Prima Moratti, poi Gelmini: efficientismo aziendalista, competizione interuniversitaria, burocratizzazione spinta, valutazione quantitativa, precariato lavorativo. E tanti tagli. I più draconiani di sempre. Meno 1,3 miliardi di euro all’anno, su un totale di 7,4 miliardi. Un colpo quasi mortale, testimoniato dal crollo del numero dei professori, dei ricercatori, dei collaboratori linguistici, del personale tecnico-amministrativo. Per non dire delle gravissime ripercussioni su immatricolazioni e laureati.
Uscire dalla disastrosa crisi economica del 2007-2008 scaricandone il costo sulla cultura e sulla ricerca scientifica: impossibile immaginare una visione politica più ottusa. Illudersi di salvare il Paese distruggendone la capacità di futuro. Anche questo è stato Silvio Berlusconi.
Il risultato è un sistema universitario che si regge, oggi, sul precariato lavorativo, che umilia la libertà didattica e di ricerca, che laurea in prevalenza figli di laureati, che – colmo dell’autolesionismo – spinge laureati e persino dottori di ricerca a cercare all’estero uno sbocco alle proprie conoscenze e capacità lavorative. Sosteniamo il costo della formazione di alcuni tra i più qualificati lavoratori tedeschi, inglesi, statunitensi: una vera assurdità, anche in termini grettamente economici.
Il disprezzo della cultura, il rifiuto della riflessione critica, il dileggio dell’originalità di pensiero sono stati, d’altronde, la costante del berlusconismo: una visione della società il cui orizzonte culturale non è mai andato oltre al livello della barzelletta. «Con la cultura non si mangia» è uno dei più noti slogan dei suoi anni. Di qui, la ridicola idea della scuola delle tre “i”: impresa, informatica, inglese. Un’idea per la quale compito della scuola non è formare cittadini consapevoli, come progettavano Piero Calamandrei, Costantino Mortati, Concetto Marchesi e Aldo Moro, ma produrre lavoratori disciplinati, immediatamente “spendibili” al servizio delle imprese. Come se il mondo del lavoro vivesse in un tempo immobile e ciò che davvero conta non fosse l’acquisizione di un metodo di apprendimento che consenta di mantenersi sempre aggiornati.
Disprezzo e ignoranza. Questo è stato il rapporto di Berlusconi con la cultura. È dunque particolarmente significativo che in questi giorni indegni, in cui l’intero sistema istituzionale si genuflette al cospetto del suo devastatore morale e politico, la sola voce dissonante di una qualche consistenza si levi proprio da un’università. Una delle più piccole università italiane, l’Università per stranieri di Siena, che per voce del suo rettore Tomaso Montanari ha proferito, garbato ma fermo, il suo «preferirei di no». Un no argomentato, come sempre dovrebbero essere le prese di posizione pubbliche, volto a respingere l’osceno tentativo di trasformare la morte di un capo-fazione in motivo di lutto nazionale. Una risposta istituzionale alla provocazione politica di chi ha preteso l’inchino della Repubblica al suo vandalizzatore.
È stato l’aver impedito questa pretesa a far impazzire di rabbia i famigli di Arcore rimasti orfani del loro dominus. Se la dignità delle istituzioni non è andata perduta, lo dobbiamo, oltre che ai tanti italiani sgomenti di fronte a quanto sta accadendo con l’avallo delle più alte cariche della Repubblica, a quel piccolo ateneo di provincia, che, con disciplina e onore (art. 54 Cost.), ha rifiutato di ammainare la bandiera che simboleggia la Repubblica.
In un tragicomico ribaltamento dei ruoli, tra i più fedeli seguaci dell’uomo che ha passato la sua vita politica a fuggire dalla giustizia, c’è ora chi invoca il codice penale contro il rettore Montanari, pretendendo di estendere in via interpretativa la portata, tassativa per Costituzione, della norma sancita nell’art. 650 c.p. (Inosservanza dei provvedimenti dell’autorità). Una norma tesa a colpire chi, disobbedendo a ordini delle autorità di pubblica sicurezza basati sulla legge (provvedimenti del giudice, ordinanze contingibili e urgenti, ecc.), metta a repentaglio interessi collettivi quali la giustizia, la sicurezza pubblica, l’ordine pubblico o l’igiene pubblica: che, dunque, nulla hanno a che vedere con il lutto nazionale. Nel caso di specie, e senza nemmeno il bisogno di scomodare l’autonomia universitaria (art. 33 Cost.), è evidente il carattere politico della decisione governativa sul lutto, che ha per base normativa esclusivamente la circolare della Presidenza del Consiglio dei Ministri 18 dicembre 2002, n. UCE/3.3.13/1/5654: una fonte senza dubbio inidonea – siamo all’abc del diritto – a determinare la comminazione di sanzioni penali.
È incredibile come nemmeno la morte riesca a porre fine alla farsa in cui annaspiamo da trent’anni.
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