È stato un lunedì difficile per i titolisti di tutta Europa, che si sono trovati davanti a un bivio: o nascondere le elezioni regionali per il rinnovo della Generalitat di Catanulya, o cercare maldestramente di relativizzare l’ottimo risultato delle forze indipendentiste, riunite sotto le parole d’ordine dell’auto-determinazione e dell’amnistia.
Ovunque stiamo leggendo che “per la prima volta nelle elezioni del Parlamento catalano, i partiti per l’indipendenza hanno ottenuto più del 50% dei voti”. Con la disonestà intellettuale che caratterizza i media di regime, leggiamo anche che in realtà le urne hanno riproposto la coalizione di governo degli ultimi anni, che “tanta instabilità ha generato all’interno e all’esterno della comunità autonoma”.
Domenica 14 febbraio gli elettori catalani sono stati chiamati alle urne per decidere la composizione di un Parlamento regionale che negli ultimi anni ha creato non pochi problemi ai vertici dello Stato centrale, a cominciare dalla tenuta di un referendum – unilateralmente convocato – nell’ottobre del 2017.
Vogliamo qui elencare rapidamente alcuni aspetti che ci sembrano importanti per lo sviluppo di questa lotta popolare nel cuore dell’Unione Europea, e soprattutto per le dinamiche più generali che essi mettono in evidenza.
In primo luogo la partecipazione, che si è rivelata piuttosto bassa (54%), come ci si sarebbe potuto aspettare tra un’ondata che va e un’altra che arriva di Covid-19; la pandemia sta infatti pesantemente colpendo la Spagna e in particolare i suoi quartieri popolari.
La forzatura delle tempistiche di Sanchez, che ha pensato di poter trovare nuovo appeal grazie ai miliardi UE che devono essere a breve distribuiti, non ha portato le masse di indecisi alle urne, ma ha piuttosto favorito quegli strati di società che in questi anni non hanno smesso di mobilitarsi per l’indipendenza e l’amnistia, non cedendo alle lusinghe dei socialisti grazie ai soldi promessi da Bruxelles.
Nonostante l’utilizzo parziale del voto per corrispondenza, infatti, l’imposizione del voto da parte del governo di Madrid – che non ha nascosto l’intenzione di portare a casa alcuni mesi di tranquillità politica e istituzionale – non ha dato i risultati sperati dalle élite centrali.
A nulla è valso ai socialisti lo schierare l’artiglieria pesante della popolarità, cercando di sedare gli animi catalani puntando tutto su una figura meno compromessa delle altre, l’ex ministro della Sanità Illa.
Alla fine, il Partit dels Socialistes de Catalunya (PSC) risulta essere il più votato, ma non ha praticamente alcun margine nella formazione del governo. Con circa 50 mila voti in più di ERC – la formazione che ha conquistato maggiori consensi tra gli indipendentisti – tenterà di proporsi come forza attorno alla quale costituire un governo regionale che nessuna alchimia può garantirgli.
Mentre quindi i maggiori giornali europei, dal El Paìs a Le Monde, pubblicavano la foto del candidato socialista formalmente vincente, lo schieramento indipendentista stava già iniziando a organizzarsi per far pesare il rafforzamento della sua maggioranza.
A solo un punto percentuale di distanza dai socialisti – e con gli stessi seggi – Esquerra Republicana de Catalunya (ERC) ha la possibilità, i numeri e soprattutto la volontà politica di creare un governo regionale che sia pienamente e esplicitamente indipendentista, insieme a Junts per Catalunya (32 deputati) e alla CUP (9 deputati).
Tenendo presente che occorrono 68 voti per avere la maggioranza assoluta, questa ipotesi potrebbe disporre di ben 74 seggi, considerando che PdCat – l’altra formazione “indipendentista” marcatamente di segno neo-liberista – sotto il 3%, non ha ottenuto deputati.
Il tentativo di “fronte amplio” annunciato dal leader di ERC Aragonès, comprende anche la formazione catalana Catalunya en Comú Podem, legata a doppio filo a Podemos e alla sindaca di Barcellona Ada Colau, che dispone di 8 deputati.
Già durante le settimane di campagna elettorale, il candidato principale indipendentista aveva ben chiarito i margini politici che non vuole sorpassare, affermando che “parlare di un governo insieme ai socialisti è impossibile” perché “ragioniamo con chi vuole l’amnistia e l’autodeterminazione del popolo catalano”.
Un appello quindi a tutti coloro che in questo decennio non hanno smesso di lottare per l’autodeterminazione catalana, che oggi si ritrovano rafforzati dalle urne, ed una linea rossa ben precisa che esclude la maggioranza tripartita PSC, ERC e comuns.
Vogliamo sottolineare in particolare l’ottimo risultato per la sinistra indipendentista anticapitalista CUP, che sale a 9 deputati e guadagna uno dei suoi massimi risultati storici.
La formazione di sinistra radicale Candidatura d’Unitat Popular si candida oggi ad essere l’ago della bilancia – come lo fu nel 2015 – per le linee politiche che il nuovo governo regionale vorrà seguire, potendo bilanciare la presenza di un partito come Junts, che esprime interessi più aderenti ad alcune porzioni sociali medio-alte della regione, ma una posizione piuttosto intransigente rispetto all’auto-determinazione.
Per quel che riguarda la destra, il PP continua la sua lenta caduta (perde un seggio, portandosi a 3), il blocco borghese di Ciudadanos crolla (da 36 a 6 seggi) e invece assistiamo all’affermazione di Vox, che entra nel Parlamento con 11 seggi.
Questi dati ci dicono una cosa semplice: la destra si riesce ad aggregare su parole schiettamente reazionarie, abbandonando drasticamente quel parziale cammino di mediazione che aveva caratterizzato la politica spagnola “post-franchista”.
Questa condizione non è che il riflesso della forte dinamica di politicizzazione delle contraddizioni, cui gli strati popolari fanno fronte ogni giorno; è questa una condizione di abbandono di un relativamente pacifico status quo della società che vediamo all’opera ovunque in Europa e che per noi è necessario gestire e non lasciare ai fascisti.
Le forze indipendentiste hanno ora tre mesi per formare il governo regionale se vogliono escludere un improbabile ritorno automatico alle urne, e buone speranze di riuscirci. Il 12 marzo è il limite massimo per dare forma al nuovo parlamento.
Se Madrid pensava di avere davanti a sé dei mesi – forse anni – tranquilli per una risoluzione al ribasso della situazione che riguarda circa 3.000 persone, colpite in differente grado dalla repressione spagnola dal 2017 ad oggi, ripartendo i fondi EU secondo le linee di potere clientelari usate in passato e cooptando le forze più dialoganti dell’indipendentismo, ebbene non sarà questo il caso.
Queste elezioni ci dicono che in Catalogna la frattura che si è aperta vistosamente all’inizio del decennio scorso, in seguito alla fallimentare gestione della crisi economica anche da parte del vecchio ceto politico “regionalista” – esplosa nel 2017 – non si è ancora saturata, ed anzi si è nutrita del malessere sociale anche nei confronti di istituzioni statali non trasformate dal passaggio alla democrazia.
Questi apparati hanno ancora in mano alcune importanti leve del potere, dalla monarchia agli apparati repressivi, su cui l’UE non mette naso.
I risultati elettorali ci dicono che è urgente sviluppare una alternativa sistemica che liberi le classi subalterne del continente ed i popoli che aspirano all’auto-determinazione dalla gabbia dell’Unione Europea.
Siamo al fianco di quei circa un milione e quattrocento mila catalani che nonostante le difficili condizioni pandemiche si sono chiaramente espressi per l’auto-determinazione e per l’amnistia e contro l’ipotesi di una liquidazione della questione catalana attraverso la gestione dei fondi europei.
Sovvenzioni e prestiti per cui comunque Bruxelles sta già chiedendo preventivamente alla Spagna un conto salato fatto di riforme anti-popolari.
Catalunya Lliure!
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