Nel 1968 Giorgio Amendola pubblicò un audace volumetto dal titolo, La classe operaia italiana, nel quale il leader storico dell’ala destra del PCI azzardava una singolare analisi del ceto operaio criticando la linea del suo partito e del sindacato, accusata di privilegiare quella minoranza di classe operaia che lavorava nelle grandi fabbriche, dimenticando il grosso dei lavoratori impiegati nella piccola e media impresa. Secondo Amendola occorreva ribaltare tutta la linea allora prevalente nei tre grandi sindacati italiani e anche nei partiti della sinistra. Singolare posizione che sembrava non riuscire a cogliere le dinamiche politiche del conflitto sociale. Furono proprio le lotte condotte nei grandi aggregati industriali a strappare alcune decisive conquiste, all’interno del contratto nazionale, di cui beneficiò soprattutto chi lavorava nelle piccole e medie imprese prive della forza contrattuale e politica delle grandi fabbriche. Conquiste, non solo salariali ma soprattutto contrattuali, capaci di intervenire sui ritmi, gli organici, gli straordinari, i lavori nocivi, la mensa, le 150 ore, gli aumenti uguali per tutti.
L’egualitarismo
C’è un aspetto che mandava
Amendola su tutte le furie, ma non solo, perché si trattava di una
cultura consolidata nel sindacato degli anni '50 e '60 e nei dirigenti del
PCI, ovvero l’egualitarismo. Una rivendicazione che spiazzava le
gerarchie sindacali ma soprattutto scardinava il sistema disciplinare
della fabbrica, strumento di potere di “capi” e “capetti” con il loro
sistema di premi, ricatti, compensi e punizioni. Rivendicazione politica
innanzitutto, strumento di libertà dentro le officine. Dove nasceva
l’ostilità storica di Amendola verso il protagonismo dei ceti operai?
Probabilmente dalla sua originaria formazione culturale, dalle origini
alto borghesi, da una visione elitaria della politica che attribuiva al
partito comunista una funzione pedagogica delle masse, che andavano
guidate, dotate di una rigida morale da perseguire, gerarchizzate. Per
Amendola il partito comunista doveva portare a termine quella
rivoluzione borghese che il partito liberale del padre non era stato in
grado di compiere.
La sua classe operaia ideale era fatta di uomini
pronti ad accettare l’egemonia e la tutela del partito, disposti a
riconoscere la funzione maieutica a quei capi capaci di trasformarli da
plebe in operai consapevoli. Ubbidienti e pronti e stringere la cintola
per fare i sacrifici necessari al paese al posto di quella borghesia
inesistente (sic!) e dimostrarsi così classe nazionale, ceto di governo.
La rude razza pagana
Quando sul finire degli anni
sessanta una «rude razza pagana» rifiutò questi vecchi schemi e ruppe
con la cultura delle commissioni interne imponendo i delegati “senza
tessera”, esprimendo un altissimo grado di autonomia politica, Amendola
intravide in questo protagonismo operaio, espressione per altro di una
mutata sociologia di classe e di una nuova forma di capitalismo, un
nemico insidioso da contrastare, da domare in tutte le forme e maniere.
L’ex segretario della FIOM e poi della CGIL Bruno Trentin, in una conversazione con Vittorio Foa e Andrea Ranieri (La libertà e il lavoro,
volume curato da Michele Magno), spiegò il lungo dissenso che lo oppose
ad Amendola. Quando vennero gli anni in cui si cominciava a discutere
delle trasformazioni del capitalismo – racconta Trentin – Amendola «era
su una linea pauperistica, di un Gramsci assolutamente mal letto». Per
Amendola era la classe operaia che doveva fare la rivoluzione borghese,
«perché c’è una società senza borghesia o con una borghesia stracciona
che non è in grado di fare niente». Una linea – continua Trentin – a cui
sfuggivano le trasformazioni reali del nostro capitalismo». Lui arrivò a
ridicolizzare su Rinascita – prosegue sempre Trentin – «la mia
proposta di organizzare i disoccupati nelle lotte per il lavoro, e
quasi a criminalizzare certe posizioni del sindacato nei confronti dei
quadri. Noi ponevamo il problema della loro conquista politica, e lui
sosteneva che erano un ceto a sé. Beh, la mia convinzione è che lui era
un liberale ma non un democratico. All’interno del partito, e nella sua
concezione generale del rapporto tra democrazia e sviluppo economico. Il
dissenso con lui si sviluppò su molti terreni. Lui era convinto che
l’unità sindacale riguardasse solo la UIL e non la CISL, che considerava
un nemico. La possibilità di dialogo con i cattolici era un problema di
rapporto con le gerarchie religiose, non con un sindacato. Rimase su
questo coerente fino in fondo; non capiva quella realtà complessa che
era la CISL. In una riunione di partito a Frattocchie, si schierò
insieme a Novella contro i consigli dei delegati irridendo a questa
esperienza. Diceva che avremmo fatto un centinaio di consigli contro
migliaia di commissioni interne: successe esattamente l’opposto. Ma
l’attacco fu molto aspro perché fare eleggere dei delegati su scheda
bianca, voleva dire, a suo parere, delegittimare il partito e la sua
possibilità di presenza nei luoghi di lavoro».
Manifesto antioperaio
Dopo la sconfitta
dell’esperienza del compromesso storico e la prima flessione elettorale
del PCI del giugno 1979, invece di ragionare sulla posizione suicidaria
tenuta dal gruppo dirigente durante il sequestro Moro, temendo un
ritorno all’opposizione del partito Amendola puntò il dito contro una
linea – a suo dire – troppo morbida tenuta nelle fabbriche verso
l’irruenza operaia, le «rivendicazioni di democrazia diretta», le
pratiche di lotta non ortodosse, il contrasto troppo debole verso la
violenza operaia, il proliferare di un rivendicazionismo corporativo e
contraddittorio. Rimproverava al PCI «di non avere criticato
apertamente, fin dal primo momento» l’estremismo in fabbrica, «per una
accettazione supina dell’autonomia sindacale e per non estraniarsi dai
cosiddetti movimenti, abdicando alla funzione che è propria del PCI di
diventare forza egemone della classe operaia italiana e del popolo».
Dopo
il licenziamento dei sessantuno delegati di Fiat Mirafiori, accusati di
violenza in fabbrica, esperimento pilota che aprì la strada l’anno
successivo al licenziamento di massa di 23 mila operai, in un articolo
apparso su Rinascita del 7 novembre 1979, considerato a giusto
titolo il suo testamento politico e ritenuto, non a torto, dai suoi
critici un manifesto del termidoro antioperaio, Amendola mise all’indice
la cultura neomarxista sorta all’inizio degli anni sessanta. Una
requisitoria contro i Quaderni rossi («che restringevano
all’interno della fabbrica lo scontro di classe e considerava come
democraticismo ogni tentativo di allargamento del fronte con le riforme
di struttura»), i Quaderni piacentini e Potere operaio,
responsabili dei «tentativi di elaborazione teorica che formarono il
terreno di coltura dell’estremismo, nell’incontro con l’estremismo di
origine cattolica, allevato nel laboratorio della facoltà di sociologia
dell’università di Trento», esperienze che avrebbero portato «alla
cosiddetta “autonomia” ed infine al terrorismo». Fenomeni che il PCI non
avrebbe contrasto a sufficienza, nonostante il rastrellamento del 7
aprile precedente, le carceri speciali, l’uso degli infiltrati del PCI
concordato con il generale Dalla Chiesa. Un’accusa infondata alla luce
di quanto poi i lavori storici hanno dimostrato ma soprattutto la prova
di una cultura politica timorosa della partecipazione dal basso.
Una cosa è sicura, non sarà certo inseguendo l’insegnamento di Amendola che si potranno fondare le basi di una nuova sinistra.
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