico, facendone discendere addirittura gli esiti di una ripresa della prospettiva socialista sarebbe un’aberrazione politica catastrofica. Solo la lotta di classe con la ricostruzione dei suoi soggetti politici e il protagonismo delle componenti sociali, processo drammaticamente urgente nel nostro mondo, può porsi come condizione imprescindibile della trasformazione socialista.
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