Pochi generi musicali vantano una storia tragica come il grunge. Con le scomparse negli ultimi anni di Chris Cornell, Mark Lanegan e Taylor Hawkins, che si aggiungono a quelle già numerose dagli anni 90,
la scena di Seattle non teme più rivali in fatto di eroi da piangere e
glorificare. A ben vedere, il senso di tragedia e quello di comunità che
pervadono la corrente la accompagnano però sin dai suoi albori.
Anche
grazie all’amicizia che univa e (nei casi più fortunati) ancora unisce
tantissimi interpreti grunge ancor prima della musica, il genere ha
osservato le sue band scambiarsi di membri, adoperarsi in numerosi side project
e collaborare le une alla realizzazione dei dischi delle altre, sin dai
suoi primi vagiti. In un contesto così fluido e solidale la formazione
di un cosiddetto "supergruppo"
può addirittura avvenire in contemporanea alla genesi di una delle band
che lo costituiscono. È il caso proprio dei Temple Of The Dog, il cui
primo, unico e omonimo disco precede di qualche mese un’altra pietra
miliare, quell' imprescindibile esordio dei Pearl Jam intitolato “Ten” (Epic, 1991).
I
Temple Of The Dog sono durati molto poco, circa due anni e un disco
soltanto, che al di là del suo enorme valore musicale ha quello di
rappresentare per primo la statura straordinaria di una comunità di
persone ancor prima che di musicisti. Sono durati poco perché hanno
dovuto assolvere un tributo di amore e stima nei confronti di un amico e
membro attivo della scena locale – prima che qualsiasi riflettore fosse
puntato su Seattle – prematuramente scomparso.
Nel
1990 Andrew Wood, ex-componente dei Malfunkshun e leader dei Mother
Love Bone, morì per overdose di eroina, a ventiquattro anni. Insieme a
Mark Lanegan e Mark Arm,
Wood era stato uno dei principali ispiratori dell’onda grunge che di lì
a poco avrebbe travolto il mondo intero. La morte del musicista
originario di Columbus, in Ohio, scosse profondamente la comunità underground dello stato del Washington. Alcuni dei suoi amici più cari si strinsero sotto il moniker
Temple Of The Dog, nome ricavato da un verso di “Man Of Golden Words”
dello stesso Wood, per dedicargli uno dei requiem più preziosi della
storia del rock alternativo americano.
Durante la veglia per Wood,
il desiderio di celebrare quell’unione speciale di musicisti attiva nel
Pacific Northwest fece germogliare al giornalista musicale e regista
Cameron Crowe - marito di Nancy Wilson delle Heart – anche l’idea di
realizzare il film “Singles” (1992), una commedia ambientata dentro la
scena di Seattle e sviluppata tra i suoi locali, per la quale Chris Cornell compose un nuovo brano e alla quale parteciparono Mother Love Bone, Pearl Jam, Soundgarden, Mudhoney, Smashing Pumpkins e gli Alice In Chains poco prima della consacrazione di “Dirt” (Columbia, 1992); nel disco compaiono inoltre le musiche originali composte da Paul Westerberg dei Replacements.
A dare il La alla nascita della band fu il compagno di camera e amico di
una vita Cornell, già attivo da un buon lustro con i Soundgarden, ma
ancora lontano dal successo planetario che sarebbe arrivato molto presto
con “Badmotorfinger” (A&M, 1991) prima e “Superunknown” poi (A&M, 1994). Cornell scrisse due canzoni in memoria di Wood, l’opening track dell’omonimo album “Say Hello 2 Heaven” – con quel riff
che diventerà così familiarmente Soundgarden dopo il successo
planetario del 1994 – e “Reach Down”. La sua intenzione iniziale era di
farne un singolo e per realizzarlo coinvolse il bassista e il
chitarrista dei Mother Love Bone, rispettivamente Jeff Ament e Stone
Gossard. Accoppiati sin dall’esperienza nei Green River
di Mark Arm, i due avevano dato vita da pochissimo a un nuovo progetto,
destinato anch’esso a fare la storia del grunge, i Pearl Jam.
La
sintonia tra i tre e l’amore condiviso per Wood portarono subito nuove
idee per nuovi brani, per i quali i musicisti chiamarono a raccolta Matt
Cameron, batterista dei Soundgarden (e attualmente anche dei Pearl
Jam), e Mike McCready, l’altro chitarrista dei Pearl Jam. A questi
ultimi si era unito da pochissimo il cantante Eddie Vedder,
che fu dunque impiegato per i cori e per il controcanto d’eccezione a
Cornell in “Pushin' Forward Back”, “Your Saviour” e “Four Walled World”,
mentre in “Hunger Strike” i due si scambiarono di ruolo, lasciando
progressivamente Cornell il cantato a Vedder per fargli poi da rinforzo.
Con questi presupposti è chiaro perché i Temple Of The Dog siano
considerati dai più un supergruppo. E in un certo qual modo lo erano, ma
in maniera inconsapevole. Per quanto ne sapessero Cornell, Ament,
Gossard Cameron, McCready e Vedder quando realizzarono “Temple Of The
Dog” erano soltanto un gruppo di amici unito dal dolore per la perdita
di un compagno d’avventura e dall’appartenenza a una scena che ancora
non aveva registrato grandi numeri commerciali e (nemmeno immaginava
quanti ne avrebbe avuti) scosso una generazione, la cosiddetta
Generazione X.
Nonostante ottimi riscontri critici, alla sua uscita
“Temple Of The Dog” non registrò vendite eccezionali, attestandosi nel
1991 intorno alle 70.000 copie negli Stati Uniti. Accadde soltanto un
anno dopo, quando la A&M approfittò del successo dilagante dei vari
“Ten”, “Nevermind”
(DGC, 1991) e “Badmotorfinger” per rilanciarlo sul mercato: quando i
Temple Of The Dog potevano ormai definirsi a tutti gli effetti una
superband, il disco si piazzò nella Top 100 di Billboard.
Stilisticamente
l’album non può che suonare come un incrocio tra il grunge giovane dei
Pearl Jam e la pesantezza ossessiva dei Soundgarden, seppur con meno
ascendenze metal. Tuttavia, per spurgarsi dal dolore, per esorcizzare la
perdita dell’amico fraterno, Cornell veste i suoi canti funebri di
calde sfumature soul, che emergono con gran chiarezza nelle numerose ballad
del disco. Allo stesso tempo, McCready e Gossard tradiscono, come
faranno in numerosi frangenti della carriera con la band madre, una
propensione tutta blues per lunghe e scatenate cavalcate chitarristiche.
“Temple
Of The Dog” inizia con la canzone che Cornell non avrebbe mai voluto
scrivere o cantare: “Say Hello 2 Heaven”. Lo mette bene in chiaro
nell’ultima strofa quando canta:
I, I never wanted
To write these words down for you
With the pages of phrases
Of all the things we'll never do
Hey, so I blow out, out the candle and I put you to bed
Since you can't say to me now
How the dog broke your bone
There's just one thing left to be said
A'say hello to heaven, to heaven, yeah
E sembra voler accompagnare Andy Wood fin su in paradiso, tanto va in alto con la sua voce morbida come velluto e forte come una quercia secolare, raggiungendo G above high C (il Sol sopra il Do acuto). Le chitarre, ruvide, rugginose, non possono che ammirare questo volo dal basso, in cui reiterano le loro trame luttuose in un arazzo grunge che farà scuola.
Il brano successivo compie una virata decisa verso sonorità più dure e
granulose. Secondo di due canzoni scritte da Cornell in memoria di Wood
nelle due settimane successive alla letale overdose, “Reach Down” non
soltanto incupisce e rende claustrofobica l’atmosfera del disco, quasi a
voler mettere in scena l’abisso della dipendenza da narcotici, ma con
la sua lunghissima durata di oltre undici minuti assume quasi i
connotati di una jam session. Le strofe e il potente ritornello sono due isole in un oceano ribollente di assoli di chitarra ritmati dal drumming tonante di Cameron e fraseggi via via più psichedelici. È qui che i futuri Pearl Jam mettono in chiaro la discendenza blues e l’adesione al culto di Neil Young e Crazy Horse.
La ballad
“Hunger Strike”, scelta come singolo e videoclip del disco, diventerà
il documento immortale dei Temple of The Dog, indelebile inno di una
generazione e di un sentire al pari di “Jeremy”, “Smells Like Teen
Spirit” e “Black Hole Sun”. Le poche, semplici note dell’arpeggio
portante sono state risuonate da migliaia di ragazzi e ragazze in tutto
il mondo con l’idea di vivere insieme e condividere un senso di disagio,
rabbia e (già) malinconia reiterato nel refrain “I'm goin' hungry” cantato da Cornell e Vedder, che quasi si astrae da tutto il brano rimanendone la quintessenza:
I don’t mind stealin’ bread from the mouths of decadentsÈ come se “Hunger Strike”, in fondo, stesse già rappresentando e rendendo tangibile tutto quello che sarebbe successo, andando a fondo nel dolore in preda alle dipendenze e a traumi mai superati, come nel caso di Cornell.
But I can't feed on the powerless when my cup's already overfilled, yeah
But it’s on the table, the fire’s cookin’
And they’re farmin’ babies, while slaves are workin’
The blood is on the table and the mouths are chokin’
But I’m goin’ hungry, yeah
La successiva “Pushin' Forward Back” sembra proprio voler dare uno spintone alla manifesta fragilità espressa in precedenza, con un altro riff hard-rock al cardiopalmo e il canto bluesy furente di Cornell. Si torna però a rallentare tutto e ad abbassare il volume con tre brani più quieti. Con la sua impalcatura da piano ballad e il tono solenne da classico rock, “Call Me A Dog” è uno dei brani più struggenti di “Temple Of The Dog”. Anche qui Cornell vola altissimo, nell’accorato ritornello di un testo dedicato tanto alla turbolenta relazione con la manager dei Soundgarden (e degli Alice In Chains) e futura moglie Susan Silver, quanto al fastidio provato di fronte alle etichette affibbiate dalla stampa alla nascente scena di Seattle – tra cui proprio “grunge”, termine inviso al musicista e ad altri interpreti del movimento. Chiamati in questo brano a un gioco di fino, McCready e Gossard ricamano sofisticati disegni di chitarra, mentre Gossard e Ament garantiscono la micidiale spinta a uno dei crescendo più emozionanti mai offerti dalla voce di Cornell.
Il blues semi-acustico di “Times Of Trouble” e di “Wooden Jesus” si spalancano su “Your Saviour”, hard-rock al vetriolo di ascendenza Led Zeppelin, che concentra in una durata molto più contenuta, circa quattro minuti, le stesse scosse telluriche della batteria di Cameron e una danza concitata di riff secchi e velenosi. Nell’ultimo minuto le chitarre e la ritmica sembrano però sfondare le mura che le contenevano e propagare, insieme al canto metallico di Cornell, le loro spore grunge nell’aria aperta.
“Four Walled World” ci prepara al finale con una salto nella psichedelia à-la Doors, tra sbilenche slide-guitar blues, una inquieta lamentatio soul e un solo col wah-wah che diventerà un marchio di fabbrica di McCready, mentre a chiudere il disco troviamo un’altra ballata, una “All Night Thing” che con le passionali scorribande del pianoforte e la presenza emozionante di un organo elettrico avvicina il grunge dei Temple Of The Dog al soul come soltanto Greg Dulli e i suoi Afghan Whigs hanno osato fare. Anche qui il testo di Cornell è evocativo e passionale e offre molteplici livelli di lettura, sovrapponendo la notte di passione di una coppia all’ultima notte sulla terra di Andy Wood: "I walked along, feeling at ease/ And falling like rain uh uh".
Come il film “1991. The Year Punk Broke” di Dave Markey, così il progetto Temple Of The Dog ci consegna l'immagine, l'attitudine e lo spirito della scena grunge precedente al successo planetario che scosse quei musicisti e portò Seattle al centro del mondo, meta di pellegrinaggi da parte di discografici e fan, emittenti televisive e giornalisti. “Temple Of The Dog” ne è il suo requiem, suonato e cantato "per chi resta", alla memoria di Andy Wood e di tutti gli altri musicisti che se ne sarebbero andati.
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