Presentazione


Aggregatore d'analisi, opinioni, fatti e (non troppo di rado) musica.
Cerco

14/02/2021

Brecht - Con gli analfabeti non si può fare la guerra

Sul numero 84 del 2001 della Rivista La Contraddizione, Vladimiro Giacché proponeva la traduzione di alcuni testi minori di Bertolt Brecht, ai quali premette una breve e preziosa presentazione che mostra quanto istruttiva fosse ancora la loro lettura.

Soprattutto, dice Giacché, questi testi sono preziosi per fugare un luogo comune della politologia borghese contemporanea, rappresentato dall’opposizione di democrazia e totalitarismo. Luogo comune che, dice, ha il suo nume tutelare in Hannah Arendt, e che oggi (2001) è pienamente egemone, e consente di cogliere tre obiettivi in un colpo solo: a) trasformare la democrazia parlamentare in un feticcio; b) demonizzare l’esperienza sovietica, assimilata in tutto e per tutto alla Germania nazista; c) cancellare il puro e semplice dato di fatto che la Germania nazista fu un Paese capitalista.

Per quanto riguarda direttamente i testi di Brecht, devo ammettere che ancora oggi, 2021, sono utili per fugare altrettanti luoghi comuni della politologia borghese che dominano il dibattito televisivo-filosofico nostrano.

Non solo è importante tenere a mente che il fascismo è stato legato alla necessità di conservare l’ordine sociale capitalista e che, qualsiasi cosa se ne dica, e nonostante le differenze, anche enormi, con gli anni Trenta del Novecento, il capitalismo è vivo e vegeto e cerca, anche con i mezzi più disumani, di organizzare le nostre esistenze; è importante tenere a mente che il capitalismo integra l’esperienza parlamentare; che il nazismo è salito al potere in modo legale, diventando improvvisamente il più grande di tutti i partiti, approfittando della massa di tutti gli scontenti, che, dice Brecht, erano scontenti dei partiti tradizionali, e che guardavano al partito fascista come a un partito che non aveva ancora governato, e che perciò non aveva ancora fatto fallimento e, aggiungo io, in molti, compresi fior fior di grandi filosofi, speravano che sarebbe stata la volta buona.

In più, in questi brevi e chiari testi di Brecht, trovo la messa in mora anticipata di quell’atteggiamento estetizzante, tipico di quell’intelligenza a spasso, che spartisce con l’arte e la moda moderniste la dote di cattiva ingenuità che gli fa dire che le idee del prossimo sono le penultime uscite dal forno dell’avanguardia.

So bene, dice Brecht, che espressioni come «proprietà privata dei mezzi di produzione» suonano spiacevoli, sono poco romantiche, per niente poetiche. Ma nessuno di noi, dice, pensa di usare tali espressioni in virtù della loro bellezza.

E poi, dice, posti di fronte alla scelta tra l’adoperare tali parole spiacevoli, antiquate e di sapore dottrinario, o far vincere il fascismo, bisognerebbe decidersi per le prime. Eppure, aggiungo io, ci sono pensatori, soprattutto in Italia, che pur di mostrare di essere nel mood giusto, brucerebbero nel fuoco le idee vecchie, anche se giuste.

In merito a tutti coloro che cercano di tradurre (non voglio dire nascondere, perché in molti casi l’azione non è intenzionale) o di trasporre la lotta di classe in conflitto di genere, in conflitto tra uomo e natura, in conflitto tra Stati, in conflitto tra amici e nemici, in conflitto di forze o di grandi stanziamenti geopolitici, o tra produzione vera e finanza, tra città e campagna, tra progresso e vita all’aperto, tra dono e denaro, tra computer e campagna, tra teleconferenza e bacio, tra nuda vita e zorro, tra Zoom e vedemose al bar, tra bíos e zoé, tra Kiko e Panzanella, Versace e Camper, Liber e Zen, Windows e Linux... Brecht dice che non hanno capito nulla del metodo del fascismo, che consiste proprio nel trasformare la lotta di classe in un altro conflitto.

Non hanno capito nulla di un fascismo che riesce a convivere con chi crede che levato Zoom, si levi il fascismo; che senza queste escrescenza, senza la corruzione, per esempio, senza la terra dei fuochi o senza l’inquinamento, il capitalismo sia davvero il migliore dei mondi possibili.

Beata innocenza!, che tanto si affanna, e poi finisce per fare il gioco del capitalismo.

Cosa credete che pensi il capitalismo di se stesso? Se non che “il mercato”, una volta emendato dalle asimmetrie informative, dalle esternalità negative, dalla corruzione, etc. produrrà quell’equilibrio e quell’equità che nessun altro sistema può garantire.

In ogni caso, dice Brecht, il nazismo va combattuto anche con mezzi deboli. Qui, dice Giacché, Brecht dà mostra del suo caratteristico modo di ragionare pragmatico e antidogmatico.

Strutture come l’ambientalismo, il femminismo, il romanticismo regressivo vitalista, il sindacato, tanto vituperato, soprattutto se non è il «mio» sindacato, i comitati lgbtq+, etc. i diritti umani, tutte queste strutture, quando agiscono da sole o in concerto, non è vero che non hanno alcun valore.

In situazioni critiche, dice Brecht, non bisogna, come fanno alcuni, arrivare al punto di accusare queste strutture di essere addirittura dannose, in quanto alimentano l’illusione che, agendo come esse suggeriscono di agire, si possa davvero porre rimedio alla miseria umana che deriva da una organizzazione sbagliata della produzione, e che quindi può essere eliminata soltanto attraverso il più totale rivoluzionamento di tale organizzazione della produzione.

Anch’io non mi attendo nulla dal sindacalismo odierno, che tenta di combattere condizioni di lavoro pessime e paghe basse, che sono soltanto effetti, e lo fa a patto di convalidare l’intera baracca, ad ogni livello, e ciò accade in ogni sindacato, anche il più (sedicente) anti-bonzo, e lo fa con i mezzi più deboli, come ad esempio la denuncia, la rivendicazione, la piattaforma, lo sciopero.

Da quando il capitalismo ha rialzato la testa, ovvero da almeno 40 anni, non mi spingo fino al punto di considerare, come fanno tanti, totalmente fallite le grandi organizzazioni sindacali o le strutture per la difesa dei diritti civili o umani. Anch’io, direbbe Brecht, ho osservato l’opera, modesta ma tenace e importante, di organizzazioni – spesso considerate con sufficienza, e addirittura violentemente attaccate – quali le comunità per i diritti civili, i sindacati, i partiti strutturati di tradizione marxista.

Effettivamente sono state le uniche organizzazioni accanto alle persone e ai lavoratori in difficoltà, in molti casi salvandone persino la vita. Con la loro debole voce sbugiardano instancabilmente l’ingiustizia, e richiamano molti alla lotta. Allora si capisce che l’ingiustizia non deve essere combattuta soltanto nella maniera definitiva, che include l’eliminazione delle sue cause, ma anche in modo generale, cioè facendo ricorso a tutti mezzi, anche i più deboli.

Infine voglio ricordare altre due cose di questi bellissimi testi tradotti da Giacché.

La prima, e la più importante, è un tema hegeliano che riguarda l’universale, che riguarda Tutti. In un periodo, il nostro, ancora ubriaco di storicismo crociano, di Nicce baci perugina, di tragedia e romanticismo in scatola, di esistenzialismo filtrato da Marcuse, di pragmatismo assunto a propria insaputa, di logica basica diventata il vero tormentone mediatico – la stupidità, dice Brecht, può venire organizzata su larga scala.

In questo periodo un po’ di Hegel, il suo modo sorprendente di mettere insieme, l’uno nell’altro, ciò che non può stare insieme, e che ripugna alla logica basica, è di grandissimo aiuto. Soprattutto a quelle attività che, dice Brecht, hanno come presupposto della loro stessa efficacia il fatto di riguardare tutti.

Ora, aggiunge, l’inefficacia dei nostri sforzi è da cercare nel fatto che la nostra azione era destinata a «tutti», che doveva riguardare «tutti», ci rivolgevamo a «tutti» in modo troppo indeterminato.

Cosa vuol dire Brecht? Vuol dire che questo modo di considerare il tutto – l’universale – è sbagliato. È il modo dell’intelletto che pone, l’uno di fronte all’altra, il tutto e la parte, parte che esso considera, riguarda, misura, guida, incita, forma, etc.

È evidente che questo tutto (che giustamente Brecht pone tra virgolette), non è il tutto, ovvero, è il tutto usato a sproposito per costruire il cattivo concetto di democrazia. Ricordo di passaggio le fatiche di Rousseau in merito a Volontà generale e Volontà di tutti.

Non è affatto vero, dice Brecht, che tutti siano per tutti. Al contrario, soltanto un ben determinato ceto sociale è in grado di rappresentare gli interessi di «tutti», e lo può fare, in quanto, producendo il benessere degli «altri», è costretto a produrre per tutti. Questo ceto è il proletariato, il ceto produttivo.

Infine Brecht pone il tema della ragione, e lo fa in modo molto sottile. Intanto dice che il capitalismo può sempre trovare utile alterare la ragione, ma che non può andare avanti e macinare i suoi successi senza ragione. Non bisogna credere che, dice, nelle condizioni cattive del fascismo sia necessaria poca ragione.

La ragione che qui deve essere adoperata non è poca. La quantità di ragione di cui hanno bisogno i ceti dominanti per sbrigare i loro affari correnti non dipende da una loro libera decisione. Tale quantità, dice, in uno Stato moderno è notevole, e più notevole ancora diviene quando questi affari debbono essere continuati con altri mezzi, vale a dire in guerra. La guerra moderna consuma un’enorme quantità di ragione.

Per essere consumata nella produzione, alla stessa stregua di una materia prima o di un semilavorato, la ragione deve essere prodotta. E dove viene prodotta, se non nelle scuole?

L’introduzione della moderna scuola dell’obbligo, dice Brecht, non ebbe luogo perché i ceti dominanti dell’epoca, mossi da motivazioni ideali, volessero rendere un servigio alla ragione, ma perché la capacità intellettuale dei più vasti strati della popolazione doveva essere elevata per poter servire l’industria moderna.

Se ora la capacità intellettuale degli occupati venisse eccessivamente compressa, l’industria stessa non potrebbe venire salvaguardata. Perciò quella capacità intellettuale non può essere compressa più di tanto, per quanto per altri versi ciò possa apparire desiderabile ai ceti dominanti. Con gli analfabeti non si può fare la guerra.

Per il capitalismo far tornare gli alunni a scuola non è un dovere morale, è un’esigenza economica. Soprattutto se la scuola è inserita nella filiera produttiva in modo sistematico, non solo per ciò che attiene ai profili curricolari, ma soprattutto per la disciplina fisica, che comprende la disposizione di banchi, sedie e aule, disciplina condivisa con la caserma, l’ospedale, la fabbrica.

Le critiche rivolta a questo cosiddetto sistema totale, a partire dagli anni Cinquanta del Novecento, per esempio da David Riesman (Folla solitaria), il quale racconta la giovane contestazione all’ordinamento disciplinare della struttura scolastica, e intravvede la possibilità di decostruire questo ordine, magari appendendo alle pareti fiorellini e carta colorata e disponendo i banchi in cerchio, col docente pari tra pari, o imparando sul campo, con vere e proprie sessioni col mastro (master), etc. queste critiche, che vorrebbero mondare il capitalismo dalle sue escrescenze, sono un altro modo per tradurre la lotta di classe in una lotta tra buoni e cattivi.

La riflessione di Brecht, profondamente intaccata dalla dialettica, non si ferma a questo livello parametrico dell’opposizione binaria, stupida, formale: algoritmica. Raccoglie ciò che il capitalismo ha seminato. Non gli basta sdoppiare la questione e cercare di allocarsi su una delle due sponde: scuola si, scuola no.

L’imponente diffusione della ragione resa possibile dall’introduzione dell’insegnamento obbligatorio, dice Brecht, ha condotto, oltreché alla crescita dell’industria, a una straordinaria crescita delle rivendicazioni delle più ampie masse popolari. La rivendicazione del potere da parte di queste masse ne ha ricevuto grande forza.

Con le pantofole ai piedi, è facile dire che per questa conoscenza bisogna pagare un alto prezzo, che la conquista di questa potenzialità passa per un asservimento; che produrre per tutti significa rimandare il proprio consumo; che tanto vale buttare tutto all’aria sin da subito e godersi in libertà la propria sovranità, etc.

Si tratta di temi noti, rimacinati dal surrealismo in avanti, e sui quali non mi dilungo, se non per dire che prima che qualcuno si metta al lavoro non c’è alcuna riserva da dilapidare in eventuali Potlatch: il valore viene dal lavoro. Punto.

Con le scarpe antinfortunistiche ai piedi, non volute, non scelte, indossate a malavoglia, ma pur sempre indossate, la prospettiva cambia. E anche qui non mi dilungo, perché il dossier di questa discussione è stato archiviato.

Ci sono altri punti che i testi di Brecht toccano e che varrebbe la pena affrontare con calma – se avessi tempo.

Fonte

Nessun commento:

Posta un commento