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17/06/2023

[Contributo al dibattito] - Genova oltre la “Gronda di Ponente”: le mani dei capitalisti sulla città

Come in altre regioni del nostro Paese, anche in Liguria, l’interazione tra la nuova proposta di legge, cosiddetta “bozza Calderoli”, sull’“autonomia differenziata” (AD) e la disponibilità, reale o presunta, dei fondi dell’ormai famigerato “Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza” (PNRR), sta producendo nelle istituzioni locali un dinamismo frenetico, apparentemente volto ad assicurarsi l’erogazione dei finanziamenti, garantiti solo dal loro utilizzo entro una certa data.

L’intreccio tra questi due provvedimenti può forse non apparire immediato, ma è per contro piuttosto facile vedere come si sviluppi. Il caso delle “infrastrutture strategiche” – una delle materie per cui le regioni possono chiedere l’AD – in Liguria è particolarmente rivelatorio e ci offre l’occasione di mostrare come, anche nell’amministrazione del territorio, dietro la vuota retorica dei politici borghesi non si nasconda altro che l’imperativo categorico del profitto e la promozione delle prerogative dei soggetti economici dominanti nella società, a discapito del benessere, della salute, e degli interessi della classe lavoratrice.

Sebbene poi, il PNRR sia un provvedimento ideato e adottato appena un paio di anni fa, a titolo di contromisura di fronte alla problematica situazione dovuta alla pandemia da Covid-19, quanto stiamo vedendo in questi mesi in Liguria è il risultato composito di decisioni e legislazioni maturate ed approvate nel corso di almeno quattro decenni, nella cornice più ampia del processo di deindustrializzazione e conversione dell’economia italiana in un’economia di servizi, dominata dal settore del terziario, in particolare il turismo. Quest’ultimo infatti è un fenomeno il cui sviluppo in Liguria, ma soprattutto nel capoluogo Genova, è relativamente recente e risale a non più di trent’anni fa. Ma andiamo con ordine.

È ben noto l’annoso problema infrastrutturale che affligge l’area metropolitana di Genova, sia per quanto riguarda la viabilità su gomma, che quella su rotaia: la presenza del maggiore porto commerciale del Paese, oltre ad un importante passato industriale, ha infatti, sin dall’ultimo quarto dello scorso secolo, messo a dura prova le capacità di traffico e la gestione di autostrade e ferrovie. L’aumento sempre più considerevole dei veicoli in circolazione, sia per il traffico merci che per quello privato, ha reso il sistema viario genovese un fragile meccanismo che richiede ben piccole sollecitazioni per interrompersi o danneggiarsi: è fatto consueto trovarsi bloccati in estesi ingorghi, sia nei punti di accesso alla zona metropolitana, sia all’interno del centro urbano lungo le direttrici che conducono agli snodi autostradali, a volte incolonnati di fianco ad autoarticolati.

Il progetto della cosiddetta “Gronda di Ponente” così, nella sua forma embrionale, risale addirittura ai primi anni ottanta, quando le istituzioni comunali, in concerto all’Autorità Portuale, progettarono un raccordo autostradale che dal porto di Voltri – oggi di Prà, sede del maggiore terminal container italiano, che insieme a quello di Sampierdarena, posto più a levante, costituisce il porto commerciale di Genova – consentisse un collegamento diretto all’autostrada A7, percorrendo la quale i mezzi possono inoltrarsi nell’Italia nordorientale.

Oggigiorno la “vision” promossa dal Sindaco di Genova, Marco Bucci, e dal Presidente della Regione Liguria, Giovanni Toti, appare decisamente più ambiziosa: concepita come bretella autostradale lunga ben 61 chilometri, la “Gronda di Ponente” prevede un tracciato che si sviluppa molto più a nord di quanto immaginato quarant’anni fa, includendo un ulteriore viadotto sul Polcevera – anch’esso a nord del sostituto del Ponte Morandi – grazie al quale effettuerà anche un collegamento sia con il porto di Sampierdarena, che con lo svincolo in direzione levante, sulla autostrada A12, che si immette poi nella A1, cosiddetta “autostrada del sole”. Ben l’80% del nuovo sistema viario sarà sotterraneo: a questo scopo dovranno essere scavate la bellezza di 23 nuove gallerie, con la realizzazione di 13 nuovi viadotti in tutto, oltre all’ampliamento e rafforzamento di altri 11 già esistenti, per un costo totale stimato in 4-6 miliardi di Euro, e non meno di 7 anni di lavori.

Questa infrastruttura tuttavia è soltanto un tassello del più ampio disegno di ristrutturazione generale del porto di Genova e della logistica del trasporto intermodale nella regione Liguria, che intende realizzare un massiccio ingrandimento delle superfici delle banchine portuali, finalizzato ad espandere i traffici di container (TEU), con nuovi riempimenti, sia a Prà che a Sampierdarena, per un’area totale di oltre 500.000mq, al cui scopo è in cantiere la costruzione di una nuova diga foranea. Grazie ad essa lo scalo genovese dovrebbe potere accogliere navi porta-container fino alla lunghezza di 300m, recanti tra 24.000 e 36.000 container ciascuna, con la malcelata ambizione di arrivare a competere con il porto del Pireo e quello di Valencia per la palma di principale scalo commerciale del Mar Mediterraneo. Questi ultimi si aggirano intorno a 5.000.000 di TEU movimentati all’anno, contro gli attuali circa 2,8 milioni che transitano dal porto ligure (compreso tuttavia anche dello scalo di Savona-Vado che rientra nella giurisdizione della stessa Autorità di Sistema Portuale, quella del Mar Ligure Occidentale).

È evidente che, di fronte alla prospettiva di un tale ampliamento delle attività portuali, la realizzazione della “Gronda di Ponente” diventa un nodo centrale la cui soluzione è prerequisito per la buona riuscita di questa radicale trasformazione dei “Ports of Genoa”, a tutto vantaggio dei principali soggetti economici dominanti nella città, rappresentati da imprese come il Gruppo Spinelli, la Ignazio Messina & Co, la Costa Crociere, oppure la Erg di proprietà della famiglia Garrone, banchieri come Vittorio Malacalza, le consociate parastatali, come Ansaldo Energia, Leonardo, o Fincantieri (per queste ultime, in ragione del più rapido afflusso delle materie prime).

In assenza della “Gronda di Ponente” il traffico dei mezzi pesanti implicato dai lavori previsti, già oggi pressoché insostenibile, renderebbe completamente impraticabile l’intera rete viaria urbana, vanificando qualsiasi beneficio che l’allargamento delle dimensioni del porto potrebbe comportare per i risultati economici di queste imprese.

È infatti per il quasi esclusivo usufrutto dei capitalisti più influenti localmente che saranno realizzate queste nuove infrastrutture, finanziate a debito garantito dalle istituzioni pubbliche, che dovranno poi essere quelle statali dato che il totale degli investimenti richiesti potrebbe eccedere i 10 miliardi di euro: cifra che né il Comune di Genova, né la Regione Liguria, sono in grado di mettere in campo, o chiedere a prestito senza presumibilmente andare incontro a un serio tracollo finanziario in breve tempo.

Proprio qui d’altronde appaiono convergere le traiettorie del PNRR e dell’Autonomia Differenziata, e si spiega forse la fretta con cui il Sindaco Bucci e il Presidente Toti hanno provveduto a dichiarare l’inizio dei cantieri, nel dicembre 2022 per la “Gronda” – con l’apertura del “lotto zero” (sic), cioè la preparazione delle aree di servizio e accessorie ai cantieri veri e propri – e lo scorso 4 maggio per la diga foranea, con una modesta cerimonia per la posa della “prima pietra”, condita tuttavia da un faraonico apparato di fuochi d’artificio, della durata di oltre 10 minuti, che ha ricoperto l’intero centro cittadino di una fitta coltre di fumo!

Sia l’uno che l’altro progetto infatti sono compresi tra le “infrastrutture strategiche”, una delle 23 materie che, secondo la riforma del titolo V della Costituzione del 2001, art. 117 comma 2-3, le Regioni possono reclamare come loro prerogativa esclusiva, richiedendo per esse lo strumento dell’AD. Ma senz’altro una simile serie di investimenti non può che fare affidamento sulla dimensione finanziaria dello Stato, il quale è appunto il soggetto a cui è affidato il compito di distribuire i fondi che il PNRR renderà disponibili a tempo debito.

Anche in questo caso comunque, siccome per le infrastrutture il PNRR prevede in tutto circa 25 miliardi di euro, ben difficilmente l’intero importo potrà essere finanziato con questa modalità: ne assorbirebbe infatti una percentuale ben consistente, che dovrebbe essere dedicata ad una sola Regione su venti. Le istituzioni regionali liguri pertanto dovrebbero raccogliere il restante, quale che fosse l’importo, a prestito: situazione che nella cornice della AD delineata dalla “bozza Calderoli” lascia intravvedere un sicuro, e prevedibilmente rapido, deterioramento catastrofico delle loro condizioni finanziarie.

Certo, la Regione Liguria, sempre nell’ambito dell’AD, potrebbe avocare a sé la gestione della stessa infrastruttura, creando una società partecipata con soci privati, da cui ricavare un introito dai pedaggi, oppure richiedere l’amministrazione delle politiche e del gettito fiscali, ma tutte queste nuove prerogative che la Regione avrebbe richiederebbero a loro volta dei costi, che andrebbero ad incidere sulla redditività della società e/o sulla sostenibilità del debito contratto.

L’intera operazione d’altronde, a dispetto della retorica di imprenditori e politici, tanto prodighi e prolissi a sottolineare i benefici che la cittadinanza di Genova trarrebbero da porre in essere tale opera, è volta ad assicurare le condizioni più favorevoli ai capitalisti locali maggiormente influenti di puntellare in modo permanente la loro posizione dominante nell’economia regionale, per mezzo di un immane trasferimento di valore dal settore pubblico a quello privato, che metterà a loro disposizione i mezzi più efficienti concepibili sul territorio ligure per estrarre il plusvalore dall’attività produttiva della classe lavoratrice.

Lo Stato, o la Regione, con l’esazione della tasse, la cui proporzione maggioritaria proviene sempre dalla massa dei lavoratori o impiegati, si sobbarcheranno tutto il costo della realizzazione di queste infrastrutture, mentre le imprese capitaliste potranno trarne il massimo profitto, o usufruendo del servizio offerto a prezzi concorrenziali, o magari ottenendo una concessione per la gestione della stessa infrastruttura, come d’altronde sarà per la diga foranea, giurisdizione dell’Autorità Portuale, che è un ente pubblico, epperò di utilità esclusivamente ai terminalisti.

È questo uno dei grandi servizi resi dallo Stato ai capitalisti – ragion per cui, per quanto “minimo”, deve continuare ad esistere – per i quali infrastrutture sicure, rapide, ed efficienti sono una necessità, allo scopo di fare giungere rapidamente e senza intoppi la merce sui mercati, ma delle quali non hanno alcuna intenzione di sostenere i costi.

Per questa stessa ragione, quando in seguito lo Stato, una volta verificato che l’opera sia stata realizzata in modo affidabile (i.e. assolva in modo efficace e sistematico alla funzione per cui è stata progettata) e possa essere gestita traendone un profitto, la cede ai privati o rilascia a questi ultimi una concessione per la sua gestione, costoro non eseguono alcuna manutenzione, o si occupano dello stretto necessario affinché le attività non si debbano interrompere: vale a dire, eseguono solo ed esclusivamente la manutenzione straordinaria, che diventa necessaria quando il processo di usura e consunzione dei materiali originari ha ormai ridotto l’utilità del manufatto a zero, sorvolando del tutto su quella ordinaria.

Dal punto di vista del capitalista infatti la manutenzione ordinaria è un’attività che non si ripaga mai da sé, perché non produce nuovo valore, ma preserva quello già esistente, e il cui costo afferisce innanzitutto e soprattutto in capitale variabile, cosicché per la mentalità del capitalista si tratta solamente di un incremento del monte salari che erode la parte del profitto.

Così, dopo il terrificante disastro del 2018 – di cui il processo in corso sta rivelando particolari di estrema gravità per gli imputati e confermando in larga misura l’intera tesi dei Pubblici Ministeri – Autostrade per l’Italia (ASPI) si è incaricata del rinnovo, ristrutturazione, e messa in sicurezza dell’intera rete autostradale ligure, sulla quale dalla sua privatizzazione nei tardi anni ‘90 ben poco si era fatto, e che da oltre quattro anni è funestata da cantieri di lunga durata che spesso si snodano per decine di chilometri, causando continui rallentamenti e scambi di carreggiata.

Ma appunto oggi ASPI è controllata dallo Stato attraverso Cassa Depositi e Prestiti (CDP), che in tale modo utilizza le risorse pubbliche per effettuare questi interventi inderogabili: si potrà in seguito affermare con molto protervia che i lavori sono stati fatti, da quella stessa società, e magari da quello stesso amministratore delegato, quando la società tornerà sotto controllo dei capitalisti e la manutenzione diventerà nuovamente un miraggio.

Si potrebbe accusare chi scrive di malafede, forse, su questo punto, ma il fatto che il restante 49% del capitale sociale di ASPI sia equamente suddiviso tra il famigerato fondo statunitense BlackRock, il maggiore al mondo, detentore di oltre 4.000 miliardi di dollari in partecipazioni e attività, e il Gruppo Macquarie, una banca d’affari australiana con rami d’impresa estremamente diversificati, attesta al fatto che un nuova dismissione da parte dello Stato di questa società non è per nulla un’ipotesi implausibile: che Atlantia s.p.a. abbia distribuito ai propri soci oltre 7 miliardi di dividendi nel periodo 2014-2018, mentre le condizioni fatiscenti del Ponte Morandi giacevano inosservate, non può che illuminare sulla ragione per cui queste due società straniere hanno inteso fare un tale investimento.

Gli affari sulle infrastrutture sono infatti assai lucrosi, sia per gli appalti di costruzione, sia per le concessioni, due ambiti che l’AD targata Calderoli – che per varie ragioni, su cui qui sorvoliamo, in quella sua forma sta incontrando alcune resistenze anche tra la coalizione di governo, in particolare Fratelli d’Italia, più concentrato sulle cosiddette “riforme” sul “Presidenzialismo” – intende riportare alla prassi della “trattativa privata” tra istituzioni pubbliche e soggetti proponenti, sottraendo il processo decisionale del “miglior offerente” alla procedura del concorso pubblico e aperto a tutti gli interessati: è chiaro come gli interessi economici locali abbiano un tornaconto apparente di un certo rilievo da una tale modalità di assegnazione di lavori e gestione società, rispetto alla propria posizione nella Regione, e alle loro relazioni e investimenti internazionali.

Tuttavia ciò che più conta per i capitalisti locali naturalmente sono le ricadute logistiche che la realizzazione di queste infrastrutture dovranno avere, nella prospettiva del miglioramento dell’efficienza e del volume dei propri affari, cioè l’unica prospettiva sotto cui le autorità politiche stanno conducendo questa intera operazione, a dispetto di quanto potrebbe apparire dalle loro dichiarazioni.

Spesso infatti figure come il Sindaco Bucci si occupano di evidenziare, da una parte i lavori cosiddetti di “riqualificazione” compiuti soprattutto a Genova e nelle sue più immediate periferie giustappunto a partire dagli anni ‘80, e di cui periodicamente si rinverdiscono i fasti, aggiungendo una nuova sezione dell’agglomerato urbano alla lista di quelle già sottoposte a lavori, per poi, ovviamente, non eseguire alcun tipo di manutenzione, o eseguirne poca, con mezzi e personale assai limitati – tanto che basta percorrere in automobile la Strada sopraelevata Aldo Moro, peraltro in condizioni assai precarie, per vedere spuntare dai bordi dell’asfalto erba e piante alte anche mezzo metro, o recarsi nella delegazione di Prà, dove i lavori effettuati pochi anni fa a monte del porto, con ripavimentazione del marciapiede già mostrano i primi segni di cedimento, con erbacce e cespugli che si fanno strada in mezzo alle piastrelle – e dall’altra parte la prevista diminuzione del traffico e dell’inquinamento atmosferico – Genova è la città in Europa dove i limiti di legge per il biossido di azoto sono superati per il maggior numero di giorni annui – e acustico in città, questione su cui si incardina anche quella dell’elettrificazione delle banchine del porto, decennale trafila priva di sbocchi, fino a che il Comune non avrà il denaro sufficiente ad eseguire anche questi lavori, per cui terminalisti e armatori intendono pagare esattamente nulla.

Sia la “Gronda di Ponente” che la nuova diga foranea, così come il cosiddetto “Terzo valico” ferroviario, che dovrebbe collegare Genova e Milano con una linea ad alta velocità, sono opere i cui principali benefici saranno per imprese e capitalisti, e di cui la classe lavoratrice ben poco avrà modo di accorgersi.

D’altronde considerando il tracciato della “Gronda” è facile vedere come non sia previsto alcun casello tra la diramazione sulla A10 e l’immissione sulla A7, dato che il percorso si snoda in un territorio pressoché privo di centri abitati significativi. La strada di per sé è concepita ad uso esclusivo degli autoarticolati che dovranno spostarsi dal Porto di Genova, o che arrivando dallo scalo di Savona-Vado intendano dirigersi a nord-est o a sud evitando del tutto di attraversare il tratto urbano dell’autostrada. Allo stesso modo, la ferrovia ad alta velocità consentirà ai dirigenti d’azienda, che devono prendere accordi, firmare contratti, incontrare le autorità, di spostarsi con estrema rapidità tra il capoluogo ligure e quello lombardo, potendosi spingere in meno di tre ore fino al Triveneto, dove l’attività industriale manifatturiera è maggiormente concentrata, a un costo che è facile immaginare estremamente elevato, poiché l’infrastruttura è nuova e deve generare sufficienti ricavi da ripagare l’investimento fatto: è stato fatto a debito ovviamente, per cui è necessario rientrare del costo sostenuto per saldare il passivo con le banche, o con i mercati.

Non ci si lasci ingannare poi dal simbolo dell’interdizione ai mezzi pesanti nel tragitto tra Genova Voltri e Genova Ovest, dove potrebbero essere costruite due barriere autostradali trasformando questa parte di A10 in tangenziale urbana non soggetta a pedaggio: questa misura infatti, lungi dall’essere pensata per il beneficio della cittadinanza lavoratrice, intende semplicemente favorire in modo sempre più massiccio l’indirizzo economico a cui l’intero Paese, come adesso finalmente appare in modo esplicito, è stato volto negli ultimi decenni.

Lo spazio che i mezzi pesanti e il traffico portuale lasceranno libero infatti non si prevede, anzi non si intende per nulla lasciare che rimanga tale: esso dovrà essere riempito nuovamente, ma adesso, dai mezzi di trasporto che convoglieranno, “movimenteranno” come usa dire oggigiorno, i turisti a Genova, sia per visitare la città o la regione, sia per imbarcarsi su traghetti e mega-navi da crociera, con l’ambizione dichiarata ufficialmente di creare le condizioni per organizzare una “industria” del turismo che possa funzionare 365 giorni all’anno: vuole dire, garantire una occupazione costante delle cosiddette “strutture ricettive” dell’intera regione superiore all’80 per cento.

Lo sviluppo del turismo in effetti è una questione prioritaria nel contesto del processo di deindustrializzazione la cui conclusione appare ormai in vista: in vendita la Piaggio Aerospace, le infinite vertenze dell’ex-ILVA, per la quale non si attende altro che vadano in pensione un numero sufficiente di lavoratori per potere chiudere, Ansaldo Energia, Leonardo, e Fincantieri restano le uniche aziende produttive significative con sede in città.

Se d’altronde è nei primi anni ‘80 che si progettò per la prima volta la “Gronda di Ponente”, fu proprio in quel decennio che la città di Genova vide una radicale trasformazione, da inurbazione pressoché priva di aree pedonali; con facciate degli edifici annerite dai fumi dell’acciaieria e del traffico dalle più neglette periferie al centro storico nobile; sporcizia ed incuria; marciapiedi dissestati e stretti, a fianco di strade trafficate dove viaggiavano anche autobus e camion; macerie di edifici bombardati durante la Seconda Guerra Mondiale ancora da rimuovere dopo oltre trent’anni, in pieno centro; a città con larghe zone interdette al traffico; con strade precedentemente asfaltate lastricate di nuovo; un aumento significativo del verde pubblico e delle attività commerciali, soprattutto nella zona del Porto Antico, che nel 1992 venne aperto al pubblico in occasione del 500° anniversario dell’approdo di Cristoforo Colombo nelle Americhe, e per il quale ci si attendeva, appunto, un grande afflusso di turisti nel capoluogo ligure: fu in quell’occasione infatti che venne inaugurato l’ormai celebre “Acquario di Genova” (anch’esso peraltro in gestione a un privato, la Costa Edutainment S.p.A) capace di attirare pressoché ogni anno da allora oltre 1 milione di visitatori, con affluenze massime annuali spesso assai maggiori.

La vicenda che riguarda l’AD e il PNRR dunque si inserisce in una dinamica politica ed economica molto più ampia, in cui l’assoggettamento dell’Italia alle volontà del padrone imperiale oltreoceano è diventato sempre più aperto, spudorato, diretto, e arido, in una sempre maggiore integrazione dei relativi sistemi economici nella cornice della deregolamentazione dei mercati – altrimenti conosciuta come “liberalizzazione” – e dell’imposizione del “vincolo esterno” dell’Unione Europea, nella cui gestione i principali gruppi capitalisti del paese hanno favorito il completamento della colonizzazione culturale dell’Italia. Essi hanno agito come borghesia “compradora” che ha profittato dalla svendita della ricchezza nazionale, prodotta in loco o estratta dai paesi neocoloniali, agli interessi economici della metropoli imperiale, consentendo a questi ultimi di scaricare sui loro sudditi le “conseguenze economiche” del capitalismo e mantenere immutato il proprio privilegio e posizione dominante nella società: non è un caso se gli altri due azionisti di ASPI sono i soggetti finanziari che sono, o se la compagnia aerea, cosiddetta di “bandiera” è stata letteralmente svenduta ai tedeschi di Lufthansa.

Non diminuirà affatto perciò la congestione, il traffico, lo smog a Genova, e anche se ciò accadesse, per un agognato potenziamento di un sistema di mezzi pubblici allo stremo – che può spesso lasciare in attesa sotto un sole cocente, o alla pioggia scrosciante (e nessun tipo di riparo) anche per mezzora, garantendo poche corse mal distribuite durante la giornata, e pressoché nessun tipo di servizio, su gomma o su rotaia, dopo le ore 23 – la classe lavoratrice avrebbe ben poco da guadagnarci, e continuerà a spostarsi su mezzi insufficienti ed inefficienti, affollati e spesso sporchi, in un regime di mercato del lavoro che, affidandosi sempre più al terziario, diverrà sempre più precario, e richiederà forza-lavoro sempre meno qualificata, e dunque sempre meno pagata, poiché la qualificazione è ciò che valorizza quella forza-lavoro ed esige pertanto una retribuzione maggiore, il tutto mentre il costo della vita continuerà ad alzarsi, a fronte di una maggiore circolazione delle merci entro il perimetro dell’economia della metropoli imperiale.

Esporteremo sempre di più – prodotti di lusso, alta tecnologia, specialità alimentari e vinicole – ma perciò stesso dovremo importare sempre di più, a un prezzo sempre maggiore, incremento dovuto alla sempre più estesa e ramificata catena del valore: è perfettamente chiaro come tale dinamica non farà altro che accentrare sempre più la ricchezza e il capitale nelle mani di pochi proprietari dei mezzi di produzione che sono in grado di sostenere le attività logistiche e produttive necessarie ad assicurare il funzionamento di un sistema di produzione che si estende per migliaia di chilometri assoggettato ad un singolo centro propulsivo verso la cui permanenza tutti gli altri sono costretti ad operare.

Le grandi iniziative e progetti di questi uomini piccoli piccoli dunque non nascono dal nulla, ma rientrano in un disegno socio-economico di ampio respiro e che si è sviluppato per decenni, ed ossia, nelle parole del prof. Michael Parenti, la “terzo-mondizzazione” dell’Europa occidentale, in altre parole la sua “americanizzazione”, inteso in quanto modello sociale a cui i paesi soggetti all’autorità dell’impero USA debbono conformarsi e che è infatti tipico del cosiddetto “Terzo mondo”, ma che è in effetti la dilagante e cruda realtà dell’epicentro globale della lotta senza quartiere contro la classe lavoratrice.

Una società in cui una ristretta cricca di ultra-danarosi che vivono al di sopra di qualsiasi possibilità esercitano, grazie alla potenza dei mezzi di comunicazione, istruzione, ed educazione di massa che diffondono incessantemente i dogmi fondanti della struttura dell’egemonia liberale, un ferreo controllo su centinaia di milioni di persone, ridotte in miseria, a cui verrà presto negato qualsiasi diritto fondamentale per il quale non possano pagare la tariffa, “liberalmente” concordata con il residuo di Stato minimo che resisterà a questo estremo assalto a qualsiasi garanzia dagli abusi e giustizia sociale nel derelitto Occidente capitalistico.

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