di Mario Lombardo
I risultati
ufficiali delle elezioni del 31 luglio in Zimbabwe hanno assegnato una
chiara vittoria al partito al potere nel paese africano fin
dall’indipendenza (Unione Nazionale Africana Zimbabwe-Fronte
Patriottico, ZANU-PF) e al suo anziano leader, Robert Mugabe, decretando
invece una pesantissima sconfitta per il Movimento per il Cambiamento
Democratico (MDC) filo-occidentale del premier ed ex leader sindacale
Morgan Tsvangirai. Se il voto per il rinnovo del Parlamento e per la
scelta del nuovo presidente è stato indubbiamente segnato da brogli e
intimidazioni, l’esito della discussa consultazione della scorsa
settimana riflette in gran parte la relativa persistente popolarità del
presidente Mugabe e il discredito sempre più marcato del principale
partito di opposizione.
A differenza della crisi esplosa dopo le
elezioni del 2008, l’appuntamento con le urne nel paese dell’Africa del
sud è apparso in questa occasione sostanzialmente privo di scontri e
violenze. Attivisti locali e osservatori internazionali hanno però
evidenziato una serie di problematiche, dall’eccessivo numero di schede
elettorali stampate in svariate località alla quantità sproporzionata di
votanti che necessitavano di assistenza all’interno della cabina
elettorale.
A un certo numero di elettori è stato poi impedito di
esprimere la propria preferenza una volta presentatisi ai seggi,
soprattutto nelle principali città del paese dove l’MDC di Tsvangirai
dovrebbe raccogliere il maggior numero di consensi. Le delegazioni
dell’Unione Africana e della Comunità per lo Sviluppo dell’Africa
Meridionale (SADC), pur avendo anch’esse segnalato irregolarità, nelle
proprie dichiarazioni ufficiali hanno escluso che esse abbiano raggiunto
livelli tali da chiedere l’annullamento del voto. Ai rappresentanti di
Europa e Stati Uniti è stato invece impedito l’ingresso nel paese per
monitorare lo svolgersi delle elezioni.
Le due organizzazioni
africane hanno poi invitato Tsvangirai e i vertici del suo partito ad
accettare il risultato finale, anche se “doloroso”. Il primo ministro,
infatti, non appena si era profilata la sconfitta, aveva definito il
voto una “farsa”, aggiungendo che se le operazioni fossero state
condotte in maniera regolare il suo partito avrebbe senza dubbio
trionfato. L’MDC aveva peraltro contestato le stesse elezioni, la cui
data era stata anticipata da Mugabe dopo il passaggio di un referendum
costituzionale nel marzo di quest’anno
La credibilità delle
elezioni in Zimbabwe è stata subito messa in discussione anche
dall’Occidente, con in particolare i governi di Londra e Washington che
hanno chiesto indagini sui brogli. Il segretario di Stato americano,
John Kerry, ha affermato che “gli Stati Uniti ritengono che i risultati
annunciati sabato non rappresentino l’espressione della volontà del
popolo dello Zimbabwe”. Simili prese di posizione rischiano di
infiammare gli animi nel paese africano, dove gli scontri elettorali nel
2008 fecero più di 200 morti.
L’MDC
ha comunque manifestato per ora l’intenzione di percorrere le vie
legali per contestare il risultato del voto. Secondo la legge dello
Zimbabwe, qualsiasi reclamo può essere presentato alla Corte
Costituzionale entro sette giorni dall’annuncio ufficiale dei risultati.
La Corte ha poi due giorni per emettere una sentenza, anche se un esito
favorevole all’opposizione appare improbabile, anche perché i suoi
membri sono in gran parte fedeli a Mugabe.
I risultati ufficiali
diffusi dalla Commissione Elettorale, in ogni caso, hanno assegnato 158
seggi sui 210 totali della Camera bassa del Parlamento allo ZANU-PF di
Mugabe, vale a dire una maggioranza di oltre i due terzi che consentirà
al partito al potere di modificare a piacimento la Costituzione. L’MDC
di seggi ne ha ottenuti invece 51, dimezzando la propria rappresentanza
conquistata nel 2008.
Il voto per le presidenziali ha inoltre
premiato l’89enne eroe dell’indipendenza con il 61% dei consensi, mentre
Morgan Tsvangirai si è fermato al 34%. Nelle elezioni di cinque anni
fa, quest’ultimo aveva ricevuto un numero maggiore di consensi rispetto a
Mugabe nel primo turno delle presidenziali ma si era poi ritirato dal
ballottaggio per fermare le violenze commesse dalle forze di sicurezza
ai danni dei propri sostenitori.
Dopo gli scontri, la comunità
internazionale aveva negoziato un fragile accordo tra i due rivali, i
quali erano entrati in un governo di coalizione con Mugabe presidente e
Tsvangirai premier. Da allora, il tracollo dell’economia dello Zimbabwe è
stato in parte arrestato, mentre la decisione del 2009 di abbandonare
la valuta locale per il dollaro USA aveva invertito una spirale
inflattiva che aveva raggiunto livelli stratosferici. Secondo molti
osservatori, tuttavia, l’accordo con lo ZANU-PF ha logorato l’MDC,
esponendolo alle manovre dell’anziano presidente e determinando una
rapida disaffezione tra gli elettori.
Se la formazione di un
governo di unità nazionale nel 2008 con Mugabe ha in parte contribuito
al declino elettorale dell’MDC, il principale partito di opposizione ha
pagato soprattutto, da un lato, l’adattamento ai vantaggi della
posizione di potere conquistata e, dall’altro, la percezione in gran
parte giustificata di essere un partito che rappresenta gli interessi
dei governi occidentali e del capitale internazionale.
Un’analisi
del New York Times nello scorso mese di aprile aveva ad esempio
descritto il crescente malcontento diffuso nel paese nei confronti di
leader di partito coinvolti in numerosi episodi di corruzione e che si
circondano di ricchezze e comodità, mentre la maggior parte della
popolazione deve sopravvivere con un reddito di 2 dollari al giorno.
Lo
stesso premier Tsvangirai è stato quest’anno al centro di polemiche per
il proprio matrimonio faraonico e la costruzione di un’abitazione
costata qualcosa come 3 milioni di dollari. Il partito è stato poi
coinvolto in una serie di scandali, tra cui uno nel quale i suoi membri
sono stati accusati di avere ceduto terreni pubblici in cambio di
compensi per svariate migliaia di dollari.
Le pretese di
Tsvangirai di avere partecipato ad un’elezione manipolata non trovano
poi riscontro in un sondaggio condotto qualche mese fa da una ONG
americana - Freedom House - tutt’altro che insensibile agli interessi di
Washington all’estero. Secondo questa indagine, infatti, i consensi per
l’MDC erano scesi dal 38% del 2010 al 20%, mentre lo ZANU-PF era salito
nelle intenzioni di voto dal 17% al 31%.
Se Mugabe e il suo
partito vengono poi incessantemente definiti dai meda occidentali come i
cardini di un regime opprimente e dittatoriale, il movimento che ha
portato lo Zimbabwe all’indipendenza dalla Gran Bretagna nel 1980 e il
suo leader beneficiano tuttora di un certo gradimento tra la
popolazione, in particolare grazie alla storica riforma dei terreni
agricoli, nonché alle politiche di nazionalizzazione e di
“indigenizzazione” messe in atto.
La
redistribuzione delle terre ha permesso a quasi 250 mila agricoltori di
colore di lavorare aziende in precedenza nelle mani di appena seimila
imprenditori bianchi. Se inizialmente una simile rivoluzione ha creato
problemi enormi, essa non solo ha una valenza simbolica fondamentale
nella storia post-coloniale dello Zimbabwe ma ha anche prodotto
recentemente risultati migliori, con alcuni studi che hanno evidenziato
come la produzione agricola stia lentamente tornando ai livelli di due
decenni fa.
Un’altra iniziativa di Mugabe sgradita all’Occidente e
ai grandi interessi economici internazionali è stata quella che ha
stabilito come la maggioranza della proprietà delle aziende operanti in
settori strategicamente fondamentali per l’interesse nazionale debba
rimanere nelle mani di cittadini dello Zimbabwe.
Se la
redistribuzione delle terre e l’indigenizzazione dell’economia hanno
indubbiamente creato una rete clientelare attorno al regime dello
ZANU-PF, entrambi i programmi sono risultati decisivi per gettare le
basi di un sistema di crescita indipendente.
Queste misure sono
state fortemente combattute dall’MDC, le cui politiche economiche, al
contrario, si basano fondamentalmente sull’integrazione dello Zimbabwe
nei circuiti del capitale internazionale, così da mettere a disposizione
dell’Occidente le risorse del paese e trasformarlo in una piattaforma
per lo sfruttamento di manodopera a bassissimo costo.
A influire
sul rovescio elettorale di Tsvangirai è stata anche l’immagine di un
politico e di un partito irrimediabilmente legati a Washington e a
Londra. Alcuni documenti pubblicati nel 2010 da WikiLeaks avevano
addirittura spinto le autorità dello Zimbabwe ad aprire un’indagine per
cospirazione e tradimento contro il primo ministro, il quale aveva
chiesto segretamente al governo americano di mantenere le sanzioni
economiche applicate al suo paese nonostante avesse sostenuto
pubblicamente di volersi battere per la loro soppressione.
Le
vaghe promesse di “trasparenza”, “democrazia” e “cambiamento” dell’MDC
di Tsvangirai sono apparse perciò a molti soltanto slogan per nascondere
gli obiettivi dei grandi interessi stranieri nel paese sudafricano,
ostacolati dal nazionalismo economico promosso da Robert Mugabe. Non a
caso, la prospettiva di “cambiamento” avanzata dal principale partito di
opposizione è stata respinta proprio da quella fascia di popolazione
che avrebbe dovuto risultare maggiormente sensibile a questa promessa,
cioè gli elettori più giovani che, secondo i dati ufficiali, hanno
invece premiato in larga misura lo ZANU-PF.
Se le proteste
dell’MDC contro i risultati del voto della scorsa settimana dovessero
proseguire nei prossimi giorni, è probabile dunque che lo Zimbabwe
assisterà a nuove violenze, come conferma in questi giorni il
dispiegamento di forze di sicurezza nella capitale, Harare, e nelle
altre più importanti città. A gettare benzina sul fuoco potrebbero
essere ancora una volta anche i governi occidentali, a cominciare da
quello americano, i cui progetti di espansione nel continente africano
continuano ad essere parzialmente frustrati da regimi come quello
guidato da oltre trent’anni da Robert Mugabe.
Fonte
Nessun commento:
Posta un commento