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27/02/2021

La strategia dell’incertezza

Qualche tempo fa – pochi anni, in fondo – uno dei mantra abituali sui media e soprattutto nei talk show prendeva di mira “la cultura del posto fisso”.

Quella che era stata un’invenzione del liberismo a partire dalla seconda rivoluzione industriale – l’”era fordista”, diciamo – ossia quel sistema in cui si producevano merci che dovevano essere acquistate da chi le produceva, comprese le automobili, fin lì roba di ultra-lusso, veniva improvvisamente raccontata come un insopportabile “privilegio”, di natura quasi “socialista”.

Ricordate Mario Monti? Era appena il 2012, presidente del consiglio non eletto da pochi mesi (dalla Commissione Europea a Palazzo Chigi, quasi come Draghi), e dal teleschermo scuoteva la testa dicendo «Che monotonia avere un posto fisso per tutta la vita».

Le critiche contro di lui, ” da sinistra”, furano incentrate quasi soltanto sul classismo sfacciato di quella sortita. La stragrande maggioranza dei lavoratori, fin lì, erano stati obbligati a trovarsi un lavoro e tenerselo stretto per tutta la vita. L’alternativa, infatti, era il licenziamento e la fame, tranne per quei pochi che per qualche motivo trovavano qualcos’altro da fare. Chi poteva “saltabeccare” da un incarico all’altro, naturalmente, erano solo i membri della “classe dirigente”, secondo meccanismi di cooptazione privilegiata, altra roba...

All’inizio degli anni ‘80, i 23.000 licenziati della Fiat si erano quasi equamente divisi tra il suicidio e l’avvio di una boita, una piccola officina con al massimo due-tre dipendenti oltre al titolare-lavoratore, magari contoterzista della stessa Fiat. Fuori del “posto fisso” non c’erano alternative, specie se eri ormai di “mezza età” (dai 40 in su, grosso modo). A confortarli, in parte, giungeva l’ideologia del “piccolo è bello”; uno stereotipo della narrazione imprenditrice stracciona, mentre nel mondo galoppava a briglie sciolte il capitale multinazionale e finanziario.

Solo verso la fine del secolo, con il “pacchetto Treu”, vengono legalizzati quasi una quarantina di contratti “atipici” – a termine, part time, a chiamata, co.co.co, ecc. – e cominciava l’era del lavoro precario per tutti. Per tutti, ripetiamo, perché dopo una breve stagione di contrapposizione ad arte tra “garantiti” (con l’art. 18, quasi non licenziabili) e “precari”, si è arrivati alla precarietà per tutti visto che tutti siamo licenziabili in qualsiasi momento e per qualsiasi motivo.

E siamo quindi piombati nella condizione dell’incertezza esistenziale generale.

Ma anche questa fase non poteva durare all’infinito. Le crisi ricorrenti (la net economy nel 2000, il grande botto del 2007-2008 tra mutui subprime e Lehmann Brothers) e la mondializzazione della produzione scavavano fosse incolmabili sotto il salario occidentale (fermo o in arretramento fin dagli anni ‘80) e persino sotto quei “piccoli produttori” che si scoprivano molto meno “belli”.

Nel frattempo era drasticamente cambiato anche il sistema della rappresentanza sociale e politica. Se nulla era più “fisso” nella struttura sociale, anche i sistemi di convogliamento del consenso basato su interessi materiali riconoscibili (sindacati, associazioni di categoria, ecc.) perdevano presa e peso.

E anche il sistema dei partiti implodeva miseramente. Se tutti “siamo liberali” (anche i Cinque Stelle, ma no?!), quali cavolo di distinzioni ci potranno mai essere agli occhi di elettori sull’orlo della crisi di nervi? Solo quelle inventate, è ovvio. Quelle che “parlano alla pancia” e ottundono cervelli logorati ogni giorno dalla tensione e dall’incertezza esistenziale. Cervelli ripiegati su se stessi e sull’insolubilità dei propri problemi.

Siamo all’oggi, ovviamente. Ma è bene ricordare come ci siamo arrivati.

Ogni fase di sviluppo/crisi del capitalismo occidentale ha prodotto una forma di gestione e “narrazioni” adatte alla bisogna. Ora c’è poco da “narrare”. O meglio: non ne viene fuori una narrazione ottimistica. Una che sia una.

La pandemia ha segato le gambe a qualsiasi ipotesi di “rilancio della crescita” a breve termine. Ha allargato a dismisura le disuguaglianze. Sta distruggendo gran parte dei “piccoli”, che erano la base sociale del sistema politico conservatore. Il salario tende a scendere ancora, i diritti sul lavoro sono occasionali (serve un giudice per dire che i rider sono “cittadini”, i sindacati complici non ci avevano neanche pensato...) o nulli.

Come si gestisce un insieme sociale a metà strada tra passività ed esplosioni incontrollabili?

Con la paura, facendo di necessità virtù. Il virus è un problema concreto e drammatico, ma hanno provato a farlo diventare un’”occasione”. Convivendoci, al prezzo (per ora) di centinaia di migliaia di morti in tutto l’Occidente (100.000 solo in Italia).

E non per fare profitti (solo pochi, e solo i più internazionalizzati, ci possono riuscire), ma per tenere in piedi la parte “forte” del sistema.

Non lo pensiamo soltanto noi.

Eccovi la riflessione di Guido Salerno Aletta, apparsa nientepopodimeno che sull’agenzia TeleBorsa. Si vede che anche in una parte del mondo economico mainstream le preoccupazioni stanno superando il livello di guardia.

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La Strategia dell’Incertezza

Se il Virus è imprevedibile come il Mercato, il Caos mediatico e normativo serve al controllo sociale

Guido Salerno Aletta – Teleborsa

Il frastuono delle notizie che rappresentano una realtà sanitaria, sociale ed economica in continua evoluzione, serve a mantenere la popolazione in uno stato di perenne incertezza.

Di fronte alla epidemia, il parapiglia mediatico tra virologi, epidemiologi, biologi ed esperti di vaccini è assolutamente necessario, perché riempie la nostra testa di argomenti pro e contro, ci obbliga a riflettere, ci impone di ponderare e prendere posizione.

Più il dibattito scientifico è caotico, meglio è.

In questa incertezza scientifica, tra virus, varianti e vaccini, non c’è che affidarsi ai governi, i nuovi Salvatori, che rendono tutto ancora più incerto.

Nel 2020 in Italia sono stati emanati 24 decreti-legge riconducibili al Covid-19. Di questi, ben 11 sono stati “abrogati” mediante apposite disposizioni legislative. In sostanza, quasi nella metà dei casi i decreti-legge non sono stati convertiti in legge, ma se ne sono sanati gli effetti per il passato e le loro disposizioni sono state fatte confluire in tutto o in parte in altri procedimenti di conversione in legge.

A questi provvedimenti va aggiunto il decreto “Milleproroghe” (d.l. n. 183/2020), che pure detta alcune norme collegate all’emergenza. Nel 2021, e siamo solo a fine febbraio, sono già stati emanati altri quattro decreti-legge, ancora in attesa di conversione in legge.

È una impresa quasi disperata, per i normali cittadini, capire che cosa stia succedendo. Anche gli esperti annaspano: perfetto!

Per le misure anti-contagio è lo stesso, con i colori che si moltiplicano e le realtà territoriali che si segmentano: dalla riapertura dei cinema e dei ristoranti alla didattica a distanza, ogni momento della nostra vita è sottoposto a norme sempre cangianti ed incomprensibili.

Nessun dubbio: di fronte alla progressiva disgregazione dei sistemi politici occidentali che da decenni hanno imposto la globalizzazione senza controlli, il turbo-liberismo mercatista, la finanziarizzazione delle economie, la svalutazione del lavoro e lo smantellamento dei sistemi di welfare, occorre riprendere il controllo sulle popolazioni sempre più insofferenti.

Le ondate di sovranismo e di populismo che hanno caratterizzato gli orientamenti popolari, con la vittoria del referendum sulla Brexit nel 2016 e la elezione di Donald Trump alla Presidenza degli Usa sempre nel 2016, l'evaporazione delle storiche famiglie politiche europee come i Popolari ed i Socialisti a favore di movimenti nuovi ed incontrollabili, la pur breve e turbolenta esperienza del governo giallo-verde in Italia, con la Lega che è diventata il primo partito cavalcando il contrasto alla immigrazione clandestina, hanno imposto una drastica revisione dei sistemi di controllo: la epidemia di coronavirus è arrivata a proposito.

Il virus è diventato il punto di svolta.

Come d’incanto, nell’opinione pubblica italiana è svanita la preoccupazione per gli sbarchi dei clandestini, è venuto meno il sentimento di insofferenza verso l'Unione Europea.

Alla fine, presi dalla paura del dopo, un po’ tutte le forze politiche si sono convinte della necessità di sostenere il Governo Draghi che proclama la “irreversibilità dell’euro” e la prospettiva di cedere ulteriori quote di sovranità nelle aree in cui siamo più deboli.

Sono tutti preoccupati per il futuro, non solo in Italia: la sopravvivenza delle imprese dipende quasi sempre dagli aiuti concessi dai governi, quella di tante famiglie è condizionata dagli interventi a sostegno del reddito a chi ha perso il lavoro. Si va dalle garanzie pubbliche sui crediti bancari erogati per assicurare la liquidità ai “ristori” di ogni genere.

Non si tratta di negare l’esistenza del virus o di sottovalutare la diffusione dei contagi, ma di constatare come la gestione politica della crisi sanitaria venga utilizzata per riassorbire ogni possibile protesta popolare attraverso un metodo classico e sempre efficace: ribaltare nella testa delle persone l’ordine delle priorità e la graduatoria delle preoccupazioni.

Non sono più le popolazioni a decidere democraticamente del loro destino, a cambiare i governi. Sono invece i governi che si legittimano per via dell’emergenza sanitaria ed economica: dalle loro decisioni dipende ogni atto della nostra vita.

Come accade in Borsa, ad ogni istante chi ha investito può ritrovarsi più ricco o più povero: dipende dal Mercato insondabile ed imprevedibile. Così, ora, ogni giorno dobbiamo cercare di scoprire se siamo più o meno liberi, e dobbiamo verificare se la nostra attività economica può riprendere o se deve ancora rimanere sospesa. Tutto dipende dal Virus, anch’esso insondabile ed imprevedibile.

Inchiodati al Mercato, Inchiodati al Virus.

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