Con Raffaele Cutolo scompare una figura di indubbio carisma e una traiettoria criminale anomala, che dalla capacità di organizzare il carcere si faceva struttura di potere nella società.
Una singolare commistione tra accumulazione criminale e retorica “populista” che poteva prodursi in quella forma solo nella porosità degli anni ’70; capace di mescolare e sfruttare i linguaggi mainstream in modalità irrituali, spregiudicate e perfino “innovative” a partire da un uso spettacolare (e quindi ordinativo e verticistico) della violenza.
Fino a proporsi come il portavoce di un partito dei giovani armati, che in cambio della fedeltà garantiva ai suoi adepti un certo livello di identificazione e di tutela sociale e si faceva largo a spallate in un paese a democrazia bloccata e in un meridione dove nemmeno il ciclo di lotte e di rivolte di quegli anni aveva potuto rimettere in moto l’ascensore sociale.
Self made man che univa la retorica del prigioniero e quella del vincente, mito ambiguo e polivalente. Un megalomane di grande appeal mediatico, diventato nel tempo addirittura una figura della cultura pop, che ha accumulato però gravissime responsabilità verso la mia terra, dirottando in forme che hanno sfiorato la venerazione le istanze irrisolte di un intero pezzo di generazione di giovani proletari della provincia vesuviana (e non solo).
La sua parabola è in fondo la risposta patriarcale e clanistica a una grande questione politica irrisolta, capace di porsi come alternativa ai conflitti e alle tensioni sociali di quegli anni, canalizzandole in un’assurda mattanza che faceva infine centinaia di morti ammazzati per servire la sua ambizione e quella dei suoi rivali.
In un territorio subalterno, periferia dell’Italia fordista che usava come volano il sottosviluppo del sud e l’emigrazione interna, i processi di accumulazione di capitale tendono a sussumere le pratiche informali e usare la stessa criminalità organizzata come dispositivo di controllo e militarizzazione dell’illegalità di massa, distorcendone le pulsioni politiche e i processi di soggettivazione che pure si manifestavano in quella stagione.
Mentre una forma Stato post-coloniale e un ceto politico pervasivo e parassitario appaltano anche a strutture extralegali la stabilità del sistema e il governo delle relazioni sociali.
Nasce in quella stagione, dall’implosione del fenomeno cutoliano e dalla successiva ricalibrazione dei rapporti tra mafie e politica nel governo di un evento chiave come il terremoto del 1980, la cifra e la collocazione dell’economia campana nel modello dell’Italia post-fordista, caratterizzandosi come un’economia sempre più estrattiva ed aggressiva verso ambiente e territorio.
Al tempo stesso quest’uomo che ha fatto di se stesso un’icona ne ha pagato il prezzo, con 57 anni di carcere su 80 anni di vita e una detenzione protrattasi oltre ogni senso logico e civile, simbolo di un modello penale che proprio dietro forme di persecuzione afflittiva ed “esemplare” racconta per contrappasso inconfessabili (e stranote) commistioni.
Sullo sfondo di una notizia come quella di oggi c’è infine anche la storia di Mimmo Beneventano, giovane medico e militante comunista di Ottaviano (Napoli) ucciso dalla NCO di Raffaele Cutolo perché, da consigliere comunale, nella solitudine del suo stesso partito, provava a difendere l’interesse pubblico dalla sua torsione camorristica.
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