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06/08/2013

Zimbabwe, ancora Mugabe

di Mario Lombardo

I risultati ufficiali delle elezioni del 31 luglio in Zimbabwe hanno assegnato una chiara vittoria al partito al potere nel paese africano fin dall’indipendenza (Unione Nazionale Africana Zimbabwe-Fronte Patriottico, ZANU-PF) e al suo anziano leader, Robert Mugabe, decretando invece una pesantissima sconfitta per il Movimento per il Cambiamento Democratico (MDC) filo-occidentale del premier ed ex leader sindacale Morgan Tsvangirai. Se il voto per il rinnovo del Parlamento e per la scelta del nuovo presidente è stato indubbiamente segnato da brogli e intimidazioni, l’esito della discussa consultazione della scorsa settimana riflette in gran parte la relativa persistente popolarità del presidente Mugabe e il discredito sempre più marcato del principale partito di opposizione.

A differenza della crisi esplosa dopo le elezioni del 2008, l’appuntamento con le urne nel paese dell’Africa del sud è apparso in questa occasione sostanzialmente privo di scontri e violenze. Attivisti locali e osservatori internazionali hanno però evidenziato una serie di problematiche, dall’eccessivo numero di schede elettorali stampate in svariate località alla quantità sproporzionata di votanti che necessitavano di assistenza all’interno della cabina elettorale.

A un certo numero di elettori è stato poi impedito di esprimere la propria preferenza una volta presentatisi ai seggi, soprattutto nelle principali città del paese dove l’MDC di Tsvangirai dovrebbe raccogliere il maggior numero di consensi. Le delegazioni dell’Unione Africana e della Comunità per lo Sviluppo dell’Africa Meridionale (SADC), pur avendo anch’esse segnalato irregolarità, nelle proprie dichiarazioni ufficiali hanno escluso che esse abbiano raggiunto livelli tali da chiedere l’annullamento del voto. Ai rappresentanti di Europa e Stati Uniti è stato invece impedito l’ingresso nel paese per monitorare lo svolgersi delle elezioni.

Le due organizzazioni africane hanno poi invitato Tsvangirai e i vertici del suo partito ad accettare il risultato finale, anche se “doloroso”. Il primo ministro, infatti, non appena si era profilata la sconfitta, aveva definito il voto una “farsa”, aggiungendo che se le operazioni fossero state condotte in maniera regolare il suo partito avrebbe senza dubbio trionfato. L’MDC aveva peraltro contestato le stesse elezioni, la cui data era stata anticipata da Mugabe dopo il passaggio di un referendum costituzionale nel marzo di quest’anno

La credibilità delle elezioni in Zimbabwe è stata subito messa in discussione anche dall’Occidente, con in particolare i governi di Londra e Washington che hanno chiesto indagini sui brogli. Il segretario di Stato americano, John Kerry, ha affermato che “gli Stati Uniti ritengono che i risultati annunciati sabato non rappresentino l’espressione della volontà del popolo dello Zimbabwe”. Simili prese di posizione rischiano di infiammare gli animi nel paese africano, dove gli scontri elettorali nel 2008 fecero più di 200 morti.

L’MDC ha comunque manifestato per ora l’intenzione di percorrere le vie legali per contestare il risultato del voto. Secondo la legge dello Zimbabwe, qualsiasi reclamo può essere presentato alla Corte Costituzionale entro sette giorni dall’annuncio ufficiale dei risultati. La Corte ha poi due giorni per emettere una sentenza, anche se un esito favorevole all’opposizione appare improbabile, anche perché i suoi membri sono in gran parte fedeli a Mugabe.

I risultati ufficiali diffusi dalla Commissione Elettorale, in ogni caso, hanno assegnato 158 seggi sui 210 totali della Camera bassa del Parlamento allo ZANU-PF di Mugabe, vale a dire una maggioranza di oltre i due terzi che consentirà al partito al potere di modificare a piacimento la Costituzione. L’MDC di seggi ne ha ottenuti invece 51, dimezzando la propria rappresentanza conquistata nel 2008.

Il voto per le presidenziali ha inoltre premiato l’89enne eroe dell’indipendenza con il 61% dei consensi, mentre Morgan Tsvangirai si è fermato al 34%. Nelle elezioni di cinque anni fa, quest’ultimo aveva ricevuto un numero maggiore di consensi rispetto a Mugabe nel primo turno delle presidenziali ma si era poi ritirato dal ballottaggio per fermare le violenze commesse dalle forze di sicurezza ai danni dei propri sostenitori.

Dopo gli scontri, la comunità internazionale aveva negoziato un fragile accordo tra i due rivali, i quali erano entrati in un governo di coalizione con Mugabe presidente e Tsvangirai premier. Da allora, il tracollo dell’economia dello Zimbabwe è stato in parte arrestato, mentre la decisione del 2009 di abbandonare la valuta locale per il dollaro USA aveva invertito una spirale inflattiva che aveva raggiunto livelli stratosferici. Secondo molti osservatori, tuttavia, l’accordo con lo ZANU-PF ha logorato l’MDC, esponendolo alle manovre dell’anziano presidente e determinando una rapida disaffezione tra gli elettori.

Se la formazione di un governo di unità nazionale nel 2008 con Mugabe ha in parte contribuito al declino elettorale dell’MDC, il principale partito di opposizione ha pagato soprattutto, da un lato, l’adattamento ai vantaggi della posizione di potere conquistata e, dall’altro, la percezione in gran parte giustificata di essere un partito che rappresenta gli interessi dei governi occidentali e del capitale internazionale.

Un’analisi del New York Times nello scorso mese di aprile aveva ad esempio descritto il crescente malcontento diffuso nel paese nei confronti di leader di partito coinvolti in numerosi episodi di corruzione e che si circondano di ricchezze e comodità, mentre la maggior parte della popolazione deve sopravvivere con un reddito di 2 dollari al giorno.

Lo stesso premier Tsvangirai è stato quest’anno al centro di polemiche per il proprio matrimonio faraonico e la costruzione di un’abitazione costata qualcosa come 3 milioni di dollari. Il partito è stato poi coinvolto in una serie di scandali, tra cui uno nel quale i suoi membri sono stati accusati di avere ceduto terreni pubblici in cambio di compensi per svariate migliaia di dollari.

Le pretese di Tsvangirai di avere partecipato ad un’elezione manipolata non trovano poi riscontro in un sondaggio condotto qualche mese fa da una ONG americana - Freedom House - tutt’altro che insensibile agli interessi di Washington all’estero. Secondo questa indagine, infatti, i consensi per l’MDC erano scesi dal 38% del 2010 al 20%, mentre lo ZANU-PF era salito nelle intenzioni di voto dal 17% al 31%.

Se Mugabe e il suo partito vengono poi incessantemente definiti dai meda occidentali come i cardini di un regime opprimente e dittatoriale, il movimento che ha portato lo Zimbabwe all’indipendenza dalla Gran Bretagna nel 1980 e il suo leader beneficiano tuttora di un certo gradimento tra la popolazione, in particolare grazie alla storica riforma dei terreni agricoli, nonché alle politiche di nazionalizzazione e di “indigenizzazione” messe in atto.

La redistribuzione delle terre ha permesso a quasi 250 mila agricoltori di colore di lavorare aziende in precedenza nelle mani di appena seimila imprenditori bianchi. Se inizialmente una simile rivoluzione ha creato problemi enormi, essa non solo ha una valenza simbolica fondamentale nella storia post-coloniale dello Zimbabwe ma ha anche prodotto recentemente risultati migliori, con alcuni studi che hanno evidenziato come la produzione agricola stia lentamente tornando ai livelli di due decenni fa.

Un’altra iniziativa di Mugabe sgradita all’Occidente e ai grandi interessi economici internazionali è stata quella che ha stabilito come la maggioranza della proprietà delle aziende operanti in settori strategicamente fondamentali per l’interesse nazionale debba rimanere nelle mani di cittadini dello Zimbabwe.

Se la redistribuzione delle terre e l’indigenizzazione dell’economia hanno indubbiamente creato una rete clientelare attorno al regime dello ZANU-PF, entrambi i programmi sono risultati decisivi per gettare le basi di un sistema di crescita indipendente.

Queste misure sono state fortemente combattute dall’MDC, le cui politiche economiche, al contrario, si basano fondamentalmente sull’integrazione dello Zimbabwe nei circuiti del capitale internazionale, così da mettere a disposizione dell’Occidente le risorse del paese e trasformarlo in una piattaforma per lo sfruttamento di manodopera a bassissimo costo.

A influire sul rovescio elettorale di Tsvangirai è stata anche l’immagine di un politico e di un partito irrimediabilmente legati a Washington e a Londra. Alcuni documenti pubblicati nel 2010 da WikiLeaks avevano addirittura spinto le autorità dello Zimbabwe ad aprire un’indagine per cospirazione e tradimento contro il primo ministro, il quale aveva chiesto segretamente al governo americano di mantenere le sanzioni economiche applicate al suo paese nonostante avesse sostenuto pubblicamente di volersi battere per la loro soppressione.

Le vaghe promesse di “trasparenza”, “democrazia” e “cambiamento” dell’MDC di Tsvangirai sono apparse perciò a molti soltanto slogan per nascondere gli obiettivi dei grandi interessi stranieri nel paese sudafricano, ostacolati dal nazionalismo economico promosso da Robert Mugabe. Non a caso, la prospettiva di “cambiamento” avanzata dal principale partito di opposizione è stata respinta proprio da quella fascia di popolazione che avrebbe dovuto risultare maggiormente sensibile a questa promessa, cioè gli elettori più giovani che, secondo i dati ufficiali, hanno invece premiato in larga misura lo ZANU-PF.

Se le proteste dell’MDC contro i risultati del voto della scorsa settimana dovessero proseguire nei prossimi giorni, è probabile dunque che lo Zimbabwe assisterà a nuove violenze, come conferma in questi giorni il dispiegamento di forze di sicurezza nella capitale, Harare, e nelle altre più importanti città. A gettare benzina sul fuoco potrebbero essere ancora una volta anche i governi occidentali, a cominciare da quello americano, i cui progetti di espansione nel continente africano continuano ad essere parzialmente frustrati da regimi come quello guidato da oltre trent’anni da Robert Mugabe.

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