Nell’analizzare gli ultimi sviluppi del conflitto mediorientale sono molti i rischi, o le tentazioni, che possono portare fuori bersaglio.
Anche l’analisi di classe mostra qualche limite, se si fa attenzione al concreto della struttura sociale israeliana – quanto meno – dove ai “cittadini a pieno titolo dello Stato ebraico” (la definizione è stata assunta nella “legge fondamentale”, para-costituzionale) sono riservati tutta una serie di diritti e privilegi, anche in termini di posizioni lavorative, mentre il “lavoro bruto” o lo sfruttamento senza mediazioni è riservato ai palestinesi (il 20% della popolazione) o agli immigrati (thailandesi, cingalesi, ecc).
È insomma la struttura tipica delle società coloniali o schiavistiche (tipo l’Atene antica) che riduce la dialettica politica, anche fortemente conflittuale, alla sola “frazione affluente”. Dove si può contestare – e lo si è fatto anche duramente, negli ultimi anni – la torsione autoritaria implicita in alcune riforme istituzionali volute dal governo Netanyahu, ma non certo la sostanza dei rapporti interni e con i paesi vicini, né riguardo ai palestinesi che vivono al di là del Muro di separazione.
Ragionamento diverso, ma altrettanto poco coerente con le divisioni sociali tipiche delle società industriali occidentali, va fatto con le società arabe o quella persiana. Ma non è questo l’oggetto della nostra analisi oggi.
Stiamo infatti parlando della situazione conseguente alla reazione iraniana su Israele. E qui il rischio è quello di assumere i criteri della geopolitica, dove le classi non esistono e si confrontano soltanto “le nazioni”.
Sfugge troppo spesso che alla radice delle guerre presenti ci sia la crisi del mondo di produzione capitalistico, e soprattutto della capacità egemonica dell’imperialismo occidentale. Ovvero della parte fin qui dominante del capitalismo mondiale.
Non voler vedere le forme e le differenze nel conflitto reale renderebbe però ciechi e soprattutto impotenti ad agire per cambiare il mondo o, che è lo stesso, portare l’umanità fuori dalla guerra.
Tutto ciò premesso, vanno ricordati i fatti rilevanti che hanno portato all’attacco iraniano di sabato sera.
Ossia il bombardamento intenzionale dell’ambasciata iraniana a Damasco, con l’obiettivo di uccidere alcuni alti ufficiali dei pasdaran, tra cui il generale Mohammad Reza Zahedi.
Persino istituti di ricerca sicuramente “atlantisti” come l’Ispi hanno dovuto ammettere che si è trattato di una violazione clamorosa del diritto internazionale vigente, perché è stata colpita “la sede diplomatica ufficiale di un paese membro delle Nazioni Unite”, per di più “formalmente non belligerante” e all’interno di una paese anch’esso “formalmente non belligerante” come la Siria.
Di fatto e di diritto, “una dichiarazione di guerra” che legittima il ricorso all’autodifesa e quindi alla risposta.
Sulla gravità assoluta dell’attacco israeliano è certamente utile ricordare che l’unico precedente – il bombardamento dell’ambasciata cinese a Belgrado, nel 1999 – fu anche formalmente derubricato a “incidente non voluto” nel contesto di un attacco condotto con bombe non particolarmente “intelligenti”. E seguito perciò da scuse (ovviamente insincere, ma questo è il mondo e il modo della diplomazia internazionale).
Neanche Pinochet, nel corso del golpe, osò violare l’immunità anche di una sola tra tutte quelle sedi diplomatiche che avevano aperto i cancelli agli antifascisti cileni per sottrarli alla morte.
Israele ha superato l’ennesima “linea rossa” che lo separa e contrappone al resto del mondo.
La risposta iraniana a un atto di guerra diretto – non verso i proxy, insomma, o in un teatro di combattimento – poteva avere molte forme, ognuna delle quali avrebbe messo in moto controrisposte potenzialmente fuori controllo.
Invece, come sottolinea persino un esperto giornalista del confindustriale Sole24Ore, “Teheran ha compiuto un’azione per certi versi perfetta”. Sul piano politico, ovviamente, ma per alcuni versi anche su quello militare.
Intanto ha preavvertito gli Stati Uniti delle proprie intenzioni e circa i mezzi usati: droni “lenti”, che hanno impiegato nove-ore-nove per arrivare su Israele, dando tutto il tempo di preparare il loro abbattimento. Ma anche qualche missile balistico molto veloce che invece ha colpito le basi da cui, probabilmente, erano partiti gli aerei che avevano bersagliato l’ambasciata a Damasco.
Molti innocui “fuochi d’artificio”, qualche sberla ben assestata. Poi l’offerta di farla finita “pari e patta”, immediatamente presa al volo... dagli Stati Uniti, che cominciano forse a capire a quali rischi li esponga un regime come quello di Tel Aviv, visibilmente preda di una “visione millenaristica, simile a quella dell’Isis musulmano”.
L’iniziativa del G7, frettolosamente riunito da Giorgia Meloni, è stata a metà strada tra il ridicolo e l’irresponsabile. La “condanna dell’attacco iraniano” sarebbe infatti stata diplomaticamente logica se preceduta, dieci giorni fa, da un’analoga condanna del bombardamento israeliano di Damasco. Ma quello “andava bene”, la risposta dell’Iran no. Fine di qualsiasi ruolo di “mediazione”.
Mai ridicola, comunque, quanto la corsa all’arruolamento da parte di Elly Schlein, che ha offerto la solidarietà al governo post-fascista in nome dell’“interesse nazionale”. Proprio come quei “socialisti” che votavano i crediti di guerra per la Prima guerra mondiale.
Su un solo punto tutti gli analisti sono universalmente concordi: ora siamo nelle mani di Netanyahu.
“Noi” nel senso dell’“Occidente collettivo”. Ma anche “noi” in senso planetario, perché Israele – anche se lo ha sempre negato – ha qualche decina di testate nucleari. E un governo sufficientemente fuori di testa da poterle usare.
E nessuno può illudersi che dopo finirebbe lì.
“Ora siamo nelle mani di Netanyahu” è una sintesi che dà la misura della follia con cui l’imperialismo Usa ha gestito “la pratica Israele” negli ultimi 75 anni.
Siamo nelle mani di una “testa di cuoio” che prese parte all’assalto “antiterrorismo” all’aeroporto di Lod, nel 1972, restando anche ferito da “fuoco amico”. Una mentalità, vien da pensare, non proprio “dialogante”.
Ma lo sconcerto aumenta quando si guarda alle possibili alternative, nessuna delle quali davvero “differente” in termini di strategia e visione internazionale.
Il cosiddetto “leader dell’opposizione” – l’ex generale Benny Gantz – si distingue solo per il fatto di ritenere la controrisposta militare israeliana possibile “all’interno di una coalizione allargata”. Il che consegna agli alleati – Usa, Francia, Gran Bretagna – un qualche potere di veto sulle soluzioni più estreme. Nulla di più.
Ma deve esser chiaro che questa cerchia di ex “padroni di tutto” è costretta oramai a fare i conti con un mondo che non sopporta più il “suprematismo occidentale”. E, pur nella diversità di interessi, regimi, modelli sociali, ha il “peso” economico e politico per farsi sentire.
La cosa intelligente sarebbe fermarsi e ragionare, disegnare un nuovo patto globale accettando il fatto che il mondo è cambiato. Ma la qualità delle classi politiche – da Washington a Parigi, da Tel Aviv a Roma, da Londra a Berlino – non lascia intravedere significativi sprazzi di intelligenza.
Ed è su questo incerto crinale che si gioca il futuro dell’umanità intera.
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