Un gran vociare si è fatto sui negoziati intorno alle alte cariche dell’Unione europea, che determineranno le nomine degli alti vertici delle principali istituzioni comunitarie. Mentre tutti guardavano altrove, però, lo scorso 19 giugno la Commissione europea ha pubblicato, ai sensi dell’articolo 126, comma 3 del Trattato sul funzionamento dell’Unione, la comunicazione COM (2024) 598, con cui determina l’apertura di una procedura per deficit eccessivo nei confronti di sette paesi, tra cui l’Italia (oltre a Francia, Belgio, Ungheria, Malta, Polonia e Slovacchia).
Se le nomine disegnano la geografia politica dell’Unione europea con la sua nomenklatura, peraltro in piena continuità con il passato, la decisione sulla procedura per deficit eccessivo definisce alcuni paletti della politica economica dei prossimi anni che condizioneranno in maniera ben più significativa il destino del nostro Paese, a prescindere da chi sarà al timone della burocrazia europea, ma anche a prescindere da chi sarà alla guida del governo italiano.
Nella sua comunicazione del 19 giugno, la Commissione europea ha illustrato i dati che impongono l’apertura della procedura per deficit eccessivo a carico dell’Italia e degli altri paesi fiscalmente indisciplinati: nel nostro caso, un deficit pubblico (differenza tra uscite ed entrate dello Stato, tra spesa pubblica e tasse) del 7,4% del PIL nel 2023 si pone ben al di là della soglia del 3% prevista dai trattati, e viene giudicato un fenomeno strutturale e non temporaneo.
Sulla base di questa fredda prognosi, la Commissione europea attiva la procedura per deficit eccessivo, che impone al Paese coinvolto un adeguamento fiscale annuo per almeno lo 0,5% del PIL.
È il ritorno, solenne e formale, dell’austerità, momentaneamente sospesa – nei termini tecnici dell’Unione europea – durante gli anni della pandemia per far fronte all’emergenza creata dalla diffusione del Covid, quando gli Stati membri sono stati di fatto autorizzati a utilizzare lo strumento della spesa pubblica ben oltre i rigidi vincoli imposti dai trattati europei.
Dal 19 giugno scorso, dopo oltre quattro anni di sospensione ufficiale, quei vincoli sono tornati a dominare la politica economica dei 27 Stati membri dell’Unione, con conseguenze economiche e sociali che si manifesteranno presto nei sette Paesi oggetto della procedura per deficit eccessivo.
Questo avverrà, però, in maniera leggermente diversa e ancora più pervasiva rispetto al passato. Il Patto di stabilità, il principale strumento di disciplina delle regole di bilancio dell’Unione europea, è stato infatti nel frattempo riformato. In attuazione di questo nuovo moloch, la Commissione europea ha comunicato a ciascuno Stato membro la traiettoria di rientro dal debito pubblico che si attende nei prossimi anni, attraverso una comunicazione che non è stata resa pubblica ma i cui contenuti hanno comunque fatto capolino sui principali mezzi di informazione. Come raccontavamo a gennaio, ciascun Paese ha di fronte a sé due alternative. Nello scenario base, l’arco temporale entro cui sistemare i propri conti è di quattro anni, cosa che nel caso italiano si tradurrebbe in tagli alla spesa pubblica intorno all’1,1% del PIL ogni anno. In alternativa, al prezzo di precisi impegni a portare avanti le pervasive riforme strutturali imposte dalla Commissione, il processo di aggiustamento può essere spalmato su sette anni, con tagli annui che nel caso italiano si attestano nell’ordine dello 0,6% del PIL.
Questo significa che il nostro Paese, nella meno peggiore delle ipotesi (la traiettoria che spalma su sette anni la correzione dei conti) dovrà sacrificare in media oltre 13 miliardi di euro all’anno per sette anni consecutivi sull’altare dell’austerità europea, cifre confermate persino dall’organo parlamentare di vigilanza sulle politiche di bilancio italiane voluto dell’Europa, l’Ufficio parlamentare di bilancio. Detto in altri termini, in virtù della riattivazione dei vincoli di bilancio europei, l’Italia deve prepararsi ad una lunga stagione di sacrifici, tagli alla spesa sociale, alle pensioni, ai servizi pubblici, con la tagliola ulteriore che qualsiasi deviazione dal percorso di “riforme” concordato con la Commissione implicherà un’accelerazione ulteriore della macelleria sociale, con i sacrifici da concentrare in quattro anni, al ritmo di 25 miliardi di euro per anno.
Questo primo bivio tra percorso quadriennale e settennale di rientro, va ricordato, non è semplicemente un dettaglio tecnico o quantitativo. Tra gli impegni europei che un Paese “diligente” deve rispettare vi è ad esempio il PNRR, con le sue riforme improntate alla liberalizzazione e alla deregolamentazione. Se un domani l’Italia rinsavisse e tornasse sui propri passi con riferimento anche ad una sola delle riforme strutturali imposte attraverso il PNRR, si troverebbe costretta ad aggiustare i propri conti in poco più della metà del tempo (quattro anni invece di sette), e dunque a praticare il doppio della macelleria sociale che già oggi ci aspetta. Ma proviamo ad essere più concreti e facciamo riferimento ad una di queste riforme, la fine del mercato tutelato dell’energia elettrica: l’Italia, con il PNRR, ha posto fine al mercato di maggior tutela, che assicurava prezzi calmierati di un bene di prima necessità come l’energia elettrica. Se un domani si riuscisse a frenare la liberalizzazione selvaggia del mercato elettrico, che espone milioni di famiglie alle speculazioni delle multinazionali del settore senza alcun controllo dei prezzi, l’Italia si troverebbe costretta a raddoppiare i tagli alla spesa imposti dai vincoli di bilancio europei.
Per avere un’idea anche vaga dell’ordine di grandezza di questi sacrifici, basti pensare che la timida manovra fiscale del governo Meloni per il 2024, una manovra che ha elargito risorse solo alle imprese lasciando a bocca asciutta i lavoratori e le famiglie, è comunque costata più di 20 miliardi di euro. Da domani, lo stesso governo Meloni, per rispettare il nuovo Patto di stabilità europeo, dovrà non solo rinunciare a spendere tutte queste risorse, ma dovrà racimolare (almeno) 13 miliardi di euro tagliando salari pubblici, pensioni, servizi, infrastrutture, in un rendez vous atteso entro il 20 settembre, data entro la quale il Governo è chiamato a presentare il cosiddetto Piano strutturale di bilancio di medio termine.
Questa, in ultima analisi, è la più chiara e limpida rappresentazione dell’Unione europea, un’immagine molto più definita rispetto alle complesse alchimie partitiche di cui si discute in queste ore, un progetto politico che condiziona la politica economica di 27 Paesi ad economia avanzata nel senso della progressiva erosione dello stato sociale e della continua deregolamentazione.
Sono termini a cui oltre quattro anni di politiche emergenziali dettate dalla pandemia – accompagnate dalle fanfare del “nulla sarà più come prima” e del “non si torna al passato” – ci avevano momentaneamente disabituato. Tuttavia, sono principi fondanti dell’architettura istituzionale entro cui il nostro Paese si muove, e si stanno riaffermando proprio in queste ore nel cuore dell’Europa, in Italia ma anche in Francia, dove i processi politici di normalizzazione politica delle destre si accompagnano ai processi sociali di pacificazione dei conflitti e ai processi – tutti economici – di desertificazione industriale e di smantellamento dello stato sociale. Da domani sarà questo il fronte della resistenza.
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