Sulla stampa americana circola con insistenza negli ultimi giorni la notizia di un possibile imminente “mini-accordo” tra Iran e Stati Uniti per riportare un minimo di stabilità nei rapporti tra i due paesi nemici ed evitare l’esplosione di un nuovo conflitto in Medio Oriente. Questi sviluppi sarebbero il risultato di colloqui segreti diretti iniziati a partire dallo scorso mese di maggio a Muscat, la capitale del sultanato dell’Oman. I contenuti della possibile intesa non sono del tutto chiari, ma, se i negoziati dovessero andare a buon fine, è probabile che possa avere luogo uno scambio di detenuti. In seguito Teheran potrebbe impegnarsi a non superare una certa soglia nel processo di arricchimento dell’uranio in cambio della sospensione di almeno una parte delle sanzioni economiche imposte da Washington.
L’ipotesi di accordo segue un periodo di estrema tensione nelle relazioni con la Repubblica Islamica. La morte, mentre era in custodia della polizia iraniana, della 22enne Mahsa Amini lo scorso settembre aveva fatto esplodere violente proteste in molte città e i fatti erano stati subito sfruttati dai governi occidentali per rialimentare il caos nel paese mediorientale. Più recentemente, lo scontro si era infiammato a causa di sequestri reciproci di petroliere nelle acque del Mare Arabico e del Golfo dell’Oman.
Il “file” del programma nucleare iraniano era stato infine riaperto, suscitando una valanga di accuse nei confronti di Teheran. Su istigazione di Israele e con il consenso americano, l’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (AIEA) aveva affermato di avere riscontrato in un impianto iraniano la presenza di tracce di uranio a un livello di arricchimento molto vicino a quello necessario per la costruzione di un’arma nucleare.
Lo scenario che si stava delineando sembrava riproporre la solita escalation di minacce e fare aumentare pericolosamente il rischio di un conflitto armato attorno al nucleare iraniano. A fine maggio, invece, l’AIEA aveva a sorpresa chiuso la questione, scagionando completamente la Repubblica Islamica. Visto il grado di politicizzazione dell’AIEA, quest’ultima iniziativa doveva in effetti suggerire un qualche cambiamento nell’aria e, infatti, nelle settimane successive le voci di un accordo parziale tra USA e Iran si sono fatte più insistenti.
È importante notare come quella in discussione non sia la riproposizione dell’accordo sul nucleare (JCPOA), sottoscritto nel 2015 a Vienna e abbandonato unilateralmente dall’amministrazione Trump nel 2018. Biden si era impegnato a riesumare questa intesa, ma i vari round di colloqui seguiti al suo insediamento alla Casa Bianca sono stati infruttuosi. L’amministrazione democratica ha mostrato di non avere la volontà politica per rimettere in piedi l’accordo, sia per timore della reazione del Congresso americano dominato da “falchi” anti-iraniani sia per assecondare le posizioni di Israele.
La parabola dei rapporti tra Stati Uniti e Iran fatica quindi a spiegare le ragioni del possibile accordo ora allo studio, se non addirittura in fase di finalizzazione. Alcuni osservatori hanno riproposto la tesi della necessità, da parte di Washington, di offrire qualche incentivo alla Repubblica Islamica nel tentativo quanto meno di rallentare il processo di integrazione economico-strategica con Russia e Cina. Da parte iraniana non ci sono tuttavia illusioni sull’affidabilità americana, né d’altra parte gli USA hanno molto da offrire per convincere il governo di Teheran a girare le spalle a Mosca e Pechino.
Le ambizioni americane potrebbero essere perciò molto più contenute. Un’analisi pubblicata questa settimana dalla testata on-line libanese The Cradle spiega come Biden intenda sostanzialmente fermare l’aumento del livello di arricchimento dell’uranio iraniano “senza [scatenare] un conflitto militare”. Il precipitare della situazione in Medio Oriente sarebbe infatti l’ultima cosa che Washington desidera in questo frangente, dal momento che gli Stati Uniti “sono coinvolti nella crisi russo-ucraina” e le tensioni con la Cina hanno raggiunto un livello quasi senza precedenti.
Queste preoccupazioni sono legate in primo luogo a una possibile iniziativa militare di Israele che rischierebbe di scatenare una guerra su vasta scala nella regione. Le ansie americane per una simile eventualità sono giustificate, visto che il governo di estrema destra di Netanyahu si trova a dover fronteggiare una crisi politica dopo l’altra sul fronte interno e potrebbe utilizzare un’aggressione contro l’Iran come valvola di sfogo per superare le divisioni e ricompattare il paese.
In assenza di un qualche accordo con Teheran, l’amministrazione Biden si ritroverebbe davanti a una serie di opzioni poco incoraggianti. Oltre alla possibile soluzione militare israeliana, l’alternativa sarebbe l’intensificazione delle sanzioni o una nuova campagna di destabilizzazione per provocare proteste anti-governative. Questi tentativi, spiega ancora The Cradle, sono però già stati fatti e non hanno dato nessun risultato. Anzi, la politica della “massima pressione” ha spinto ancora di più l’Iran verso Russia e Cina, nonché consolidato la posizione di Tehran come fulcro della “resistenza” in Medio Oriente.
A livello concreto, l’eventuale “mini-accordo” potrebbe prevedere l’imposizione di un limite all’arricchimento dell’uranio da parte dell’Iran, ad esempio al 60%, così da tenere ben lontana la soglia teoricamente necessaria per ottenere un’arma nucleare (90-95%). In cambio, gli USA potrebbero cancellare una parte delle sanzioni in vigore e liberare alcuni fondi iraniani congelati all’estero. Già nei giorni scorsi la Casa Bianca ha autorizzato il trasferimento di circa tre miliardi di dollari dall’Iraq per il pagamento di forniture di gas ed elettricità.
Qualunque sia l’esito dei colloqui in Oman, è evidente che gli Stati Uniti hanno perso da tempo la capacità di influenzare le vicende relative all’Iran. Avendo rinunciato precocemente a ripristinare il JCPOA dopo il boicottaggio di Trump, l’amministrazione Biden ha visto la nuova leadership della Repubblica Islamica perdere interesse nelle trattative con l’Occidente e rivolgersi decisamente verso le più vantaggiose dinamiche euroasiatiche promosse da Russia e Cina.
Ciò che rimane a Washington è la velleità di intercettare l’attenzione di Teheran agitando l’incentivo della sospensione delle sanzioni, nella speranza che Netanyahu rinunci a un’opzione militare che incendierebbe l’intero Medio Oriente con conseguenze catastrofiche per gli stessi interessi strategici degli Stati Uniti e dello stato ebraico.
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