Ad essere coinvolte nelle manovre saranno le truppe di 27 Stati (non solo europei) e dentro un contesto geografico estremamente esteso, che va dai Paesi baltici al Nord Africa, passando per i Balcani: si parla di 28.000 militari che agiranno sul territorio di sedici paesi europei alleati fino al mese di giugno.
Queste massicce e minacciose manovre militari in Europa, intendono recuperare il gap dello scorso anno, quando l’edizione di Defender Europe 2020 prevedeva un numero ancora maggiore di soldati coinvolti (circa 34.000 tra statunitensi e alleati), ma era stata drasticamente ridimensionata a causa degli effetti della pandemia da Covid-19.
Il senso di queste manovre militari in Europa, secondo il sito specializzato AnalisiDifesa.it, va collocato nel contesto più ampio dell’adattamento che le forze armate degli Stati Uniti (soprattutto) e gli alleati della NATO stanno operando nel campo della pianificazione e condotta delle operazioni militari del futuro, in uno scenario dominato da moltissima tecnologia, ma anche da problemi come quelli della mobilità militare da assicurare in Europa per garantire lo schieramento e il sostegno delle truppe.
Ma con l’aggravante che alla esplicita contrapposizione con la Russia (soprattutto sul teatro ucraino), si è aggiunta ora anche quella con la Cina.
Nel contesto del conflitto apertosi in Ucraina e Donbass nel 2014, la NATO nel vertice in Galles, decise di condurre una serie di esercitazioni militari “di alto profilo” e visibilità sui territori dell’Alleanza sulla base dei due principali esiti del summit in termini di principi guida per il prossimo futuro: Assicurazione (Assurance) e Adattamento (Adaptation).
Nel novembre dello stesso anno ci furono le manovre Trident Lance 2014, esercitazione svolta in nove località differenti del territorio europeo, ma il cui fulcro era la Germania. Poche truppe schierate, ma soprattutto comandi, comandanti e capi dello staff per comprendere ciò che era avvenuto e per definire le modalità operative della risposta.
Nel 2018, la Norvegia ospitò quella che sarebbe stata la più grande esercitazione della Nato del dopo guerra fredda: la Trident Juncture 2018. I militari coinvolti furono addirittura 53.000 e 31 gli Stati partecipanti (29 membri della NATO, più Finlandia e Svezia). Gli Stati Uniti schierarono 14.000 militari, la Germania 10.000, la Gran Bretagna 2.700 e l’Italia circa 1.200 (appartenenti alla Brigata corazzata “Ariete”).
Lo scenario prevedeva l’impiego delle NATO Response Forces (NRF) e dei relativi rinforzi, impegnati nel ripristino dell’integrità territoriale della Norvegia violata da un aggressore. Le operazioni terrestri si svolsero interamente su suolo norvegese, quelle navali nell’Atlantico del nord e nel Mar Baltico, mentre le operazioni aeree in Svezia e Finlandia.
Ma nel 2018 si è assistito ad un significativo salto di qualità nella definizione della strategia della Nato, ovviamente ispirata dalle necessità degli Usa. Mentre partivano le manovre Trident Juncture Washington rendeva pubblica, sia la nuova Strategia per la Difesa Nazionale che la US Army in Multi-Domain Operations 2028 (MDO).
Nella Strategia per la Difesa Nazionale Usa del 2018 il confronto con la Russia e la Cina ha preso il posto della lotta al terrorismo a livello globale introdotta nel documento precedente dieci anni prima. Ed è in questo contesto che hanno preso corpo quella che sono definite guerre ibride.
Nello scenario descritto dai due documenti statunitensi, la Russia e la Cina convergono sull’obiettivo di dar forma a un mondo coerente con il loro “modello”, acquisendo il potere di veto e di interferenza sui processi decisionali in tema di economia, diplomazia e sicurezza delle altre nazioni, rompendo le alleanze e le partnership degli Stati Uniti.
Secondo i documenti Usa, “L’attuazione di tale disegno avviene mediante lo sviluppo di ‘confronti’ (stand-off) attuati mediante l’integrazione di azioni economiche, diplomatiche e forme di conflitto non convenzionali (uso dei social media, fake news, attacchi cyber), associate con la minaccia dell’impiego o l’effettivo impiego di forze armate convenzionali“.
Il sito specializzato AnalisiDifesa.it così sintetizza le caratteristiche delle guerre ibride secondo la nuova strategia Usa.
“La separazione politica che ne deriva realizza un’ambiguità strategica, che riduce la rapidità dei processi decisionali e la capacità di reazione della controparte. Si tratta quindi di un insieme di “azioni competitive”, secondo la definizione delle MDO, attraverso le quali conseguire gli obiettivi strategici del confronto con gli USA e i suoi alleati, idealmente senza ricorrere ad un conflitto armato, ma senza però escluderlo.Una ragione in più per l’accanimento contro la resistenza No Tav in Val di Susa.
Gli obiettivi della sicurezza nazionale vengono quindi raggiunti se l’esercito, di concerto con gli altri Services (Marina, Corpo dei Marines, Aeronautica), prevale nelle competizioni in tutti i domini. La dimensione militare entra in gioco quale elemento fondamentale della competizione esercitando la deterrenza e, se questa fallisce, nella capacità di:
1) creare le condizioni perché la manovra strategica e tattica delle forze armate statunitensi sia garantita;
2) sfruttare la libertà di manovra acquisita per sconfiggere l’avversario in tutti i domini;
3) consolidare i successi ottenuti per riprendere la competizione con termini più favorevoli per gli Stati Uniti e i propri alleati.
Per ciò che concerne l’Europa, le MDO prevedono l’effettuazione, da parte dell’aggressore, di operazioni offensive rapide e risolutive nel fianco Nord, Nord-est ed Est della NATO volte ad occupare la maggior parte possibile di territorio (e quindi potere di negoziazione) prima dell’arrivo dei rinforzi americani dagli Stati Uniti, e della mobilitazione generale dell’Alleanza. Si tratta di un fait accompli scenario con limitate forze USA sul campo, e con l’urto iniziale sostenuto dalle unità della forward presence della NATO con limitata capacità di risposta.
Da qui l’importanza di testare le capacità di schierare velocemente nel teatro operativo europeo le forze necessarie per limitare i successi dell’aggressore facendo affidamento essenzialmente su due fattori: 1) la rapida integrazione dei rinforzi affluiti dagli Stati Uniti con stock di mezzi e materiali USA già preposizionati sui territori di alcuni paesi membri della NATO, tra i quali l’Italia, 2) una mobilità militare garantita in tutto il teatro di operazioni”.
Anche quest’ultimo aspetto merita di essere tenuto nella dovuto attenzione. La mobilità delle forze armate sul territorio europeo è diventato una priorità. La possibilità di spostare rapidamente le truppe “da Lisbona a Kiev” non vi ricorda niente? È esattamente il percorso del progetto originario della Tav, con molti che si domandavano – giustamente – “ma quali merci avevano tutta questa urgenza di andare da Lisbona a Kiev?”
La pervicacia – ed anche la brutalità, oltre che l’insensatezza economica – con cui il Tav viene portato avanti, ha dunque molto a che vedere anche con le priorità che si è data la Nato. Tanto è vero che nel 2016 la NATO e l’UE hanno siglato degli accordi specifici per affrontare il tema.
Bruxelles, che finanzia annualmente progetti infrastrutturali dei paesi membri da miliardi di euro, si è impegnata ad aggiungere gli standard della NATO nelle specifiche progettuali stanziando 6,5 miliardi di euro da spendere in sette esercizi finanziari, a partire da quest’anno, per far sì che le infrastrutture strategiche europee siano conformi ai requisiti militari.
La questione è talmente importante che gli stessi Stati Uniti sono scesi direttamente in campo chiedendo all’Unione Europea di far parte del Military Mobility Project, uno dei 47 progetti di cooperazione di prevista attuazione nell’ambito della Permanent Structured Cooperation (PESCO).
Si spiegano così molte cose, incluso l’accanimento repressivo contro la resistenza popolare No Tav in Val di Susa. Ma si spiega anche il senso di questa ridefinizione delle strategie della Nato che punta a rimuovere l’idea che le “guerre siano impossibili” a causa delle armi nucleari.
Le guerre tornano possibili come strumento delle relazioni internazionali e dei giochi di potenza nella loro forma ibrida, appunto. Combattute con ogni mezzo militare e non militare con l’obiettivo di distruggere le infrastrutture ma anche la capacità di persuasione o egemonia del nemico.
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