“L’economia sociale non si limita alla mera attività delle organizzazioni non profit ma diventa una rete di supporto, di tipo socioeconomico, al servizio delle imprese for profit”.
A definire così chiaramente la funzionalità liberista del Terzo Settore, non è Contropiano ma un articolo comparso su una delle innumerevoli pubblicazioni dell’arcipelago di imprese “No profit”.
Non solo. Le larghissime maglie concesse dalla deresponsabilizzazione dei soggetti pubblici (Stato, amministrazioni locali etc) e dalle privatizzazioni del welfare pubblico, hanno aumentato esponenzialmente l’invasione di campo, gli appetiti e la pervasività del Terzo Settore nel mettere mano ai servizi sociali e piegarli alla logica di impresa.
In un altro passaggio infatti viene sottolineato che: “il Terzo settore è divenuto esso stesso parte integrante dell’economia italiana. Questo stravolge il concetto di sussidiarietà conferendogli la dinamicità di una forza aggregante che metta insieme imprese for profit, imprese non profit e pubblica amministrazione per definire comuni linee di intervento”.
In una ricerca realizzata da Srm di Intesa San Paolo, sono stati evidenziati nuovi aspetti dell’economia sociale, inclusa la quantificazione in termini di risparmio sociale scaturite dalle ore di lavoro non retribuite messe a disposizioni da quasi 5,5 milioni di volontari e l’occupazione che ormai riguarda 1,14 milioni di lavoratori retribuiti nel Terzo Settore.
Secondo l’Istat, in Italia ci sono ormai 350.492 istituzioni non profit, (+2,05% rispetto al 2016, +48,99% sul 2001), che impiegano 844.775 dipendenti (+3,9% sul 2016, +72,92% sul 2011). Più in dettaglio aumenta il peso delle istituzioni non profit rispetto al complesso del sistema produttivo nazionale (dal 5,8% del 2001 all’8,0% del 2017), ed aumenta il peso anche in termini di numero di dipendenti (dal 4,8% del 2001 al 7,0% del 2017). Inoltre, rispetto al 2016, la crescita del numero di istituzioni risulta più sostenuta al Sud (+3,1%), rispetto al Nord-Ovest (+2,4%) e al Centro (+2,3%)”.
Ed è così che quello che abbiamo definito come il business della benevolenza si candida a diventare soggetto datoriale nella concertazione con imprese private, governo e CgilCislUil con le quali le interazioni di interessi fanno il paio con la deriva ideologica che ha abbracciato la piena privatizzazione del welfare (vedi il welfare sanitario privato inserito nei contratti). Lì dove questo non appare sufficientemente profittabile, ecco intervenire il Terzo Settore e i finanziamenti pubblici che riceve da anni e che hanno ampiamente sostituito le donazioni volontarie, i crowfounding etc, che caratterizzavano nei decenni scorsi le associazioni di volontariato.
Nell’inchiesta che abbiamo condotto nei mesi scorsi sulle imprese del Terzo Settore, abbiamo cercato di mettere in evidenza come l’impetuosa crescita delle imprese sociali o no profit, sia stata del tutto speculare allo smantellamento del welfare pubblico e alle privatizzazioni. Non solo. Ha anche contribuito ad una regressione ideologica trasversale veicolata dall’intreccio tra organizzazioni religiose e Pd che ha rovesciato completamente il concetto di sussidiarietà tra pubblico e privato.
Il risultato è un verminaio che vede convivere buone intenzioni e profittatori e che ha visto consegnare i servizi sociali alla mano privata, anche se in alcuni casi mascherata da “privato sociale”, a nostro avviso un vero e proprio ossimoro.
Il welfare può e deve tornare pubblico, in ogni suo aspetto decisivo – da quello previdenziale ai servizi sociali, dal piano nazionale a quello locale – mettendo fine all’orrore della funzione dei servizi piegata alla loro profittabilità, delle esternalizzazioni, delle scandalose sotto-retribuzioni e della precarietà per chi ci lavora.
Il volontariato è tutt’altra cosa e comunque rischia di diventare un palliativo. Purtroppo ad aver sottolineato tale contraddizione sembra essere solo Papa Francesco proprio durante un convegno del Terzo Settore ad Assisi alcuni mesi fa, il quale ha definito il Terzo Settore e i modelli filantropici come tali e che “senza volerlo perpetuano le ingiustizie che intendono contrastare”.
A sinistra e nei sindacati ufficiali, al contrario, regna il silenzio, anzi la complicità.
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