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17/06/2014

L’Iraq undici anni dopo

di Michele Paris

Il baratro in cui sembra scivolare in questi giorni l’Iraq sta spingendo gli Stati Uniti ad impegnarsi nuovamente in maniera diretta nel paese mediorientale invaso illegalmente nel 2003 e devastato nei successivi otto anni di occupazione. La marcia del cosiddetto Stato Islamico dell’Iraq e della Siria (ISIS) verso Baghdad sta però sollevando anche numerosi inquietanti interrogativi sulla politica mediorientale di Washington.
I cui obiettivi immediati e di lungo termine, così come le manovre condotte alla luce del sole e quelle nascoste, risultano spesso difficili da decifrare, pur riservando immancabilmente sofferenza e distruzione alle popolazioni costrette a fare i conti, loro malgrado, con gli interventi “umanitari” o “democratizzatori” dell’imperialismo a stelle e strisce.

Il primo elemento da considerare per fare luce sulla crisi in corso è il rapporto degli USA con il governo iracheno del primo ministro sciita, Nouri Kamal al-Maliki. Gli organi della propaganda di Washington, come il New York Times, stanno dando spazio in questi giorni a una serie di opinioni e editoriali nei quali viene attribuita l’intera responsabilità della situazione del paese mediorientale al governo di Baghdad e alla sua natura settaria che ha finito per opprimere e marginalizzare la popolazione sunnita, creando terreno fertile per la nascita di movimenti integralisti come l’ISIS.

Se l’analisi appare in parte corretta e aiuta a spiegare il sostegno che quest’ultima formazione integralista ha trovato tra la popolazione sunnita di città come Mosul o Tikrit, simili critiche, tuttavia, mancano volutamente di considerare il fatto che lo stesso Maliki è stato installato per volere proprio degli Stati Uniti. I metodi sempre più autoritari del governo di Maliki e la persecuzione della minoranza sunnita sono stati anzi appoggiati da Washington, dal momento che servivano a neutralizzare la resistenza all’occupazione soprattutto tra i sostenitori del precedente regime di Saddam Hussein.

Maliki ha così beneficiato dell’appoggio politico degli Stati Uniti e, soprattutto, l’esercito iracheno - definito oggi come uno strumento di oppressione della popolazione di fede sunnita - ha ricevuto sostanziosi finanziamenti, forniture di armi e addestramento sia prima che dopo il ritiro delle forze di occupazione americane alla fine del 2011.

Dal momento che gli scrupoli per i metodi poco democratici di un regime alleato figurano molto lontano dalle priorità della politica estera statunitense, le critiche aperte dei media d’oltreoceano verso Maliki e quelle più velate dell’amministrazione Obama non promettono nulla di buono per il premier iracheno.

I rimproveri di Obama riguardano in particolare la natura settaria del governo di Maliki, incoraggiato, per così dire, a formare un esecutivo più “inclusivo”, che dia maggiore spazio cioè alle élites sunnite e curde, non solo a livello politico ma anche nelle forze armate.

Questi “consigli” elargiti al primo ministro sciita di Baghdad, oltre a rappresentare una prima prova dell’apparente schizofrenia americana, si legano con ogni probabilità al tentativo di ridurre l’ascendente dell’Iran sul paese che fu di Saddam Hussein.

Maliki, d’altra parte, è di fatto sponsorizzato da Teheran, così che gli inviti degli USA ad imbarcare in una sorta di improbabile governo di unità nazionale sunniti e curdi con responsabilità e autorità simili a quelle della classe dirigente sciita hanno come fine quello di diluire l’influenza della Repubblica Islamica sull’Iraq. Tanto più che i progressi di ISIS nel nord-ovest dell’Iraq hanno già portato all’avanzata delle forze armate della regione autonoma curda (Peshmerga), in grado qualche giorno fa di sottrarre al controllo di Baghdad la città petrolifera di Kirkuk.

In questa prospettiva è opportuno ricordare la rivelazione pubblicata la settimana scorsa dal New York Times, nella quale è emerso come mesi fa l’amministrazione Obama avesse respinto le richieste di assistenza militare di un governo Maliki, già in apprensione per la crescente forza di ISIS nelle aree di confine con la Siria, dove il gruppo jihadista è impegnato nella guerra contro il regime di Bashar al-Assad.

Che Washington non fosse a conoscenza della grave minaccia rappresentata da ISIS è a dir poco impensabile, dal momento che questa formazione è finanziata e armata da altri alleati americani - evidentemente più influenti e strategici dell’Iraq di Maliki - come Arabia Saudita, Kuwait o Qatar. Inoltre, gli Stati Uniti e lo “Stato Islamico” si ritrovano a combattere sullo stesso fronte in Siria, il cui regime è invece sostenuto dal governo sciita di Baghdad.

Nei confronti di Maliki, gli americani hanno manifestato anche nel recente passato più di un disappunto, apparso evidente, ad esempio, in occasione di richieste sottoposte al suo governo e andate in gran parte a vuoto. Tra di esse vanno ricordate almeno quelle volte a fermare l’afflusso di guerriglieri sciiti verso la Siria per combattere al fianco di Assad e a mettere fine alla concessione dello spazio aereo iracheno ai velivoli iraniani diretti a Damasco con materiale militare da utilizzare nella guerra civile in corso.

L’attitudine da tempo in fase di trasformazione degli Stati Uniti nei confronti del governo Maliki sembra comunque scontrarsi con le promesse di aiuto che lo stesso Obama ha annunciato nei giorni scorsi, anche se qualsiasi misura dovesse essere decisa potrebbe essere di portata relativamente  limitata. Iniziative in apparenza contraddittorie, in ogni caso, sono una costante della politica estera USA, all’interno della quale il concetto di nemico e alleato varia di volta in volta a seconda delle necessità strategiche.

Ciò risulta particolarmente evidente in relazione alla “guerra al terrore”, all’interno della quale i cosiddetti nemici giurati - come ISIS - passano frequentemente e senza troppi problemi da minaccia da debellare con un intervento militare ad alleati di fatto per rovesciare regimi poco graditi.

Nel caso di ISIS, infatti, Washington ha quanto meno assistito alla sua nascita e al suo rafforzamento in Siria senza muovere un dito per combattere la minaccia terroristica che questo gruppo rappresenta, ben sapendo che il suo dilagare avrebbe costituito prima o poi un problema vitale anche per l’Iraq.

L’avanzata di ISIS, dunque, costringe ora l’amministrazione Obama a giocare una partita ancora una volta estremamente pericolosa e ambigua per promuovere gli interessi strategici americani in Medio Oriente. Una partita, appunto, iniziata proprio dagli Stati Uniti dapprima con l’invasione dell’Iraq e successivamente con la crisi siriana costruita a tavolino e che rischia come al solito di innescare un processo distruttivo difficile da controllare.

Un altro aspetto da ascrivere alla schizofrenia USA è poi legato al ruolo dell’Iran. Non solo la Repubblica Islamica è stata la prima beneficiaria dell’invasione dell’Iraq e della rimozione di Saddam Hussein, ma addirittura ora sembrerebbe potersi aprire una collaborazione tra Teheran e Washington per combattere la minaccia comune dell’ISIS.

Una prospettiva di questo genere appare però improbabile vista la predisposizione americana nei confronti dell’Iran, sempre che non serva a indebolire proprio quest’ultimo paese e, come affermato in precedenza, accompagnandola ad una riduzione della sua influenza sull’Iraq. Il primo obiettivo verrebbe perseguito trascinando Teheran in un conflitto rovinoso oltreconfine, mentre il secondo con la modifica degli equilibri di governo a Baghdad, assegnando maggiore peso alle minoranze sunnita e curda a discapito degli sciiti.

Questo fine, tuttavia, potrebbe essere raggiunto non solo costringendo Maliki a cedere parte del potere accumulato in questi anni proprio grazie agli Stati Uniti, ma anche, secondo molti osservatori, con un’ipotesi mai come ora reale, vale a dire lo smembramento dell’Iraq in tre entità separate (sciita, sunnita, curda).

Una soluzione di questo genere, d’altra parte, nel recente passato è stata apertamente promossa da importanti think tank d’oltreoceano e da personalità politiche di spicco, a cominciare dal vice-presidente Joe Biden quando era ancora senatore.

La divisione o la federalizzazione dell’Iraq determinerebbe in particolare la fine di questo paese come entità autonoma posizionata strategicamente sempre più a fianco dell’asse della “resistenza” anti-americana, formata da Siria, Iran e Hezbollah.

Un’evoluzione tutt’altro che sgradita agli Stati Uniti, nonostante l’appoggio ufficiale al governo Maliki e all’unità dell’Iraq, e favorita dalla campagna in corso dello Stato Islamico, i cui militanti sunniti, come fanno da tempo in Siria, continuano ad alimentare il fanatismo religioso e divisioni settarie che difficilmente potranno essere superate nel quadro di un paese sovrano guidato da un governo sciita e filo-iraniano.

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