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05/04/2024

[Contributo al dibattito] - “Pace e guerra sono una questione di soldi”

«Oggi non c’è conflitto al mondo che non sia legato al grande squilibrio capitalistico tra l’economia americana debitrice e l’economia cinese creditrice, e alla pretesa degli Stati Uniti di risolverlo col protezionismo», spiega l’economista

La Pasqua è passata, gli appelli alla pace si sono sprecati ma dall’Ucraina al Medio Oriente non si intravede uno straccio di trattativa per far tacere finalmente le armi. Eppure un sentiero per la pacificazione globale ci sarebbe.

L’ha indicato l’economista Emiliano Brancaccio nel suo ultimo libro, in uscita tra pochi giorni: Le condizioni economiche per la pace (Mimesis, Milano, 18 euro), che riprende e sviluppa l’omonimo appello internazionale che Brancaccio ha scritto l’anno scorso con Lord Skidelsky e che è stato poi pubblicato sul Financial Times e Le Monde.

Professor Brancaccio, nel suo nuovo libro lei sostiene che gli attuali dibattiti sulla guerra sono del tutto inutili per individuare dei concreti percorsi di pace. Perché?

Perché ruotano quasi sempre intorno alle poche idee suggerite dai cosiddetti “geopolitici”. Da Alessandro Orsini a Vittorio Emanuele Parsi, si tratta di studiosi che pur assumendo posizioni politiche tra loro opposte sono tutti persuasi che la guerra possa in fin dei conti ridursi a una mera questione di dignità, di onore, di etnie, di confessioni religiose, al limite di difesa o di conquista di territori. Questa visione da saga medievale, un po’ alla “Game of Thrones”, oggi condiziona un po’ tutti, inclusi molti pacifisti. Ma è fuorviante, perché nasconde le enormi contraddizioni economiche alla base delle guerre moderne.

Nel libro e nell’appello che lo ha ispirato, lei e i suoi colleghi sostenete che le guerre attuali nascono dai problemi di debito dell’economia americana e dal tentativo degli Stati Uniti di risolverli con il protezionismo. Può spiegare?

In passato gli Stati Uniti sono stati fautori di una globalizzazione indiscriminata, ma alla fine dei conti sono usciti dalla stagione dei liberi commerci con molti problemi. In particolare, si sono ritrovati con un debito verso l’estero ormai vicino all’80% del Pil. In misura rilevante, questo debito è nelle mani della Cina e di altri paesi non allineati a Washington. Finché questi creditori cinesi, russi e arabi si sono limitati a usare i loro attivi per continuare a prestare denaro, o al limite acquisire immobili di pregio e magari società sportive americane e occidentali, la loro presenza nei gangli proprietari dell’ovest capitalistico è stata tollerata. Ma quando hanno iniziato a puntare sui settori strategici d’Occidente, dall’alta tecnologia all’alta finanza, il clima è cambiato. Gli americani hanno deciso di elevare barriere contro l’esportazione di capitali che veniva da oriente e hanno preteso che anche l’Ue facesse altrettanto. Ovviamente, a est questa svolta americana non è piaciuta, non l’hanno presa affatto bene. E ora cinesi e russi vogliono far capire al mondo che gli Stati Uniti non possono cambiare a piacimento le regole del gioco economico. Sta qui l’innesco chiave delle attuali tensioni militari.

Nel libro lei racconta che questa vostra interpretazione della guerra ha dato fastidio sia agli “atlantisti” che ai “putinisti”...

Sì, perché sgombra il campo dalle mistificazioni ideologiche degli uni e degli altri. Da un lato individua l’origine dei problemi nella svolta americana dal globalismo indiscriminato al protezionismo unilaterale, e dall’altro chiarisce che l’aggressione russa è ispirata da moventi capitalistici più che difensivi.

Voi, dunque, proponete una via di pacificazione mondiale che parta da un tavolo di trattative economiche. In cosa dovrebbe consistere?

Si tratta di promuovere uno scambio multilaterale: da un lato gli Stati Uniti rinunciano alle barriere protezionistiche con cui stanno bloccando l’export di capitali che viene da oriente, e dall’altro la Russia si ritira dai territori ucraini occupati e la Cina si rende disponibile a una regolazione politica e non di mercato dei crediti che vanta verso gli Stati Uniti e l’Occidente. A ciò bisogna aggiungere, ovviamente, che l’Ue deve rinunciare all’espansione ulteriore a est, in particolare agli accordi di integrazione economica con l’Ucraina che furono la miccia delle tensioni con la Russia. Se un’intesa del genere andasse in porto, le spese militari potrebbero esser dirottate verso un piano internazionale di ricostruzione dei vari territori martoriati dai conflitti. Sarebbe un primo passo verso un possibile nuovo ordine economico mondiale.

Perché la soluzione che voi avanzate potrebbe convincere Putin a ritirarsi dai territori dell’Ucraina occupati?

Perché risponde al movente di fondo delle oligarchie finanziarie russe. Putin non ha mandato decine di migliaia di giovani soldati a morire per territori di dubbia rilevanza strategica, che complessivamente non valgono nemmeno il dieci percento del Pil italiano. Gli apparati russi che hanno deciso l’aggressione all’Ucraina, e le varie diplomazie orientali che l’hanno avallata, si pongono un obiettivo molto più ampio, di portata storica: vogliono dimostrare che gli Stati Uniti non sono più nelle condizioni di imporre la loro egemonia nell’ordine economico mondiale. In particolare, non possono prima promuovere l’apertura globale dei mercati e poi, dopo avere accumulato ingenti debiti verso l’estero, cambiare idea e alzare barriere protezionistiche contro i capitali russi, cinesi e arabi.

Ma la Russia non va sanzionata per l’attacco all’Ucraina?

Certo, va sanzionata per la sua aggressione e per i massacri che ne sono conseguiti. Come pure gli Stati Uniti andavano sanzionati quando pretendevano di risolvere i vecchi problemi di deficit energetico mettendo a ferro e fuoco il Medio Oriente con scuse risibili. Ma un sistema razionale ed equo di sanzioni si costruisce solo nell’ambito di un nuovo ordine economico mondiale.

In cosa differisce questa vostra proposta da quelle già messe in campo finora, per esempio dalla Cina?

I cinesi hanno avanzato proposte sensate dal punto di vista territoriale e umanitario, ma sul terreno economico continuano a invocare un ritorno al vecchio ordine globalista del libero mercato. Presumo si tratti di un mero esercizio retorico: dovrebbero sapere che il libero scambio indiscriminato è parte del problema, essendo alla base dei grandi squilibri che sono poi sfociati nella soluzione protezionista americana. A questo punto, indietro non si torna più.

Nel libro lei sostiene che la vostra proposta di pace non solo serve a fermare la guerra in Ucraina ma è decisiva anche per interrompere gli altri conflitti, in corso o in preparazione: in Palestina, nel Mar Rosso, intorno a Taiwan, e così via. Perché tutto si collega alla trattativa sul protezionismo e sul debito americano?

Oggi non esiste conflitto al mondo che non sia in qualche modo legato al grande squilibrio capitalistico tra l’economia americana debitrice e l’economia cinese creditrice, e alla pretesa USA di risolverlo bloccando l’importazione di merci e capitali. Ormai tutte le vie commerciali, da Suez al Pacifico, sono diventate oggetto di contesa militare per verificare la tenuta dell’ordine protezionista americano. Per citare un esempio, le violenze di Hamas del 7 ottobre e i massacri di palestinesi a opera dell’esercito israeliano hanno sancito la crisi del corridoio IMEC tra Europa, Medio Oriente e India, con cui gli Stati Uniti speravano di costruire una linea commerciale alternativa alla nuova via della seta cinese. È questa la ragione di fondo delle attuali tensioni tra Israele e Stati Uniti, molto più della mera contingenza elettorale americana.

A proposito di elezioni, lei pensa che l’eventuale rielezione di Trump alla Casa Bianca possa aiutare la pacificazione internazionale?

L’amministrazione Biden ha fatto molto male alla pace ma si può fare anche peggio. Trump vorrebbe riesumare la vecchia strategia nixoniana: dividere Russia e Cina, questa volta blandendo Putin con concessioni territoriali e inasprendo invece il protezionismo soprattutto in chiave anti-cinese. Ma se accettiamo la tesi che i guai nascono dalla svolta protezionista americana, comprendiamo che la strategia trumpiana non risolve il problema di fondo. Anzi, rischia di aggravarlo.

Italia e UE potrebbero giocare un ruolo in questa trattativa di pace?

Finora noi europei abbiamo aderito alla politica di guerra economica e militare avviata dagli americani. Per adesso, quindi, rappresentiamo un problema più che una soluzione alla crisi internazionale. Eppure l’Italia e l’Unione europea non hanno rilevanti problemi di debito estero e quindi avrebbero più mano libera per sganciarsi dal protezionismo unilaterale USA.

Romano Prodi, con cui lei si è confrontato varie volte, la mette più sul piano del coordinamento militare: dice che se avessimo avuto l’esercito europeo la Russia non avrebbe attaccato l’Ucraina. Che ne pensa?

Io vedo un problema di fini, prima che di mezzi. Se l’esercito europeo venisse usato in chiave imperialista le cose potrebbero andare persino peggio.

Siamo alla vigilia delle elezioni europee. Quale parola d’ordine per la pace?

L’Unione europea rischia di assumere nella prossima legislatura un profilo sempre più allineato alla politica protezionista americana e sempre più guerrafondaio. È una tentazione trasversale, che si diffonde tra le destre reazionarie, i popolari, i liberali, e anche presso alcuni spezzoni del partito socialista. I candidati al parlamento europeo che intendono contrastare questa deriva dovrebbero presentarsi con una linea di indirizzo alternativa, fondata su un obiettivo chiaro e netto: promuovere in Europa e in tutte le sedi internazionali una trattativa che parta dal ritiro della Russia dai territori occupati in cambio dell’abbandono del protezionismo unilaterale di marca americana. Se c’è ancora una possibilità concreta di pace, parte da qui.

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