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16/06/2023

Le asimmetrie dell’Unione Europea fotografate nei dati ISTAT

I dati che il 13 giugno l’ISTAT ha diffuso riguardo la valutazione ventennale delle politiche di coesione UE possono essere letti in almeno due modi. E in ogni caso le conclusioni da trarne sono che il libero mercato e le forme dell’integrazione europea non fanno che aumentare il divario e la divergenza economica.

Il rapporto ci dice che il Sud Italia ha smesso decenni fa di recuperare la distanza dal Nord del paese, e che le politiche europee per far fronte alla situazione non sono efficaci.

Ma è anche la dimostrazione di come una costruzione sovranazionale fondata sulla concentrazione capitalistica di un centro imperialista, a discapito della sua periferia, non può che riprodurre questa divergenza.

L’obiettivo della politica di coesione, che nel periodo 2021-27 assorbirà 330 miliardi di risorse allocate principalmente guardando il PIL pro capite, è quello di favorire la convergenza nei livelli di sviluppo delle varie regioni della UE. Le aree più coinvolte sono quelle dell’Est Europa (in particolare Romania e Polonia) e il Sud Europa (il meridione di Spagna e Italia).

La popolazione che vive nelle regioni meno sviluppate è diminuita ovunque, tranne che in Slovacchia e in Italia. Nel caso nostrano, tra il ciclo di programmazione iniziato nel 2000 e l’attuale, dopo un’iniziale riduzione, si è tornati a quasi 19 milioni e mezzo di persone, 150 mila in più dell’inizio del millennio.

“I benefici del mercato unico non si sono distribuiti in modo uniforme ma, ancor più durante le crisi economiche, si sono concentrati favorendo la competitività internazionale di alcuni territori”. Quei territori sono quelli intorno ai quali si sono riorganizzate le filiere continentali.

Nel rapporto si afferma che la geografia della dicotomia «centro/periferia» si è complicata, con riferimento soprattutto ai paesi dell’ex Cortina di Ferro, che possono essere definite “regioni in convergenza”. Esse sono però anche quelle che partivano dai livelli più bassi di reddito e hanno potuto in certa misura beneficiare delle delocalizzazioni di altri paesi, Germania in primis.

Sulla tradizionale periferia europea dell’Europa meridionale il giudizio è netto. Infatti, si osserva “l’incapacità del modello di crescita economica mediterraneo di esprimere delle ‘super stars'” (regioni economicamente avanzate capaci di realizzare dei tassi di crescita superiori alla media Ue, ndr) “ma forse anche delle regioni convergenti”.

Mentre tendenzialmente le divergenze interne ai paesi si sono ridotte fino alla crisi del 2008, per poi stabilizzarsi e tornare a crescere negli ultimi anni, l’Italia non ha mai vissuto la fase di convergenza. Le regioni del Mezzogiorno possono “essere considerate tutte insieme come l’area più vasta e popolosa di arretratezza economica dell’Europa occidentale”.

Ma ancor più interessante è osservare che anche le nostre regioni «centrali» abbiano perso l’aggancio con le locomotive continentali.

Tra le 242 regioni censite, tutte quelle italiane hanno perso posizioni negli ultimi due decenni, e se nel 2000 ve ne erano dieci fra le prime 50 per PIL pro capite a parità di potere d’acquisto, nel 2021 fra le prime 50 ve ne sono rimaste solo quattro e altrettante sono entrate fra le ultime 50.

All’origine di questa dinamica ci sono diversi fattori. Il contributo del calo di produttività ad ampliare le differenze è diventato crescente, e ciò deriva sia dalla struttura produttiva delle imprese, più piccole rispetto ai principali paesi Ue e focalizzate su settori ad alta intensità di manodopera, sia dalle crisi economiche, ma è difficile invertire la tendenza se il tasso di investimento rimane negativo.

Ma è quasi interamente il basso tasso di occupazione a spiegare la distanza del PIL pro capite a parità di potere d’acquisto delle regioni italiane più arretrate nei confronti della media UE (20 punti percentuali) e della media nazionale (10 punti percentuali).

In generale, l’Italia è il fanalino di coda europeo del tasso di occupazione, a certificare la desertificazione industriale del paese.

Se non verranno messe in atto politiche in controtendenza, entro qualche anno questa forbice tra la penisola e il core del continente sarà un burrone. Il governo Meloni non sembra né capace né nella possibilità di avviarsi su questa strada, considerando che le mancanze di organico dovute all’austerity rendono difficile anche solo spendere i soldi del PNRR.

Bisogna poi dirsi che, pur essendo vero che chiaramente nell’arco di un ventennio la geografia economica della UE si è sviluppata con una dialettica complessa e non sempre lineare, e sicuramente cambierà ancora, emerge con evidenza che la costruzione comunitaria si è effettivamente sviluppata con un centro che ha cercato il salto imperialista drenando risorse e menti dalla periferia. E l’Italia ne ha subito in pieno gli effetti.

Ora gli indirizzi della UE sono nettamente virati su di un sentiero bellico, che incancrenirà le difficoltà del paese. Per dargli un futuro, dobbiamo lottare per rompere la catena imperialista del Blocco Euroatlantico e affermare un’alternativa sistemica nel quadro di un emergente mondo multipolare.

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