di Gioacchino Toni
Perché riferirsi, oggi, a Spoon River? Innanzitutto, scrive Antonello Mangano, La Spoon River dei braccianti (Meltemi, 2023), per assumere, ancora una volta, un punto di vista mancante, quello degli sconfitti ridotti altrimenti all’invisibilità. Inoltre, continua l’autore, in questo caso può essere utile anche per rompere quella «monocultura razzista» di matrice leghista che, in un disinvolto alternarsi di separatismo e sovranismo nazionalista, imperversa in Italia ormai da diversi decenni prendendo di mira, di volta in volta, «l’insegnante meridionale, l’ambulante senegalese, il pusher arabo, il burocrate romano, l’africano invasore, il negoziante pakistano, l’imam musulmano, lo zingaro del campo o l’infermiere napoletano» (p.13). Nemici fittizi, stereotipi che hanno saputo solleticare l’animo razzista di un popolo che non ha nemmeno saputo e voluto fare i conti con il suo vergognoso passato coloniale limitandosi, semplicemente, a rimuoverlo continuando a raccontarsi lo stucchevole mito degli “italiani brava gente”.
Autore di ricerche, inchieste e saggi sui temi di migrazione e lotta alla mafia, fondatore di “Terrelibere.org” ed autore di Gli africani salveranno Rosarno (Terrelibere.org, 2009), Gli africani salveranno l’Italia (Rizzoli, 2010), Ghetto Economy (Terrelibere.org, 2014) e Lo sfruttamento nel piatto (Laterza, 2020), Antonello Mangano raccoglie in questo suo ultimo libro, una sorta di Antologia di Spoon River, le storie di braccianti morti a causa della loro condizione lavorativa in questo Belpaese che ama, ormai da qualche tempo, raccontarsi e nascondersi dietro a un altro mito, quello patinato del “Made in Italy”.
Che si tratti o meno di migranti, di italiani o di stranieri, di uomini o donne, le storie di questi diversi esseri umani finiscono per accomunarsi nella morte derivata, in fin dei conti, dallo sfruttamento lavorativo in agricoltura che rivela in filigrana una società italiana attraversata dal razzismo, da un’economia di stampo tribale condotta da imprenditori improvvisati quanto onnipotenti che, nel loro mondo chiuso, non riescono a percepirsi come cinici sfruttatori di altri esseri umani.
Le campagne, tuttavia, non sono abitate da “schiavi” privi di consapevolezza; dopo la morte di Gassama Gora, investito mentre si spostava in bicicletta a Rosarno, nel protestare per la sua morte, gli altri braccianti di colore hanno riportato sui cartelli innalzati le parole “Black lives matters” scandite dagli afroamericani nei lontani Stati Uniti. Per quanto siano luoghi chiusi, ormai anche i più sperduti campi italiani sono connessi alle lotte globali e libri come questo di Mangano possono contribuire non solo a far sì che le singole morti sul lavoro non restino nascoste, ma anche alla diffusione delle lotte e della solidarietà tra sfruttati.
In un panorama nazionale che tende a rendere chi viene selvaggiamente sfruttato/a invisibile, anche attraverso una riduzione, soprattutto nei casi di migranti, a “massa indistinta”, meritano di essere chiamati per nome e raccontati uno ad uno questi esseri umani sfruttati e morti di/sul lavoro nei campi italiani.
Adnad Siddique, nato a Lahore, Pakistan, il 10 febbraio 1988 è stato ucciso, a 32 anni, con ventisei coltellate a Caltanissetta, Italia, il 3 giugno 2020, per aver accompagnato alcuni amici a denunciare i caporali dei campi del sud della Sicilia.
Jerri Essan Maslo, nato a Umtata, Sudafrica, il 4 dicembre 1959, ucciso a 30 anni nel corso di una rapina a Villa Literno, Italia, il 25 agosto 1989, era un rifugiato sudafricano a cui lo Stato italiano aveva negato i documenti, costringendolo a sopravvivere da sfruttato nell’inferno della raccolta dei pomodori.
Soumalia Sacko, nato a Sambacanou, Mali, il 1° gennaio 1989 e ucciso a 29 anni con quattro colpi di fucile alla testa mentre raccoglieva lamiere nella campagna calabrese di San Calogero, Italia, il 2 giugno 2018, era un bracciante e un sindacalista costretto a vivere nel ghetto di Rosarno-San Ferdinando dopo essersi visto rifiutare la richiesta d’asilo.
Becky Moses, nata a Nassarawa, Nigeria, l’11 gennaio 1992 e bruciata viva a 26 anni nel ghetto di San Ferdinando, Italia, il 27 gennaio 2018, era sfuggita a un matrimonio forzato in Nigeria e si è vista negare il diritto d’asilo in Italia.
Ioan Puscasu, nato a Costești, Romania, nel 1968 e morto a 47 anni nei pressi di una serra dove lavorava in nero a Carmagnola, Torino, Italia, il 17 luglio 2015, è stato spostato da cadavere dai suoi sfruttatori per dimostrare che non lavorava da loro.
Mamadou Sare, nato in Burkina Faso nel 1978 è stato ucciso a fucilate a 37 anni nei campi in cui lavorava a Lucera, Foggia, Italia, il 21 settembre 2015, dopo una lunga caccia all’uomo, per aver osato appropriarsi di due meloni marci per far fronte alla fame.
Mohamed Abdullah, nato in Sudan nel 1968 è morto stremato di caldo e fatica a 47 anni nelle campagne salentine di Nardò, Lecce, Italia, il 20 luglio 2015, ove raccoglieva pomodori per i grandi marchi del “Made in Italy” sperando di poter dare un futuro migliore alla figlia.
Paola Clemente, nata a San Giorgio Jonico, Taranto, Italia, nel 1966 è morta distrutta da una vita di sfruttamento nelle filiere internali a 49 anni ad Andria, Italia, il 13 luglio 2015, sognando un avvenire migliore per i figli.
Dopo aver dato spazio alle singole storie di questi esseri umani, Mangano ricorda chi ha perso la vita in incidenti stradali occorsi mentre andava al lavoro o faceva ritorno da esso. Racconta della morte di un gruppo di braccianti romeni nelle campagne calabresi, di altri investiti nel ragusano o tra la zona industriale e il porto di Gioia Tauro e di diversi incidenti in cui hanno perso la vita braccianti sulle strade del foggiano o in Veneto.
L’autore ricorda poi le braccianti, soprattutto straniere, uccise in situazioni di degrado lavorativo e abitativo a cui sono spesso costrette nelle campagne italiane ove allo sfruttamento lavorativo vedono aggiungersi molestie, ricatti e violenze sessuali. Nell’inferno dei ghetti, inoltre, si può morire di incendi, di caldo o di freddo, di mancanza di cure mediche, ma anche di tragiche incomprensioni, di equivoci e di pregiudizi durante i controlli delle forze dell’ordine o per mano della violenza che domina i territori e che facilmente si scarica sui più deboli.
Un libro come questo è a rischio manicheismo. Da un lato padroni feroci, dall’altro migranti vittime. La realtà è ovviamente molto più articolata. Gli agricoltori di queste storie non sono rappresentativi della categoria. Ma gli spunti che emergono sono molto interessanti. Per prima cosa sono persone anziane. Spesso i figli studiano per fare altro. Alcuni, specie nel Nord Italia, sono ricchi, altri galleggiano come possono. Tutti hanno in comune una vita nel loro piccolo mondo isolato. […] Non si considerano sfruttatori. […] Il lavoro è una religione. Timorosi delle spese e delle tasse […] Ma come si rapportano agli stranieri? Con una sostanziale diffidenza: sono utili ma non sono come noi. Spesso la distanza sfocia nel razzismo […] Chi fa domande è un ficcanaso, uno che non si fa gli affari suoi. Qualcuno a metà tra una spia e un militare della Guardia di Finanza. Per quanto riguarda la comunicazione aziendale, basta qualche bella foto su Facebook, un cesto di frutta baciato dal sole, ma finisce lì. Il resto sono “cavoli nostri”. E la colpa è sempre degli altri. Anche quando si usano i neri come tiro al bersaglio. Sparano i proprietari di un campo di angurie, convinti di esercitare un diritto. Sparano i custodi (abusivi) delle lamiere abbandonate nella “Fornace Tranquilla” (pp. 147-148).
Già negli anni Ottanta, ricorda Mangano, i giornali tendono ad associare immigrazione, criminalità e degrado. «Un feroce razzismo di fondo anima i cronisti, che coniano e usano termini spregiativi» (p. 149). Insomma, le morti nelle campagne italiane hanno radici profonde. Quel che certo è che i miti degli italiani brava gente e del “Made in Italy” nascondono una realtà che non si vuole vedere né, tantomeno, risolvere.
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