di Francisco Soriano
La damnatio memoriae è uno spazio insondabile, un’ombrosa pianura senza alture né sentieri, un deserto lunare dove, ogni tanto, si ritrova sotto i propri passi una pietra di inciampo. È il caso di Adolfo Wildt, uno scultore sublime nel panorama artistico del primo Novecento: un periodo pregno di intensa ricerca in cui le avanguardie sperimentavano nuovi linguaggi nel tentativo di superare canoni ritenuti ormai desueti. Wildt non si lasciò annichilire dal timore della critica, tanto meno dalla possibilità dell’ostracismo virulento dei posteri, puntualmente subìto. La sua idea artistica si basò su una scelta radicale nel lavorare il marmo: ebbe come riferimenti culturali e valoriali per la creazione delle sue opere l’Ellenismo, il Manierismo, il Barocco ed elementi gotici che determinavano una rappresentazione fortemente drammatica. Le sue sculture, tuttavia, furono di una modernità strepitosa, simboliche e visionarie, caratterizzate da una qualità tecnica insuperabile in linea con la sua vocazione “artigianale” nelle modalità di intendere il mestiere di scultore.
Poverissimo fu costretto a guadagnarsi da vivere già all’età di nove anni come garzone nella bottega di un parrucchiere, prima di entrare nell’atelier di un orafo. Neppure adolescente mostrò, pur non avendo mezzi a disposizione per studiare, la sua straordinaria vocazione artistica disegnando sopra ogni straccio di carta con un pezzo di matita o carbone. A undici anni fu arruolato come sbozzatore nella bottega dell’incontrastato capostipite della scultura lombarda dell’800, nonché “scapigliato”: Giuseppe Grandi. In questa occasione Wildt subì il fascino della scultura, ma non fu influenzato dal maestro agli antipodi di quella che sarà, in futuro, la sua idea di arte. Successivamente a questo periodo, a tredici anni, lavorò presso la bottega di Federico Villa e, nel 1885, si iscrisse all’Accademia di Belle Arti di Brera per seguire un corso di Disegno e Figura. In una lettera a C. Siviero del 1915, Wildt ebbe a precisare: Fin da fanciullo, quando non era ancora decisa la mia carriera, ebbi un’adorazione pel marmo, ch’io non mi sono mai spiegata. Ricordo che, giovinetto abbracciavo i blocchi di marmo e dicevo, senza comprenderne il significato, che avrei dovuto domarli.
Nello studio di Federico Villa il giovane scultore vi rimase per quasi quattro anni, dal 1881 al 1884 ed ebbe tempo di mostrarsi al pubblico con un’opera dal nome Il Marinaretto, ritratto in marmo di un bambino in grandezza naturale: la scultura fu acquistata dall’imperatrice Elisabetta d’Austria per la somiglianza con il figlio. Molti scultori cominciarono a interessarsi al giovane Wildt, anche perché la sua opera di finitore era richiestissima nelle botteghe dei maggiori artisti. Un aneddoto tratto dalla biografia narra della sua perizia nello scolpire gli orecchi delle figure, qualità che all’epoca gli valse il soprannome “l’oregiatt”. Ancora oggi fra Corso Venezia e Villa Necchi Campiglio, a Milano, si può ammirare la scultura in bronzo di un orecchio installata nel 1927, al numero civico 10 di via Serbelloni, in una nicchia di fianco al portone del palazzo, conosciuto come: La Cà de l’Oreggia. Wildt infatti creò un protocifono che aveva la funzione di comunicare con la portineria. Tuttavia, la sua prima opera di rilievo fu La Vedova. La scultura è il ritratto della moglie Dina Borghi, che Wildt aveva sposato nel 1892. In quel periodo l’artista era un fiume in piena e cominciò a scolpire senza tregua. Eseguì il Monumento funebre alla famiglia Losa e partecipò all’Esposizione Straordinaria Nazionale presso il Palazzo della Permanente a Milano. In quegli stessi anni concluse altre tre opere: Piccola figura di spazzino, Ritratto di Rose e La Martire. Proprio durante la II Triennale di Brera presso il Palazzo sforzesco di Milano espose La Vedova, acquistata dalla Galleria d’Arte Moderna di Roma: in questo frangente conobbe Franz Rose, ricco cultore d’arte di origine prussiana che divenne suo amico, mentore e mecenate. Fu grazie a Franz Rose che l’artista cominciò a viaggiare, ammirare opere e ambienti finalmente al di fuori della provincia lombarda: presto ebbe la possibilità di conoscere dal vivo le opere di Adolf von Hildebrandt e del divo incontrastato Rodin. Rose gli garantiva un contratto annuale di quattromila lire e Wildt, finalmente sereno e sollevato dai sacrifici, si dedicò interamente alla sua idea di scultura. Il mecenate Rose dirottò le opere di Wildt nella propria residenza di Doehlau, nella Prussia orientale, conscio da subito della grandezza dello scultore: la villa divenne un museo di magnificenza rinascimentale.
Come spesso capita a ogni grande artista, Wildt attraversò una profonda e lunga crisi esistenziale che non gli impedì di scolpire capolavori come l’Autoritratto o Maschera del dolore, nel 1909: alcune delle caratteristiche principali delle sue sculture sono la forma svuotata, tridimensionale e posta saldamente sulla lastra bidimensionale di fondo, il color oro con i volti dalle orbite cave degli occhi. In Italia, lo scultore sembrava non riscuotere la considerazione che meritava, mentre all’estero il suo nome appariva nel Manuale di Storia dell’Arte di Hermann Erenberg, edito a Lipsia. Il periodo buio di Wildt viene testimoniato, artisticamente, nelle tre croci dell’Autoritratto – Maschera del dolore: per i critici, queste sue opere si caratterizzano per le ascendenze classiche cariche di valenze espressioniste, che esasperano l’anatomia dei corpi e rendono marcati i muscoli facciali nonché i contrasti in chiaroscuro. Dal 1910 al 1912 scolpirà i marmi Maschera dell’idiota, Vis Temporis acti (acquistato nel 1914 dal Museo di Könisberg) e la Trilogia, di chiara ispirazione simbolista. Vis temporis actis è un’opera straordinaria, espressionista, con elementi decorativi visionari come, ad esempio, i capezzoli in forma di fiori simboleggianti la vita.
Proprio nel 1912 realizza Carattere fiero Anima gentile e, a distanza di tre anni, completa la fontana monumentale o Trilogia. Wildt vive per la scultura e sembra essere poco interessato a ciò che accade all’esterno del suo studio; in questo senso, la testimonianza di Riccardo Giolli: Ci fu un momento, quand’era attaccato al masso di Candoglia da cui uscì la fontana che lo rivelò […] che, tra quelle dure oscure pareti dello stanzone squallido di via Garibaldi, restò a tal punto staccato dal mangiare, bere, dal dormire, dal parlare, che un giorno i familiari dovettero portarlo via a forza, come uno che non trovava più neppure la sua coscienza.
I riconoscimenti nei suoi confronti arrivarono finalmente: intellettuali, critici e artisti del tempo compresero quanto Wildt fosse stato innovativo per l’arte scultorea: i critici Raffaele Giolli e la potentissima Margherita Sarfatti, il pittore Gaetano Previati, l’editore Giovanni Scheiwiller e l’industriale Giuseppe Chierichetti che, nel 1919, gli commissionò per il Palazzo Berri-Meregalli la straordinaria Vittoria Alata. Fu sempre nel 1912, che Wildt ebbe il primo grande riconoscimento in patria, vincendo il prestigioso Premio Principe Umberto, di quattromila lire. L’opera Trilogia che vinse il premio era di tre tonnellate di marmo. Fu definita come stupefacente per la maestria del creatore, ma “oscura” seppur di grande impatto emotivo. Nel 1921 realizzò opere importantissime: Fontanella Santa, La Concezione e una serie di monumenti funerari oltre a due lapidi per i caduti della Pirelli e della Bocconi. Nel 1922 fu invitato alla Biennale di Venezia e, subito dopo, si dedicò alla sua Scuola dell’Arte del Marmo a Milano, insegnando ai suoi discepoli, gratuitamente, le “modalità” dello scolpire. Wildt decise di essere artista militante del regime fascista con l’adesione al movimento Novecento italiano, caldeggiato massicciamente da Margherita Sarfatti con il fine di promuovere una strada artistica “tutta” italiana secondo l’idea di un “ritorno all’ordine”. Per questo motivo, l’attività di Wildt si caratterizzò in quel periodo nella celebrazione delle gesta del regime, con il Ritratto di Mussolini più volte riprodotto in marmo e in bronzo, commissionati da Margherita Sarfatti, fra cui quello presso la Casa del Fascio di Milano, distrutto nell’aprile del 1945. Nel 1923, probabilmente all’apice del successo, scolpì Arturo Toscanini che avrà un successo memorabile (oggi conservato presso la Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma). Nel 1926 ottenne la cattedra di Scultura e Figura all’Accademia di Brera, dove avrà come allievi Lucio Fontana e Fausto Melotti.
Fra i suoi estimatori celebri D’Annunzio e Pirandello, per il quale realizzerà le maschere per la rappresentazione del dramma Sei personaggi in cerca d’autore. Nel 1929 entrò a far parte del Consiglio Superiore per le Antichità e Belle Arti e fu nominato Accademico d’Italia. La Quadriennale di Roma gli dedicò un’intera sala in onore della sua produzione. Da quel momento fu un susseguirsi di opere e acclamazioni, infine la partecipazione a Biennali in veste di giurato: seguiranno i successi con il San Francesco, il Filo d’oro, Margherita Sarfatti e il Puro folle. Nel 1931 si spense nella sua Milano; di lui scriverà Sironi: Scompare uno spirito delicato e umanissimo che sembrava raccogliere talvolta nello spirito, in un chiuso recesso di Milano, le trame più sottili, i sogni più umili, quasi intessuti di lagrime e pie meditazioni.
Come già affermato, gli anni ’20 furono decisivi per l’Europa e l’Italia nella ridefinizione di molti aspetti teorici che avrebbero condotto a un nuovo percorso nell’arte moderna: oltre all’Arte del marmo di Wildt, vennero pubblicati Il ritorno al mestiere di de Chirico e il famoso testo Du cubisme au classicisme, di Severini.
Quale idea di scultura spingeva Wildt a opere così maestose e uniche in questo contesto culturale? Come ben dice Elena Pontiggia nella sua postfazione al testo di Wildt, l’Arte del Marmo, l’idea portante dello scultore consistette nel concepire l’arte come nascente dall’originarietà e non dall’originalità. Dunque, i riferimenti del passato rimanevano all’orizzonte come archetipi stilistici imperituri, ma le soluzioni modernissime di Wildt assumevano significati inattesi ai critici del tempo sorprendendo chi, con tratti pregiudiziali, non si attendeva tale grado di innovazione dallo scultore. L’idea consisteva nel ritenere che in qualsiasi settore dell’arte e della poesia, nulla del passato poteva essere cancellato: non era possibile non attingervi e trovare, in quelle radici, la possibilità di una mutazione della “regola”. Di mutazione infatti si trattava, e non di trasformazione radicale della tradizione.
Un dibattito che si riproduceva in altri settori dell’arte come in poesia: infatti, citando un testo di E. A. Storer, Mirror of Illusions del 1919, dove si affermava che la poesia è antica come le montagne, e altrettanto nuova, Elena Pontiggia deduce quanto una certa idea di arte debba essere soprattutto esercizio e non mera istintività. Ineludibilmente, mestiere e tecnica nello sviluppo di una propria idea artistica si conciliano e si sovrappongono, determinando l’opera d’arte. Wildt con il suo retroterra culturale “antico” ben faceva capire, in una lettera a Ugo Ojetti nel 1928, quanto fosse lui stesso, ambiziosamente, rivolto al futuro: Studiamo i Maestri, teniamoli sempre davanti come guida, ma conseguiamo altra vetta senza toccare, senza manomettere, senza contaminare ciò che da loro è stato raggiunto. Con loro ho in comune solamente l’ansia di scolpire per il domani. Dal domani attendo la sanzione.
La diatriba talvolta con toni accesi interessava intellettuali e artisti di tutta Europa: da una parte permaneva una certa idea di continuità nei valori della tradizione e del passato, dall’altra le avanguardie spingevano a un totale cambio di rotta. In questo contesto, dunque, proprio gli avanguardisti nostrani protestavano acerrimamente contro il vizio organico, tutto italiano, di quella castrante idea di perfezione che impediva lo svecchiamento nell’arte, maldicendo addirittura il Rinascimento. Ad esempio, il titolo di un manifesto futurista così esordiva: Bombardiamo le accademie! In questa visione come in tanti altri aspetti teorici, tuttavia, l’intemperanza futurista nascondeva contraddizioni: nello specifico, quella di criticare allo stesso momento l’istituzione “scuola” come non abbastanza accademica, con la colpa di aver esaurito la propria spinta propulsiva nella società. Anche De Chirico, Severini, Sarfatti e Ojetti criticavano le “accademie” universitarie, da diversi punti di vista, accusandole sistematicamente: ritenevano che la criticità della didattica consisteva nella separazione, ad esempio, fra arti maggiori e minori e che ciò non rispondesse più a quello che si materializzava nelle botteghe antiche. Da ricordare che, il Bahaus, nato proprio nel 1919, faceva appello al riferimento della dimensione artigianale “come premessa indispensabile dell’arte” e su questa traccia produceva arte.
Fu per queste polemiche che Wildt, forse, sentì il bisogno di un testo sull’arte del marmo, dove veniva illustrata la sua visione in base a una nuova impostazione che superasse completamente l’impressionismo: sullo sfondo delle opere non c’era più la natura, ma gli strumenti del lavoro degli artisti, i luoghi dove le idee nascevano e si realizzavano per mano degli attori/artisti/artigiani. Era anche ciò che scuoteva i poeti del tempo: in poesia ci si appellava alla funzione più eletta fra tutte, cioè quella di modellare “artigianalmente” il testo, come era accaduto presso i provenzali fino a Eliot e Pound. Nei topoi della poesia le visioni venivano rappresentate con i criteri dettati dall’imagismo e dal vorticismo poundiano, in linea con le teorizzazioni del filosofo T. Hulme e riportate nel suo famoso Romanticismo e Classicismo del 1914. Gli imagisti desideravano una poesia dura e limpida, non confusa né indefinita e lo stesso Ezra Pound scriveva perentoriamente che la pietra di paragone di un’arte è la sua precisione. In ogni caso, anche per Wildt l’arte plastica era prima di tutto l’arte del marmo e coincideva con una forma precisa e potente. La stessa Margherita Sarfatti donna di potere e di rara sensibilità artistica delineò il linguaggio artistico nel segno nitido, puro, secco, chiaro, affilato, tagliente e risoluto […].
L’Arte del marmo di Adolfo Wildt è un libro concepito da uno scultore e un artigiano che vuole tradurre lo spirito di un corpo e realizzare l’immissione della sua anima nella materia. Le prime parole del testo introducevano l’arrivo di tre giovanissimi scultori che si presentarono a Wildt al fine di farsi consigliare, semplicemente, come lavorare il marmo. Wildt esprimeva sorpresa nell’apprendere che, nei percorsi didattici delle Accademie italiane, fra i tanti corsi approntati (prospettiva, disegno, storia, ecc.), non veniva previsto quello della lavorazione del marmo: lo scolpire. Pertanto, come introduzione all’arte del marmo, Wildt redigeva un vero e proprio decalogo: Dedizione piena della miglior parte di te all’opera tua; umiltà profonda dinanzi agli insegnamenti della natura; abbandono ribelle di tutte le consuetudini errate; sincerità e lealtà assolute; impeto nell’affrontare l’aspra materia; ardire nell’affidarsi alle tue ispirazioni; volontà paziente e indefessa al lavoro.
Il consiglio fondamentale risiedeva in una obbligata rinuncia da parte del neofita-scultore: nel partorire il concetto della mente nella materia stessa che lo ha da realizzare definitivamente, bisogna abbandonare totalmente il procedimento “solito” di modellare la statua fino al compimento della creta o nella plastilina per poi affidarla a un appuntatore che, con i suoi procedimenti geometrici, la traduca nel blocco di marmo, riserbando di dare un’ultima finitura. Dunque, Wildt escludeva nella creta “bruna” la possibilità che venisse conservata una efficacia plastica. Tale materia molle veniva infatti contrapposta alla – bianca riflettente dura – concretezza del marmo, che contiene tutta l’efficacia dell’opera plastica perché quest’ultima dipende dai rapporti d’ombra e di luce che sono dati dai rilievi e dalle cavità con cui l’artista ha forgiato la sua forma (impossibile che ciò avvenga nella muta creta […]).
L’amore e la relazione che Wildt aveva instaurato con la luce si possono ancor meglio dedurre quando afferma: Ecco la seconda trasformazione violentazione: l’opera è affidata a un abbozzatore di mestiere, perché cominci a tradurla nel marmo. Ed ecco che dal bianco atono e rigido del gesso, i rilievi sono meccanicamente e bestialmente trasportati nella nuova materia viva, sonora e splendida, dura ma non ispida come il gesso, anzi docile e blanda alla carezza della luce. Nuova alterazione di tutti i valori di scuro e di chiaro e quindi dell’effetto generale.
Da queste prime battute si evince quanto, per questo straordinario artista, sia indispensabile e irrinunciabile la dimensione manuale di un’opera e la funzione dirimente della luce (non è così anche nella fotografia e nella poesia?). Aspetti teorici in termini di valori artistici che sono in perfetta osmosi con l’artigianalità, senza la quale è impossibile tradurre in vita quella materia che, originariamente, ci appare inanimata.
Criticando le modalità di lavoro di molti scultori del tempo, Wildt ne deduce il risultato, definendo quei marmi come delle “caramelle succhiate” e rendendo l’idea di un aspetto viscido e insufficiente che assume la pietra marmorea quando traduce con meccanica esattezza i rilievi di un originario modello in creta. Nella continuazione della sua disamina, Wildt esaltava l’opera degli antichi Maestri, coloro i quali si recavano personalmente nelle cave, scegliendosi il blocco per l’opera che avevano in testa. L’arte del marmo è l’arte dello scolpire, e lo scultore che non sa scolpire è come il pittore che non sa dipingere, la sarta che non sa cucire o tagliare la stoffa. Una contraddizione in termini, un assurdo.
Non è tutto. La visione del luogo, della cava di marmo, come ad esempio quello delle Alpi apuane, è davvero eclatante e si concilia con l’opera in fieri: quivi tutto parla di magnificenza, della magnificenza e terribilità di questa materia, in cui noi siamo chiamati a immettere lo spirito vivificatore. Tutto è grande e aspro e solenne. Una volta giunta a destinazione, la materia sarà a disposizione dello scultore (con tanto di compassi e seghe), e consegnata nelle mani degli appuntatori e quadratori fino a quando, il vero artigiano-scultore, con risoluto coraggio e senza vane esitazioni, cominci con l’approfondire le cavità principalissime badando che ciascuna sia sempre varia dall’altre. Una regola su tutte: mai uscire da quell’equilibrio di vuoti e di pieni, che non è solo una legge fondamentale dell’arte, ma la legge plastica di tutta la vivente natura.
Dopo il lavoro di abbozzatura, Wildt affermava con parole di rara poesia, quanto fosse importante l’equilibrio del proprio corpo con la lavorazione della materia: maneggia il violino con mano ferma e nervosa, ma non priva di agibilità e garbo […]. La volgarità e la gentilezza stessa degli atti delle nostre membra nel lavoro par che si tramandi, ed effettivamente si tramanda, nel carattere finale dell’opera. Dopo aver enucleato i vari espedienti tecnici dello scolpire, inclusa la colorazione del marmo se necessaria, Wildt avvertiva sulla ineluttabile funzione degli strumenti, da buon artigiano: e trattili meco nel cortiletto dietro il mio studio, mostrai loro in un canto la mia piccola fucina […]. I ferri sian sempre foggiati in linee eleganti e suasive all’occhio: ché questa che chiamiamo eleganza e bellezza altro non è se non il segno che l’organo ha trovato la forma pienamente atta alla funzione sua – oltreché giova sempre all’artefice non essere, nella sua creazione di bellezza da alcun urto di cosa brutta o comunque contraria al suo anelito.
In queste ultime battute, dove si esalta l’eleganza e la bellezza come segno che l’organo ha trovato la forma pienamente atta alla funzione sua, ho trovato un senso del nostro voler fare arte che, forse, con il tempo abbiamo smarrito. Senza incorrere in retoriche futili o dare la sensazione di assumere una condizione nostalgica e di favore verso un passato ormai inconciliabile con il nostro futuro, è necessario riflettere su questo testo umanissimo, poetico e inesorabile di Wildt. Le parole dello scultore lombardo mi hanno presto ricondotto alle parole-dedica di Eliot rivolte a Pound nella sua Terra desolata: al miglior artigiano. In ogni arte che si definisca tale l’elemento artigianale, corporale e biologico è parte integrante dell’opera, definita e partorita affinché lo spirito sia presente nella “cosa” che più conta: il corpo. Che sia pietra, scrittura o altro, in nome di una bellezza che sia davvero eterna.
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