di Michele Paris
Il baratro in
cui sembra scivolare in questi giorni l’Iraq sta spingendo gli Stati
Uniti ad impegnarsi nuovamente in maniera diretta nel paese
mediorientale invaso illegalmente nel 2003 e devastato nei successivi
otto anni di occupazione. La marcia del cosiddetto Stato Islamico
dell’Iraq e della Siria (ISIS) verso Baghdad sta però sollevando anche
numerosi inquietanti interrogativi sulla politica mediorientale di
Washington.
I cui obiettivi immediati e di lungo termine, così come le manovre
condotte alla luce del sole e quelle nascoste, risultano spesso
difficili da decifrare, pur riservando immancabilmente sofferenza e
distruzione alle popolazioni costrette a fare i conti, loro malgrado,
con gli interventi “umanitari” o “democratizzatori” dell’imperialismo a
stelle e strisce.
Il primo elemento da considerare per fare luce
sulla crisi in corso è il rapporto degli USA con il governo iracheno del
primo ministro sciita, Nouri Kamal al-Maliki. Gli organi della
propaganda di Washington, come il New York Times, stanno dando spazio in
questi giorni a una serie di opinioni e editoriali nei quali viene
attribuita l’intera responsabilità della situazione del paese
mediorientale al governo di Baghdad e alla sua natura settaria che ha
finito per opprimere e marginalizzare la popolazione sunnita, creando
terreno fertile per la nascita di movimenti integralisti come l’ISIS.
Se
l’analisi appare in parte corretta e aiuta a spiegare il sostegno che
quest’ultima formazione integralista ha trovato tra la popolazione
sunnita di città come Mosul o Tikrit, simili critiche, tuttavia, mancano
volutamente di considerare il fatto che lo stesso Maliki è stato
installato per volere proprio degli Stati Uniti. I metodi sempre più
autoritari del governo di Maliki e la persecuzione della minoranza
sunnita sono stati anzi appoggiati da Washington, dal momento che
servivano a neutralizzare la resistenza all’occupazione soprattutto tra i
sostenitori del precedente regime di Saddam Hussein.
Maliki ha
così beneficiato dell’appoggio politico degli Stati Uniti e,
soprattutto, l’esercito iracheno - definito oggi come uno strumento di
oppressione della popolazione di fede sunnita - ha ricevuto sostanziosi
finanziamenti, forniture di armi e addestramento sia prima che dopo il
ritiro delle forze di occupazione americane alla fine del 2011.
Dal
momento che gli scrupoli per i metodi poco democratici di un regime
alleato figurano molto lontano dalle priorità della politica estera
statunitense, le critiche aperte dei media d’oltreoceano verso Maliki e
quelle più velate dell’amministrazione Obama non promettono nulla di
buono per il premier iracheno.
I rimproveri di Obama riguardano
in particolare la natura settaria del governo di Maliki, incoraggiato,
per così dire, a formare un esecutivo più “inclusivo”, che dia maggiore
spazio cioè alle élites sunnite e curde, non solo a livello politico ma
anche nelle forze armate.
Questi
“consigli” elargiti al primo ministro sciita di Baghdad, oltre a
rappresentare una prima prova dell’apparente schizofrenia americana, si
legano con ogni probabilità al tentativo di ridurre l’ascendente
dell’Iran sul paese che fu di Saddam Hussein.
Maliki, d’altra
parte, è di fatto sponsorizzato da Teheran, così che gli inviti degli
USA ad imbarcare in una sorta di improbabile governo di unità nazionale
sunniti e curdi con responsabilità e autorità simili a quelle della
classe dirigente sciita hanno come fine quello di diluire l’influenza
della Repubblica Islamica sull’Iraq. Tanto più che i progressi di ISIS
nel nord-ovest dell’Iraq hanno già portato all’avanzata delle forze
armate della regione autonoma curda (Peshmerga), in grado qualche giorno
fa di sottrarre al controllo di Baghdad la città petrolifera di Kirkuk.
In questa prospettiva è opportuno ricordare la rivelazione pubblicata la settimana scorsa dal New York Times,
nella quale è emerso come mesi fa l’amministrazione Obama avesse
respinto le richieste di assistenza militare di un governo Maliki, già
in apprensione per la crescente forza di ISIS nelle aree di confine con
la Siria, dove il gruppo jihadista è impegnato nella guerra contro il
regime di Bashar al-Assad.
Che Washington non fosse a conoscenza
della grave minaccia rappresentata da ISIS è a dir poco impensabile, dal
momento che questa formazione è finanziata e armata da altri alleati
americani - evidentemente più influenti e strategici dell’Iraq di Maliki
- come Arabia Saudita, Kuwait o Qatar. Inoltre, gli Stati Uniti e lo
“Stato Islamico” si ritrovano a combattere sullo stesso fronte in Siria,
il cui regime è invece sostenuto dal governo sciita di Baghdad.
Nei
confronti di Maliki, gli americani hanno manifestato anche nel recente
passato più di un disappunto, apparso evidente, ad esempio, in occasione
di richieste sottoposte al suo governo e andate in gran parte a vuoto.
Tra di esse vanno ricordate almeno quelle volte a fermare l’afflusso di
guerriglieri sciiti verso la Siria per combattere al fianco di Assad e a
mettere fine alla concessione dello spazio aereo iracheno ai velivoli
iraniani diretti a Damasco con materiale militare da utilizzare nella
guerra civile in corso.
L’attitudine da tempo in fase di
trasformazione degli Stati Uniti nei confronti del governo Maliki sembra
comunque scontrarsi con le promesse di aiuto che lo stesso Obama ha
annunciato nei giorni scorsi, anche se qualsiasi misura dovesse essere
decisa potrebbe essere di portata relativamente limitata. Iniziative in
apparenza contraddittorie, in ogni caso, sono una costante della
politica estera USA, all’interno della quale il concetto di nemico e
alleato varia di volta in volta a seconda delle necessità strategiche.
Ciò
risulta particolarmente evidente in relazione alla “guerra al terrore”,
all’interno della quale i cosiddetti nemici giurati - come ISIS -
passano frequentemente e senza troppi problemi da minaccia da debellare
con un intervento militare ad alleati di fatto per rovesciare regimi
poco graditi.
Nel caso di ISIS, infatti, Washington ha quanto
meno assistito alla sua nascita e al suo rafforzamento in Siria senza
muovere un dito per combattere la minaccia terroristica che questo
gruppo rappresenta, ben sapendo che il suo dilagare avrebbe costituito
prima o poi un problema vitale anche per l’Iraq.
L’avanzata
di ISIS, dunque, costringe ora l’amministrazione Obama a giocare una
partita ancora una volta estremamente pericolosa e ambigua per
promuovere gli interessi strategici americani in Medio Oriente. Una
partita, appunto, iniziata proprio dagli Stati Uniti dapprima con
l’invasione dell’Iraq e successivamente con la crisi siriana costruita a tavolino e che rischia come al solito di innescare un processo
distruttivo difficile da controllare.
Un altro aspetto da
ascrivere alla schizofrenia USA è poi legato al ruolo dell’Iran. Non
solo la Repubblica Islamica è stata la prima beneficiaria dell’invasione
dell’Iraq e della rimozione di Saddam Hussein, ma addirittura ora
sembrerebbe potersi aprire una collaborazione tra Teheran e Washington
per combattere la minaccia comune dell’ISIS.
Una prospettiva di
questo genere appare però improbabile vista la predisposizione americana
nei confronti dell’Iran, sempre che non serva a indebolire proprio
quest’ultimo paese e, come affermato in precedenza, accompagnandola ad
una riduzione della sua influenza sull’Iraq. Il primo obiettivo verrebbe
perseguito trascinando Teheran in un conflitto rovinoso oltreconfine,
mentre il secondo con la modifica degli equilibri di governo a Baghdad,
assegnando maggiore peso alle minoranze sunnita e curda a discapito
degli sciiti.
Questo fine, tuttavia, potrebbe essere raggiunto
non solo costringendo Maliki a cedere parte del potere accumulato in
questi anni proprio grazie agli Stati Uniti, ma anche, secondo molti
osservatori, con un’ipotesi mai come ora reale, vale a dire lo
smembramento dell’Iraq in tre entità separate (sciita, sunnita, curda).
Una
soluzione di questo genere, d’altra parte, nel recente passato è stata
apertamente promossa da importanti think tank d’oltreoceano e da
personalità politiche di spicco, a cominciare dal vice-presidente Joe
Biden quando era ancora senatore.
La divisione o la
federalizzazione dell’Iraq determinerebbe in particolare la fine di
questo paese come entità autonoma posizionata strategicamente sempre più
a fianco dell’asse della “resistenza” anti-americana, formata da Siria,
Iran e Hezbollah.
Un’evoluzione tutt’altro che sgradita agli
Stati Uniti, nonostante l’appoggio ufficiale al governo Maliki e
all’unità dell’Iraq, e favorita dalla campagna in corso dello Stato
Islamico, i cui militanti sunniti, come fanno da tempo in Siria,
continuano ad alimentare il fanatismo religioso e divisioni settarie che
difficilmente potranno essere superate nel quadro di un paese sovrano
guidato da un governo sciita e filo-iraniano.
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