di Alberto Negri
Gli Usa aprono per una trattativa con l’Iran e chiedono agli europei di entrare in guerra commerciale con la Cina che è diventata il primo partner dell’Unione superando gli Stati Uniti. La sceneggiata dei vaccini al G7.
Il vertice virtuale del G-7, con l’esordio di Draghi e di Biden, si è aperto ieri con una notizia reale: l’annuncio che gli Usa vogliono negoziare con l’Iran la ripresa dell’accordo sul nucleare del 2015. Si tratta del grande ritorno di Obama.
La notizia quindi è doppia. La prima è che gli Stati Uniti vogliono cancellare l’era Trump, che era uscito dall’accordo nel 2018. La seconda che Barack Obama, anche attraverso la vice presidente Kamala Harris, rimane la personalità politica americana più influente alla Casa Bianca.
È inutile nascondersi che dietro l’elezione di Joe Biden c’è Obama che ha condotto per lui una campagna elettorale a colpi di comizi, libri e interviste. E adesso va all’incasso con l’obiettivo di togliere dall’agenda americana il nome di Trump, almeno in parte. In politica estera l’eredità dell’ultimo presidente è stata infatti ripresa da Biden nello scontro con la Cina e nel Patto di Abramo con cui Israele ha aperto relazioni diplomatiche con le monarchie del Golfo, un’intesa destinata prima o poi ad allargarsi all’Arabia Saudita e a diventare una sorta di Nato del Medio Oriente.
Per questo la mossa americana di tornare al tavolo a negoziare con Teheran deve essere valutata anche in base al rapporto speciale di Washington con Israele e alle fitte relazioni americane con le monarchie del Golfo, tutti alleati che sono sempre stati contrari alle trattative e agli accordi con la repubblica islamica.
Bisognerà tenere presente altri due fattori importanti.
Il primo è che in Israele a fine marzo ci sono elezioni parlamentari e che Netanyahu e il suo partito Likud sono ancora in testa nei sondaggi. E non è certo un caso che la reazione israeliana all’annuncio americano sia stata immediata e negativa: “Israele crede che tornare al vecchio accordo spiani la strada all’Iran verso un arsenale nucleare”, ha dichiarato l’ufficio del premier Benjamin Netanyahu.
Il secondo fattore, non meno decisivo, è che a giugno ci sono le elezioni presidenziali in Iran dove uscirà di scena l’attuale presidente Hassan Rohani, esponente dell’ala più moderata del regime degli ayatollah. Un accordo sul nucleare favorirebbe i moderati – un aspetto ovviamente positivo – ma proprio per questo l’ala più dura e meno flessibile del regime potrebbe rallentare le trattative.
La reazione iraniana, in attesa di altre prese di posizione, è stata per il momento ragionevole. Mentre arrivava l’annuncio americano, Teheran ha rinnovato il suo appello alla nuova amministrazione Usa a togliere tutte le sanzioni imposte da Donald Trump.
Il ministro degli Esteri iraniano, Mohammad Javad Zarif, ha scritto su Twitter che l’Iran “ritirerà subito le sue misure ritorsive” se gli Usa elimineranno “incondizionatamente ed in modo effettivo” tutte le sanzioni “imposte, re-imposte e rimarcate” da Trump. In poche parole gli iraniani sono disponibili a sedersi a un tavolo ma gli Usa devo dare qualche segnale positivo sulle sanzioni. Allo stato attuale l’Iran è sotto embargo per le esportazioni petrolifere e non può effettuare transazioni finanziarie ed economiche altrimenti Washington impone subito draconiane sanzioni ai partner di Teheran. I conti iraniani all’estero sono congelati e gli Usa si oppongono anche alla concessione di un prestito del Fondo monetario a Teheran da 5 miliardi di dollari. Si arriva al paradosso che l’Iran ha difficoltà persino ad acquistare i vaccini anti-Covid.
E proprio il vaccino globale è stato al centro del G7 virtuale su iniziativa della Gran Bretagna, che quest’anno ha la presidenza di turno del vertice dei grandi Paesi industrializzati. La diplomazia dei vaccini ha dominato i colloqui del G7. Perché l’Occidente deve delineare una sua strategia che è anche una riposta a Cina e Russia, che stanno usando la leva dell’immunizzazione dei Paesi del Terzo mondo per far avanzare le loro agende politiche ed economiche.
Il problema è che nel mondo ci sono almeno 130 Paesi che non hanno neppure cominciato la campagna di vaccinazione, il che non solo espone le loro popolazioni al rischio del Covid, ma accresce anche la possibilità che si sviluppino nuove varianti del virus: si tratta di una minaccia per tutti.
Il premier Boris Johnson ha promesso di donare ai Paesi in via di sviluppo le scorte in eccesso di vaccini accumulate dalla Gran Bretagna, che ne ha ordinate 400 milioni, molte di più di quante siano necessarie alla sua popolazione. Un’idea che non trovato tutti favorevoli: il presidente francese Macron, in un’intervista al Financial Times alla vigilia del vertice, ha proposto che i Paesi ricchi indirizzino il 5 per cento dei loro vaccini ai Paesi poveri, obiettivo decisamente meno ambizioso di quello delineato dai britannici. La diplomazia dei vaccini, al di là delle dichiarazioni di facciata, divide ancora le nazioni più ricche del mondo.
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