La prima sortita di Mario Draghi nelle vesti di Presidente del Consiglio ha sorpreso molti osservatori e analisti politici, a prescindere dalle appartenenze. Lo stesso era avvenuto con la presentazione della “squadra” dei ministri.
Se due punti fanno una linea, possiamo logicamente attenderci che questa sarà la cifra della sua azione/comunicazione nei prossimi mesi.
La prima sorpresa sta nel fatto che non ha dato grandi “indicazioni programmatiche”, se non per quanto riguarda due riforme “volute dall’Europa” e dall’evoluzione tecnologica (giustizia civile e pubblica amministrazione), e un veloce accenno a quella fiscale (da affidare ad “esperti” e sulla falsariga di quella danese).
Che sia stato un discorso “moscio” e non esaltante, non è un giudizio soltanto nostro. Il Circap (Center for the study of Political Change) dell’università di Siena, che da anni conduce un’analisi della “densità programmatica” dei discorsi dei premier, rileva che Draghi “pare aver voluto fissare un orizzonte di priorità ampie (in parte dettate anche dal “vincolo europeo”), destinate a caratterizzare l’agenda dei governi a venire (almeno nei prossimi 6 anni), più che declinare il programma del suo esecutivo, rinviandone semmai il dettaglio alle varie fasi della definizione e implementazione del Recovery Plan italiano.”
Un richiamo a tutta la classe dirigente, non soltanto a quella “politica”, a giocare dentro quei confini e determinati orizzonti.
E l’orizzonte principale, anche secondo l’interpretazione dei professori senesi, è l’“irreversibilità” dell’appartenenza all’area euro e all’alleanza atlantica.
La citazione dal discorso, che non tutti hanno voluto evidenziare, a noi sembra particolarmente chiara: “Questo governo nasce nel solco dell’appartenenza del nostro Paese, come socio fondatore, all’Unione Europea, e come protagonista dell’Alleanza Atlantica, nel solco delle grandi democrazie occidentali, a difesa dei loro irrinunciabili principi e valori. Sostenere questo governo significa condividere l’irreversibilità della scelta dell’euro, significa condividere la prospettiva di un’Unione Europea sempre più integrata che approderà a un bilancio pubblico comune capace di sostenere i Paesi nei periodi di recessione. Gli Stati nazionali rimangono il riferimento dei nostri cittadini, ma nelle aree definite dalla loro debolezza cedono sovranità nazionale per acquistare sovranità condivisa.”
Ribadire l’irreversibilità di questa scelta di campo, in una fase di grande turbolenza mondiale e in piena pandemia, significa fissare un limite oltre il quale non è ammessa nessuna dialettica politica. Quel limite è costituito dalla “prospettiva di un’Unione Europea sempre più integrata”, che superi le residue smagliature a forza di trattati vincolanti e fondi condizionanti.
Queste scelte di campo sono talmente ferree che si possono rompere solo con una rivoluzione, non con qualche abborracciata maggioranza parlamentare. L’esempio della Grecia di Tsipras è aleggiato alle sue spalle, mentre scandiva la frase-chiave: “Gli Stati nazionali rimangono il riferimento dei nostri cittadini, ma nelle aree definite dalla loro debolezza cedono sovranità nazionale per acquistare sovranità condivisa”. Esistono ancora, insomma, ed hanno una funzione, ma contano sempre meno. Soprattutto, anche al proprio interno decidono sempre meno.
Non è difficile capire quali siano le “aree di debolezza”. Sono “cessioni già avvenute” quelle relative alla politica di bilancio (ossia all’autodeterminazione – oppure no – delle priorità di spesa pubblica), controllo della moneta (e relativa possibilità di monetizzare, diminuendolo, il debito pubblico) e una lunga serie di questioni minori.
Le cessioni di sovranità militare e di politica estera risalgono addirittura alla fine della Seconda guerra mondiale, con l’inglobamento nella Nato, pur se con le “licenze” a volte consentite (la politica mediorientale di Andreotti, Moro e Craxi non era certamente quella attuale, e aveva un suo costo, come sperimentò Enrico Mattei).
È dentro questi vincoli irreversibili che Draghi colloca la “ricostruzione” del Paese. Ed è dentro quei vincoli che verrà disegnata la “necessaria” ristrutturazione del modello economico-sociale, con “riforme” non precisate nel discorso, ma ampiamente anticipate in tutti i suoi interventi da presidente della Bce, fin dalla lettera dell’agosto 2011.
Vista da questa angolazione, la genericità “programmatica” di Draghi è assai meno sorprendente. Inutile star lì a precisare ora le caratteristiche di questa o quella “riforma strutturale”. Si aprirebbero inutili “dibattiti”, in cui si rischierebbe di mettere in difficoltà diversi partiti della maggioranza rispetto alla propria base elettorale-militante. Basta insomma la crisi interna dei Cinque Stelle, non è il caso di aggiungerci, per adesso, anche quello della Lega.
In fondo, quali siano quelle “riforme che chiede l’Europa” e che “fanno bene al Paese”, lo sanno tutti. Anche noi. Le abbiamo sentite e lette cento volte. Dalle pensioni agli ammortizzatori sociali (tendenzialmente da eliminare, ma “purtroppo” con la pandemia in corso non si può ancora fare...), dal mercato del lavoro al tipo di intervento pubblico nell’economia (favorire l’azione delle imprese più competitive, lasciare affondare quelle in perdita; e basta), “politiche attive del lavoro” (ossia obbligo ad accettare qualsiasi salario pena la perdita dell’eventuale sussidio), ecc.
Meglio annegare tutto nella retorica della “grande potenza” che cede volontariamente “sovranità nazionale” per condividerne una di dimensioni maggiori; meglio chiamare all’”unità” per combattere il “nemico virus” e ricostruire. Meglio parlare dei valori e tacere sul diminuito valore del lavoro e del salario. Meglio contrapporre i bisogni dei giovani agli “anziani egoisti”, e il Nord “produttivo” al Mezzogiorno che ha solo bisogno di “ripristinare la legalità”.
Il campo di gioco è disegnato. Le regole e la direzione di marcia, anche. Il resto viene da sé, senza strepiti. Nonostante Salvini, che è utilissimo per distrarre l’attenzione del pubblico da quello che avverrà davvero.
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