Come abbiamo già sottolineato in vari lavori, si prevede che la crisi del coronavirus sarà la più grande crisi economica e la più grande sfida dalla Grande Recessione. È una crisi senza precedenti per le sue caratteristiche.
Oltre alla diminuzione della capacità produttiva (shock dell’offerta), con un crollo dei mercati internazionali, e al calo della domanda interna (shock della domanda), dobbiamo aggiungere restrizioni alla circolazione, che contemporaneamente producono effetti sulla domanda e sull’offerta.
Da un lato, la crisi accelerata dal coronavirus implica una grande distruzione di valore e, dall’altro, dal punto di vista produttivo, accelera tutto il processo legato alla cosiddetta quarta Rivoluzione industriale: l'“economia digitale”, il lavoro da casa, l’intelligenza artificiale, l’insegnamento virtuale, etc.
Infine, gli impatti settoriali asimmetrici, ovvero i settori in cui il contatto tra le persone è maggiore (turismo, tutti i settori dei trasporti, tempo libero, servizi in generale, istruzione, commercio e relativi settori di supporto, etc), sono stati più colpiti rispetto ai settori in cui il contatto tra le persone è minore (agricoltura, manifattura altamente tecnica, rami di supporto al settore sanitario per la fornitura di medicinali, attrezzature e materiale di biosicurezza).
Tuttavia, ci sono alcuni servizi che potrebbero beneficiare di questa crisi, come nel caso dei servizi derivati dalle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, la cui domanda è aumentata notevolmente; da un lato per la necessità delle persone di intrattenersi, socializzare e comunicare a distanza, dall’altro, per promuovere il telelavoro che consente ai dipendenti di lavorare da casa senza doversi recare di persona sul posto di lavoro.
Questi sono i due lati dello stesso processo di distruzione creativa, che implica un’intera reingegnerizzazione sociale di cui oggi, in stato di emergenza, stiamo sperimentando vari progressi ma il cui sviluppo è ancora alquanto incerto.
D’altra parte, le sue dinamiche più evidenti si osservano nell’area asiatico-pacifica, in diverse dimensioni e in rapporti di produzione ibridi e nuove forme di organizzazione.
La pandemia di COVID-19 catalizza e accelera una serie di tendenze che si erano sviluppate come parte della crisi dell’ordine mondiale e della transizione storico-spaziale che stiamo vivendo. Alcune di queste tendenze sono l’emergere dell’Asia-Pacifico e della Cina in particolare, e il relativo declino dell’Occidente geopolitico, del Nord del mondo e della grande potenza del XX secolo: gli Stati Uniti.
Stiamo assistendo alla configurazione di un mondo multipolare e allo stesso tempo con caratteristiche bipolari, insieme a crescenti contraddizioni tra il Nord e il Sud del mondo.
Un’altra tendenza è la crisi strutturale del capitalismo globale e della sua forma neoliberista, iniziata nel 2008, ed è legata alle lotte geopolitiche e ai grandi cambiamenti nei paradigmi tecnologici, nonché nei modi di organizzare la produzione economica e la riproduzione sociale.
La crisi del COVID-19 mette in discussione la presunta razionalità e il primato dei principi del consenso occidentale della “libertà individuale” come valore supremo e della “libera impresa” come mezzo ineludibile.
Il consenso all’austerità neoliberista, un vero e proprio approccio di ferro alla gestione del bilancio e alla portata delle politiche pubbliche, è stato temporaneamente sospeso nell’UE, con una data di ritorno al 2023/2024. Una misura incapace di raggiungere quello che dovrebbe essere l’obiettivo centrale: subordinare le imprese all’interesse pubblico per soddisfare le esigenze vitali determinate da questa crisi.
L’aumento della povertà associato alla perdita di posti di lavoro e di piccole imprese è stato aggravato dal fatto che il diritto di possedere beni essenziali – elettricità, acqua, abitazioni – significa che la spesa (cioè il ritorno del capitale in questi settori) non può essere sostenuta con la perdita totale di reddito.
Neanche i governi dei paesi più ricchi sono stati in grado di rispondere a questi settori. La crisi sanitaria preannuncia una rottura del buon senso impiantato dal capitale, che in assenza di un’alternativa organizzata, finirà in una crisi sempre più profonda di legittimazione dell’attuale ordine capitalista.
Ma la verità è che al di là delle intenzioni reali o inventate dei governi dei centri capitalisti, la crisi del coronavirus sta rendendo più trasparente all’opinione pubblica di questi paesi l’esistenza di un ordine mondiale emergente in cui si assiste a un rovesciamento della gerarchia rispetto al sistema capitalistico liberista nel rapporto tra le priorità della vita sociale e quelle della vita economica, tra l’ordine del capitale e l’ordine cooperativo, in cui il multilateralismo economico e politico cinese sfida l’egemonia di un lungo secolo americano.
Nel Sud del mondo non è una novità: per anni la Cina ha costituito un’ancora di salvezza economica alle nazioni che soffrono per le sanzioni degli Stati Uniti e si sono allontanate dall’austerità negoziata dal FMI. Il FMI, tra l’altro, sottolinea il comportamento asimmetrico tra la Cina e il centro e la periferia del capitalismo nel contesto della pandemia.
La capacità della Cina di risolvere il problema della pandemia in patria, oltre a contribuire all’assistenza in più di 80 paesi – tra cui diversi nell’UE che hanno ricevuto dalla Cina le attrezzature, la consulenza o l’assistenza tecnica che l’Unione stessa non è stata in grado di organizzare e fornire ai suoi popoli – rafforza la percezione dei vantaggi della produzione economica organizzata a livello centrale della Cina, e le sue vaste infrastrutture industriali statali sono al centro della sua capacità di soddisfare le esigenze di salute pubblica di quel Paese e ora del mondo.
Lo sforzo delle potenze occidentali di nascondere ai media informazioni sulla gestione della pandemia in Cina è notevole.
Secondo le proiezioni dell’Economic Commision for Latin America and the Carribbean (ECLAC) in tutta la regione latinoamericana, l’impatto sarà particolarmente grave.
Tutte le economie della regione registrano una crescita negativa e ci sono grandi preoccupazioni su quanto a lungo potrebbero durare le sue conseguenze. L’America Latina è una delle aree più vulnerabili a questa crisi; in questa regione i livelli di povertà sono intorno al 30% e la maggioranza della popolazione è occupata nel settore informale dell’economia, senza sicurezza sociale o reti di sicurezza. Anche i paesi sottosviluppati o in via di sviluppo sono piuttosto vulnerabili.
In larga misura, si può riassumere che l’impatto della crisi per i paesi del Terzo Mondo si farà sentire fondamentalmente attraverso un forte calo in quattro aree generatrici di reddito: (i) i flussi di capitali privati, (ii) le rimesse degli immigrati, (iii) gli aiuti esteri e (iv) i prezzi delle materie prime.
La situazione della crisi è stata fatale per i paesi del Sud Europa, anche perché dall’avvento dell’euro la politica monetaria che è stata perseguita era funzionale agli interessi dei paesi esportatori del Nord Europa, e ciò ha debilitato e subordinato le economie dei paesi periferici del continente, relegandoli a riserve agricole, riserve di servizi turistici, riserve di servizi a basso valore aggiunto, di servizi residenziali, sottomessi sempre di più a processi di deindustrializzazione.
Praticamente quello che era il ruolo espansivo keynesiano non ha più possibilità di essere rimesso in azione.
Infatti, dobbiamo ricordare che l’unico obiettivo delle politiche messe in atto a seguito della crisi è stato il salvataggio del sistema bancario e finanziario, con operazioni che hanno puntato semplicemente a rimettere in sesto il sistema bancario; innalzano pesantemente il deficit fiscale dei paesi centrali, sia per l’entità delle somme impiegate, sia per la diminuzione degli introiti fiscali, dovuta alla decelerazione degli investimenti produttivi. È proprio durante questa crisi che si è definitivamente giunti allo smantellamento del sistema pubblico.
Bisogna riflettere anche sul fatto che in questo modo i soldi destinati agli investimenti produttivi sono ovviamente stati utilizzati per il salvataggio del sistema finanziario, colpendo soprattutto non i grandi gruppi industriali, quanto piuttosto i piccoli e medi imprenditori, i commercianti, i lavoratori e i precari, che hanno vissuto una contrazione del credito, oltre al fatto che la trasformazione dei profitti in rendite disincentiva gli investimenti produttivi.
La deindustrializzazione ha quindi posto i PIGS davanti a una nuova divisione internazionale del lavoro e all’instaurazione delle filiere della nuova catena del valore.
Ma la crisi del coronavirus, soprattutto in Europa, ha riportato all’attenzione pubblica le fallimentari politiche di privatizzazione che sono state compiute negli ultimi decenni, in cui la pubblica amministrazione è stata costantemente presentata come corrotta, pigra e inefficiente per facilitare il passaggio al privato.
In questo 2020 è stato però chiaro che il privato non solo non è intenzionato a intervenire in materia di sanità e salute pubblica, ma che solo il pubblico è in grado di far fronte a situazioni estreme come quella della pandemia di COVID-19.
Ma ormai è troppo tardi e il settore pubblico, smantellato e ridotto all’osso, è stato in grado di fronteggiare la diffusione del virus solo con misure drastiche e un sovrappiù di dedizione.
Quindi possiamo affermare che la crisi del coronavirus non è dovuta esclusivamente al virus, ma sia da ricercare anche nelle politiche che sono state attuate negli anni precedenti dall’Unione Europea, che ha effettivamente smantellato tutti quei diritti sociali che facevano parte delle Costituzioni dei paesi europei, in nome del pareggio di bilancio.
Come abbiamo visto in precedenza questo non ha fatto altro che aumentare la profondità della crisi, che era già in atto, ma soprattutto nel suo epifenomeno del 2007-2008. L’intensità dei danni provocati al welfare state delle diverse nazioni europee è proporzionale alla situazione di partenza e non è uguale per tutti, sia prendendo a riferimento le entità nazionali, sia dal punto di vista delle disuguaglianze dei cittadini all’interno dell’Unione Europea sia all’interno degli stessi Stati.
Da anni ormai studiosi di tutte le più eminenti università del mondo ripetono che questo sia l’unico sistema economico possibile, un sistema basato sull’impresa e sul profitto, con un mercato che si dovrebbe regolare autonomamente. Ebbene, con la crisi del coronavirus è finalmente sotto gli occhi di tutti il fallimento di questo sistema, che non tiene conto delle persone in quanto esseri umani, e di come questo possa avere delle ricadute anche economiche.
È quindi il momento di pensare a una rottura con l’Unione Europea, dal momento che è evidente il fallimento del tipo di società in atto da questa istituzione; non una rottura “con l’Europa”, ma per costruire un Europa differente in alleanza con i paesi del Nord Africa: l’ALBA Euro-Afro-Mediterranea.
La crisi economica e sociale, la competizione globale e la pandemia oggi presentano il conto, producendo una spaccatura delle classi dominanti statunitensi che vivono le profonde insanabili contraddizioni che sono alla base degli sconvolgimenti attuali, incrinando drammaticamente l’egemonia statunitense dell’intero Occidente capitalista.
Con questo crolla anche la favola di una società “democratica”, avanzata e dei diritti, facendo emergere una realtà di un mondo dominato da relazioni sociali barbare, che la classe dominante imperialista statunitense cerca di nascondere imputando la responsabilità ad un solo presidente “folle e irresponsabile” come Donald Trump.
Gli eventi del 6 gennaio 2021, che hanno colpito la democrazia statunitense nel centro simbolico della loro democrazia, individuano una lotta di classe prettamente a stelle-e-strisce che va a incarnare una parte della società statunitense. Il divenire storico è il risultato di una lotta di classe e senza l’analisi di chi insorge contro chi, non riusciamo a identificare gli interessi in ballo, se vengono presi singolarmente gli individui protagonisti.
Al momento il virus non può più essere sconfitto, si può solo contenere la sua diffusione. E per evitarlo o aggirarlo, le attività economiche devono essere chiuse e la mobilità delle persone limitata. È necessario quindi fermare o rallentare le economie.
La durata di questa stagnazione ne determinerà la gravità d’impatto. Poiché la produzione è frammentata e i processi sono collegati a livello internazionale, così come la mobilità e il trasporto dei flussi commerciali di input e prodotti, le catene del valore si stanno interrompendo e non è certo se sarà possibile riavviarle contemporaneamente, data la loro intrinseca complessità e il comportamento «caotico».
Chi tiene le redini del sistema è un numero sempre più ridotto di società economiche e finanziarie che oggi identifichiamo con la dittatura del capitale monopolistico. Gli Stati imperialisti, a vari livelli, ne diventano necessariamente espressione piegando il pubblico agli interessi del privato, facendolo prevalere di fronte a disuguaglianze storiche e alle criticità come la crisi pandemica.
Gli uomini e le donne di queste aziende sono chiamati come consulenti dagli stessi attori statali – dalla Federal Reserve negli Stati Uniti alla Commissione Europea nell’UE, per citarne solo due – a guidare le scelte strategiche. I membri dei principali istituti economico-finanziari sono parte integrante di questo sistema di porte girevoli delle democrazie occidentali (sia negli Stati Uniti che nell’Unione europea), in un ciclo “virtuoso” – per loro e per i loro complici – che sopprime ogni ostacolo al passaggio dalla leadership aziendale alla leadership politica, e viceversa, con una contemporanea presenza nei think tank e nelle lobby che determinano i quadri concettuali della politica e le scelte fondamentali di quest’ultima.
Con l’elevata volatilità del mercato dei cambi, è probabile che in molti paesi si verifichino turbolenze finanziarie diffuse, che colpiscono anche i mercati azionari e obbligazionari. In definitiva, questo influenzerà il commercio internazionale e gli accordi di pagamento globale tra i fornitori.
La crisi sanitaria globale causata dal COVID-19 è anche caratterizzata da un momento in cui il multilateralismo, pilastro della cooperazione internazionale, sta attraversando il suo momento peggiore.
Nell’aprile 2020, Trump ha accusato l’OMS di “sostenere” troppo la Cina e ha sospeso i fondi statunitensi erogati all’Organizzazione. Con l’estendersi delle pandemie, la salute è diventata un bene pubblico globale che dovrebbe meritare maggiore attenzione da parte della comunità internazionale, rafforzando le istituzioni e le agenzie sanitarie e il multilateralismo.
È quindi il momento opportuno per rilanciare la necessità di modificare il Sistema Monetario Internazionale, ed è in questo contesto che si specula se le criptovalute possano costituire la base di questa nuova istituzione monetaria globale, sostituendo il dollaro USA come riserva e valuta dominante nel mondo.
Naturalmente, le criptovalute attualmente esistenti, prodotti di pagamento privati di limitata accettazione, non possono svolgere questa funzione.
Vanno però citati gli sforzi di paesi come Cina, Vietnam, e soprattutto Cuba, che hanno inviato aiuti umanitari (medici, attrezzature, presidi) nei paesi occidentali colpiti dal COVID-19. È quindi evidente il fallimento del modello occidentale basato sugli interessi privati a discapito della salute pubblica e del benessere della popolazione.
Di contro i paesi che hanno adottato una pianificazione in termini di politiche economiche, sono stati maggiormente in grado di opporsi alla diffusione del virus con ricadute non solo sul benessere della popolazione, ma anche economiche, come vedremo più avanti.
In questo caso, anche se siamo in una situazione precoce, ci troviamo in una fase la cui intensità è piuttosto forte. È importante quindi sottolineare come qualsiasi tentativo di ripresa debba basarsi sicuramente sulla tutela della salute pubblica. Una seconda fase dovrebbe prevedere degli interventi di “pulizia finanziaria”, poiché dobbiamo considerare che già da ora, quasi tutti i paesi colpiti duramente dalla pandemia si trovano in una situazione di default effettivo o crisi finanziaria.
L’uscita dalla crisi è quindi da identificare nella cooperazione internazionale, senza la quale si rischia una depressione a lungo termine. Basti pensare alla profondità della Grande Depressione stessa, che rifletteva la mancanza di leadership globale negli anni ’30: la Gran Bretagna era troppo debole per guidare il mondo, gli USA non erano interessati alla leadership, Weimar si ritirò, e quindi Hitler salì al potere nel gennaio 1933. La Grande Depressione si approfondì a causa della mancanza di cooperazione.
Gilberto M.A. Rodrigues e Alberto Kleiman sottolineano che la crisi del COVID-19 e il suo enorme impatto sulle relazioni internazionali sembrano aver aperto un’opportunità per la rinascita del multilateralismo; un multilateralismo basato anche su organizzazioni internazionali di natura tecnico-scientifica, come l’OMS e la PAHO, in cui la cooperazione internazionale è alla base della risposta alle minacce e alle emergenze sanitarie.
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