Draghi ha finalmente parlato, in Senato, per chiedere la fiducia al nuovo governo. E tutti attendevano naturalmente il suo discorso.
Dopo aver sfrondato la retorica catto-democristiana – si sente a grande distanza il peso ideologico di Comunione e Liberazione, influente anche come numero di ministri “formati” nelle sue fila – alcune cose emergono con chiarezza, mentre molte restano nascoste sotto un velo di genericità che non dipende solo dall’occasione (i programmi concreti si discutono quando vengono presentate leggi o decreti).
Rientra in questo ambito tutta la parte iniziale, dedicata all’“unità”, alla “responsabilità nazionale”, alla “politica che non ha fallito”, ecc.
Partiamo dalle certezze. Questo è un governo che “nasce nel solco dell’appartenenza del nostro Paese, come socio fondatore, all’Unione europea, e come protagonista dell’Alleanza Atlantica, nel solco delle grandi democrazie occidentali, a difesa dei loro irrinunciabili principi e valori. Sostenere questo governo significa condividere l’irreversibilità della scelta dell’euro, significa condividere la prospettiva di un’Unione Europea sempre più integrata che approderà a un bilancio pubblico comune capace di sostenere i Paesi nei periodi di recessione. Gli Stati nazionali rimangono il riferimento dei nostri cittadini, ma nelle aree definite dalla loro debolezza cedono sovranità nazionale per acquistare sovranità condivisa. Anzi, nell’appartenenza convinta al destino dell’Europa siamo ancora più italiani, ancora più vicini ai nostri territori di origine o residenza”.
Una scelta di campo piena e integrale, insomma, che non ammette “distonie” sui fondamenti di questa appartenenza. Ossia a tutti i trattati che legano (e subordinano) l’Italia alla Nato e all’Unione Europea. Una “cessione di sovranità” ammessa esplicitamente alla faccia di quanti – dentro e fuori il Parlamento – ancora esitano a riconoscerla come tale.
I media mainstream sottolineeranno naturalmente come questo passaggio – e soprattutto “l’irreversibilità dell’euro” – sia una stoccata a Salvini e alla Lega. Ma, anche in questo caso, può essere sorpreso solo chi non ha ancora capito quanto l’“euroscetticismo” fascioleghista fosse soltanto un atteggiamento elettoralistico, per captare il malcontento popolare verso quell’“Europa” che “ci chiede sacrifici e riforme”. Il vero “blocco sociale” leghista, infatti, ovvero le piccole e medie imprese del Nord, di tutto ha bisogno tranne che di allontanarsi dalle filiere produttivi di cui è sub-committente (Germania e Francia, nell’ordine).
Una seconda certezza è che molte delle “riforme” che verranno messe in cantiere saranno giocate sulla narrazione tossica della “guerra generazionale”, opponendo futuro dei giovani e diritti/redditi degli anziani. L’accenno fatto, subito dopo aver ricordato che le “risorse sono sempre scarse”, non lascia molti dubbi: “Nella speranza che i giovani italiani che prenderanno il nostro posto, anche qui in questa aula, ci ringrazino per il nostro lavoro e non abbiano di che rimproverarci per il nostro egoismo.”
Su pandemia e vaccinazioni, dobbiamo dire, non si sono sentite idee particolarmente brillanti. Ci si muove a tentoni, sapendo che le dosi di vaccino dipendono dalle concessioni delle multinazionali con cui la UE ha firmato contratti secretati. E che ogni nuovo lockdown sarà un colpo per l’economia.
Certo c’è l’assicurazione verbale a voler “accelerare”, facendo di qualsiasi luogo adatto un possibile centro di vaccinazione. Ma nulla di più.
Il discorso sulla sanità, del resto, è stato altamente contraddittorio. Da un lato la dichiarata volontà di potenziare la medicina territoriale (massacrata dai tagli di spesa e dalle privatizzazioni/convenzioni), dall’altra lo sviluppo della telemedicina (quella con cui il leghista Giorgetti proponeva di sostituire i medici di base, che costituiscono poi la rete della “medicina territoriale”).
Sui temi economici, e sulle “riforme”, solo pochi accenni, ma tutti dentro il quadro di un “neoliberismo compassionevole”.
Per esempio: si riconosce che le disuguaglianze sono aumentate a dismisura, e che bisognerà aiutare chi ha perso il lavoro o lo perderà nei prossimi mesi (le “imprese zombie”, che andavano male già prima della pandemia, non verranno salvate e dovranno licenziare o chiudere). Ma la chiave di volta proposta è una “riforma degli ammortizzatori sociali” nel solco delle indicazioni europee e delle richieste di Confindustria.
Ossia: non sussidi tipo la cassa integrazione o la Naspi, ma “politiche attive”, fatte di formazione e obbligo ad accettare qualsiasi lavoro con qualsiasi salario, nello stile delle leggi Hartz IV in Germania.
Particolarmente indicativo l’accenno fatto allo “squilibrio” esistente oggi nelle “reti di protezione sociale”, che “non proteggono a sufficienza i cittadini con impieghi a tempo determinato e i lavoratori autonomi”. Si avverte il ronzio in sottofondo di un altro luogo comune inventato per incentivare la guerra tra poveri, con l’immagine dei lavoratori dipendenti a tempo indeterminato “protetti” dagli ammortizzatori e gli altri senza rete. Una condizione in parte vera, ma anche voluta scientificamente da tutti i governi neoliberisti degli ultimi 30 anni, e a cui in genere si propone di rimediare togliendo protezioni a chi oggi le ha, senza peraltro darne alcuna a chi ne è privo. Lo abbiamo visto già con le leggi sul mercato del lavoro, dove è stato cancellato di fatto lo Statuto dei lavoratori senza che i precari abbiano ricevuto la benché minima attenuazione della loro condizione schiavistica.
Anche il grande spazio dato ai temi ambientali, e al cambiamento del modello produttivo, all’innovazione tecnologica, non esce dalla solita divisione del lavoro: allo Stato il compito di fare investimenti mirati in “digitalizzazione, agricoltura, salute, energia, aerospazio, cloud computing, scuole ed educazione, protezione dei territori, biodiversità, riscaldamento globale ed effetto serra”, mentre le imprese private devono essere invitate “a partecipare alla realizzazione degli investimenti pubblici apportando più che finanza, competenza, efficienza e innovazione per accelerare la realizzazione dei progetti nel rispetto dei costi previsti.”
Tradotto: il vituperato “pubblico” mette i soldi, le imprese li usano; magari in modo meno arbitrario che in passato. Ma lo schema non cambia.
Tra le “riforme” molti avranno tirato un sospiro di sollievo non sentendo nominare le pensioni. Ma è stata la pandemia a distruggere l’argomento principale in mano a tutte le Fornero di questo paese, e Draghi si è limitato a riconoscerlo: “L’aspettativa di vita, a causa della pandemia, è diminuita: fino a 4 – 5 anni nelle zone di maggior contagio; un anno e mezzo – due in meno per tutta la popolazione italiana. Un calo simile non si registrava in Italia dai tempi delle due guerre mondiali”.
E se si vive di meno, è difficile pretendere che si debba lavorare più a lungo...
Tra quelle nominate, invece, ci sono due “riforme” che “vuole l’Europa”, arrivando a dettare finanche le linee guida che dovranno essere seguite.
“Nel campo della giustizia le azioni da svolgere sono principalmente quelle che si collocano all’interno del contesto e delle aspettative dell’Unione europea. Nelle Country Specific Recommendations indirizzate al nostro Paese negli anni 2019 e 2020, la Commissione, pur dando atto dei progressi compiuti negli ultimi anni, ci esorta: ad aumentare l’efficienza del sistema giudiziario civile, attuando e favorendo l’applicazione dei decreti di riforma in materia di insolvenza, garantendo un funzionamento più efficiente dei tribunali, favorendo lo smaltimento dell’arretrato e una migliore gestione dei carichi di lavoro, adottando norme procedurali più semplici, coprendo i posti vacanti del personale amministrativo, riducendo le differenze che sussistono nella gestione dei casi da tribunale a tribunale e infine favorendo la repressione della corruzione.”
La seconda, certamente più problematica e foriera di grandi tagli occupazionali, riguarda la pubblica amministrazione. “La riforma dovrà muoversi su due direttive: investimenti in connettività con anche la realizzazione di piattaforme efficienti e di facile utilizzo da parte dei cittadini; aggiornamento continuo delle competenze dei dipendenti pubblici, anche selezionando nelle assunzioni le migliori competenze e attitudini in modo rapido, efficiente e sicuro, senza costringere a lunghissime attese decine di migliaia di candidati.”
La digitalizzazione, così come è avvenuto in buona parte del settore privato, comporterà un’”asciugatura” drastica nelle dimensioni del personale. Tranne che, ovviamente, per quanto riguarda il lato militar-poliziesco (considerevole il fatto che le parole spese per il Sud riguardino quasi soltanto il “contrasto della criminalità organizzata”, che è certamente un enorme problema, ma non proprio l’unico del Mezzogiorno).
Infine il tema bollente della riforma fiscale, su cui è stato particolarmente abile nello sfuggire a qualsiasi indicazione esplicita.
Viene invocata la necessità di un “intervento complessivo [che] rende anche più difficile che specifici gruppi di pressione riescano a spingere il governo ad adottare misure scritte per avvantaggiarli”. Un compito da cui “i politici” (è sottinteso) farebbero bene a star lontani, perché “le esperienze di altri paesi insegnano che le riforme della tassazione dovrebbero essere affidate a esperti, che conoscono bene cosa può accadere se si cambia un’imposta”.
Discorso criptico, che si chiarisce però con l’esempio della Danimarca, che ha varato di recente una sorta di “flat tax ammorbidita”, che mette insieme tagli delle tasse per i redditi alti e aumento della detrazioni per quelli da lavoro. Rispettando insomma – ma solo nella forma – la “progressività” dell’imposizione tributaria, senza però alcun effetto redistributivo verso il basso. Anzi, fortemente a favore dei più ricchi.
Del resto è Draghi stesso ad ammette che “Una riforma fiscale segna in ogni Paese un passaggio decisivo. Indica priorità, dà certezze, offre opportunità, è l’architrave della politica di bilancio”. Nel nostro linguaggio diremmo che ogni riforma fiscale ha un “segno di classe” e quella indicata dalla Danimarca è un segno semplicemente odioso...
Non a caso, è anche lui obbligato a chiudere l’argomento, come tutti i pinocchio che l’hanno preceduto a Palazzo Chigi, promettendo un più forte “contrasto all’evasione fiscale”. Un campo dove, con le sue competenze, potrebbe effettivamente fare sfracelli, se solo volesse...
In definitiva, un discorso da cui non esce la sostanza del disegno di ristrutturazione del Paese. Ne viene evocata la necessità e l’urgenza, ma non i passaggi concreti.
Per quelli, senza dubbio, dovremo attendere quel che matura nei ministeri-chiave – quelli economici – affidati ai “tecnici” di sua stretta fiducia.
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