Nella notte tra il 20 e il 21 agosto 1968 le truppe del Patto di Varsavia invasero massicciamente la Cecoslovacchia dove da qualche mese si sviluppava il “nuovo corso” del socialismo. A quell’azione militare non parteciparono però la Romania e l’Albania; quest’ultima che si era già allontanata dall’URSS, stringendo maggiori relazioni con la Cina, abbandonò pochi giorni dopo il Patto di Varsavia.
L’invasione della Cecoslovacchia è uno dei traumi più importanti che hanno colpito il mondo comunista nel Novecento. Sicuramente, si trattò di una frattura più significativa rispetto ai fatti di Budapest del 1956. Ciò perché il progetto di riforme iniziato sotto la direzione di Aleksandr Dubček era condiviso dalla grande maggioranza del Partito Comunista e del popolo cecoslovacco.
Tale processo, a differenza della rivolta ungherese, non aveva come obiettivo il sovvertimento del socialismo, né delle alleanze internazionali e dei rapporti d’amicizia e solidarietà con l’URSS.
Aleksandr Dubček, segretario del Partito, affermò nella sua relazione al Plenum del Comitato Centrale, a inizio aprile 1968: “In questa repubblica deve essere chiaro ad ognuno e tanto più ai membri del partito, che il programma non è quello di dar vita o sviluppare una qualsiasi democrazia, ma di dar vita e sviluppare una democrazia socialista; il problema non è quello di diminuire la funzione dirigente del partito, ma di realizzarla in modo veramente leninista”.[1]
Egualmente, nella stessa relazione, egli confermò l’importanza dell’alleanza con l’URSS.
Il progetto del Partito Comunista si articolava su due linee: una riguardante l’assetto politico del socialismo cecoslovacco e una relativa all’economia.
Per quanto riguarda il primo punto, si voleva aprire il paese a un maggiore dibattito democratico, alla possibilità di critica delle decisioni dei dirigenti del governo e del Partito e a una scelta più chiara e meno burocratizzata delle candidature al parlamento e ai ruoli dirigenti.
Rispetto alle questioni economiche, si ipotizzava una gestione meno centralistica dell’economia che, nel dibattito di quei mesi, non escludeva a priori, nelle tesi di alcuni, una cauta apertura al mercato che tuttavia non doveva mettere in discussione la pianificazione economica socialista. Un’idea che anticipava scelte in seguito effettuate in altri paesi ad economia pianificata a orientamento socialista.
Inoltre, pur nel mantenimento dei legami di solidarietà con l’URSS, il Partito Comunista della Cecoslovacchia, allora paese di grande sviluppo industriale, percepiva come troppo vincolante la divisione dei compiti produttivi assegnati ai diversi paesi dall’URSS nell’ambito del cosiddetto “campo socialista” .
Ciò che accadde in Cecoslovacchia nel 1968 fu il soffocamento di un tentativo di uscita comunque in direzione socialista dalla crisi che si annunciava nei paesi dell’est europeo che esplose venti anni dopo e che necessariamente prevedeva la messa in discussione del modello politico ed economico che l’URSS imponeva ai paesi del suo blocco.
Ma proprio per questo la dirigenza sovietica, ormai sulla strada tracciata da Breznev con la teoria della “sovranità limitata” dei paesi dell’est europeo, non volle accettare che ciò che accadeva a Praga era tutt’altro che dissoluzione del socialismo, bensì tentativo di innovarlo.
Un tentativo estremo di riformare e salvare sistemi politici vicini al crollo come quelli del blocco coagulato attorno all’URSS. Certamente, il progetto cecoslovacco non era esente da rischi, da possibilità di stravolgimento in direzioni imprevedibili, ma alla fine si ricollegava alla tradizione comunista sulla possibilità di percorsi diversi alle democrazie popolari pur nella continuità della solidarietà alla lotta contro l’imperialismo già ipotizzata da Dimitrov.
Furono pochi i partiti comunisti che nel mondo approvarono l’intervento del Patto di Varsavia, cioè quelli di Siria e Cile oltre a Cuba e Vietnam, che lo fecero soprattutto per la necessità di non rischiare di perdere il sostegno sovietico.
Si pronunciarono contro i partiti di Francia, Svezia, Norvegia, Finlandia, Spagna, Austria, Belgio, Romania (aderente al Patto di Varsavia), India, Marocco, Australia, Jugoslavia e soprattutto della Cina.
In Italia, la posizione del PCI fu abbastanza particolare poiché il partito, diretto allora da Luigi Longo, condannò l’intervento armato del Patto di Varsavia, ma diversi dirigenti, come Amendola e Pajetta erano poco convinti di tale posizione.
Così il PCI dapprima condannò decisamente, ma in qualche mese cominciò a considerare l’invasione della Cecoslovacchia un “errore” e non l’espressione chiara della teoria della sovranità limitata e della volontà di continuare a sottomettere ai progetti sovietici i paesi dell’Europa orientale.
I dirigenti del PCI temevano una frattura troppo pronunciata con il PCUS e si illudevano, forse, che la questione cecoslovacca si sarebbe risolta con la politica. Al contrario, fu conclusa a suon di espulsioni e repressione che costrinsero anche all’esilio alcuni dirigenti (non Dubček, segretario del Partito, dapprima inviato all’estero come ambasciatore, ma espulso non appena l’attenzione si placò e costretto poi a lavorare come manovale in Slovacchia).
In pratica, al di là delle prime accomodanti e propagandiste posizioni di Husak, nuovo segretario del Partito, si arrivò alla restaurazione della situazione pre-nuovo corso. Una posizione ambigua, quella del PCI, che creò, alla lunga, significativi danni anche allo stesso partito.
Quanto al movimento del ’68, che era nato nei mesi precedenti e che si stava consolidando, ma non era ancora organizzato nei gruppi della nuova sinistra, l’invasione della Cecoslovacchia segnò la rottura definitiva con l’URSS e il modello di socialismo praticato in Europa orientale.
Quel movimento guardava piuttosto alle esperienze guerrigliere del Sudamerica, ma soprattutto all’esperienza cinese. L’invasione della Cecoslovacchia, condannata dalla Cina, allargò il solco che divideva quest’ultima dall’URSS ed ebbe come conseguenza il crearsi, a livello mondiale, di due diversi schieramenti comunisti.
La “nuova sinistra” italiana scelse la Cina, una dislocazione che divenne strategica per tutti i decenni successivi sino alla dissoluzione dell’URSS. Confermata anche, nei fatti, dall’evidenza dei risultati cinesi confrontati con la decadenza progressiva dell’URSS e del suo blocco.
L’invasione della Cecoslovacchia contribuì evidentemente anche a rendere definitivamente inconciliabili i percorsi del PCI e della nuova sinistra.
Resta una grande amarezza, ripensando all’esperienza del nuovo corso cecoslovacco, quella di un’occasione mancata. Non possiamo sapere cosa sarebbe successo nell’Europa orientale se il processo inaugurato dal Partito Comunista Cecoslovacco non fosse stato stroncato militarmente, ma certamente è possibile pensare che forse la storia dei paesi del Patto di Varsavia e della stessa URSS avrebbe potuto essere diversa e migliore di quella che è stata.
Note
1) Aleksandr Dubček: Il nuovo corso in Cecoslovacchia, Roma, Editori Riuniti, 1968, p. 17.
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