Ieri il segretario generale della NATO Mark Rutte ha partecipato a Bruxelles a un evento promosso da Carnegie Europe, uno di quei think tank le cui iniziative diventano spesso piattaforme per la presentazione di indirizzi programmatici da parte di politici di punta. Così è stato anche per l’ex capo di governo olandese.
Il dibattito, organizzato insieme alla Divisione di diplomazia pubblica della NATO, aveva come tema le sfide che dovrà affrontare l’alleanza euroatlantica nel prossimo futuro, e sulle priorità strategiche che i suoi membri dovranno perseguire per trovarsi preparati. Il messaggio è stato molto netto: “dobbiamo passare a una mentalità di guerra”.
Con questa formula il segretario dell’alleanza militare ha reso chiaro che “bisogna” passare a un modello sociale ed economico in cui la preminenza ce l’hanno le questioni di politica estera. In sostanza, accelerare sulla strada di un’economia di guerra, le cui risorse vanno prese dalle spese sociali.
La giustificazione offerta – non potendo dire che nella crisi l’unica risposta che il capitale trova è quella di armarsi e mandare a morire la gente per conquistare nuovi mercati al profitto – è quella della “sicurezza” da una “minaccia esterna”. Il riarmo come deterrenza a scoraggiare i “nemici” dal disturbare il “giardino” trasformato in fortezza.
“Per prevenire la guerra, la NATO deve spendere di più”, è il messaggio di Rutte. Qualcuno dovrebbe aprirgli un libro di storia, sul primo ventennio del secolo scorso, e spiegargli che l’effetto è il “paradosso della sicurezza”: una corsa agli armamenti dei vari attori in gioco, in un circolo vizioso che, già all’epoca, portò alla carneficina della Prima guerra mondiale.
Le formule paradossali sono continuate. “Non siamo in guerra, ma non siamo nemmeno in pace”, ha detto sempre il politico olandese, affermando che quello per cui lavora la filiera euroatlantica è quello che accadrà fra qualche anno, quando i “nemici dell’Occidente”, a suo avviso, si sentiranno abbastanza pronti da colpirlo direttamente.
“L’industria della difesa della Russia sta producendo un numero enorme di carri armati, veicoli blindati e munizioni. Ciò che la Russia manca di qualità, compensa in quantità con l’aiuto di Cina, Iran e Corea del Nord”, ha affermato Rutte, delineando il solito “asse del male” ormai diventato oggetto della propaganda guerrafondaia occidentale.
“Tutto questo”, ha concluso, “punta in una direzione chiara: la Russia si prepara al confronto a lungo termine”. Il sottinteso è che anche il blocco euroatlantico deve fare lo stesso, facendo la stessa cosa di Mosca, ovvero spendere e produrre molto più in ambito bellico, sviluppando nuove tecnologie per il settore.
Insomma, per farla breve, l’obiettivo del 2% del PIL per la spesa militare non basta più e “nei prossimi mesi dovremmo accordarci su quale sarà la nuova soglia”. Non si tratterà solo di spendere di più, ma anche in maniera più coordinata per far fronte a un’industria della difesa europea “troppo piccola, troppo frammentata e troppo lenta”.
I soldi, ovviamente, saranno presi dalle spese sociali, considerate pressoché inutili. “I paesi europei”, sottolinea Rutte, “destinano facilmente fino a un quarto delle loro entrate a pensioni, sanità e sistemi di sicurezza sociale. Ci serve solo una piccola frazione di quel denaro per rafforzare molto le nostre difese e servire al meglio il nostro popolo”.
Quel che ha continuato a dire sul tema ha dell’incredibile: “in Europa siamo il 10% della popolazione mondiale e spendiamo il 50% di tutta la spesa mondiale per la sicurezza sociale. Quindi, in questo senso, abbiamo un certo margine di manovra”. Come per il libro di storia poco sopra, qualcuno dovrebbe ricordargli che, secondo l’Eurostat, il 20% della popolazione europea vive sotto la soglia di povertà.
Ma non c’è mai limite al peggio. Il segretario della NATO ha detto che da parte delle banche, dei fondi di pensione, dei semplici cittadini è persino “inaccettabile rifiutarsi di investire nella difesa”. Appunto, l’idea è creare un nuovo sistema integrato, un nuovo patto sociale, fondato non sull’occupazione e la garanzia del reddito, ma sul complesso militare-industriale.
E, ciliegina sulla torta, un po’ di anticomunismo per cementare ideologicamente lo sforzo: “abbiamo alzato la spesa militare, ma spendiamo meno che nella Guerra Fredda. Allora gli europei spendevano più del 3%. Con quella mentalità abbiamo vinto”. E poi hanno distrutto lo stato sociale e, oramai, anche la produzione industriale di un intero continente.
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