di Michele Paris
L’assalto della
Corte Suprema americana ai principali diritti democratici negli Stati
Uniti ha fatto segnare un nuovo capitolo questa settimana, con la
mancata accettazione da parte del tribunale stesso di un delicatissimo
caso relativo ad un noto reporter del New York Times. La
vicenda in questione è quella di James Risen, il cui lavoro nel rivelare
alcune delle manovre segrete dell’apparato della sicurezza nazionale
degli USA potrebbe costargli un lungo periodo dietro le sbarre.
Rifiutandosi
di deliberare sul caso “Risen contro Stati Uniti”, la Corte Suprema ha
in sostanza confermato la sentenza del luglio scorso di un tribunale
d‘Appello della Virginia che si era rifiutato di annullare un ordine
emesso nei confronti di Risen per costringerlo a identificare la fonte
all’interno del governo americano che gli aveva fornito informazioni
riservate.
Il giornalista del Times era entrato in
possesso di materiale classificato che descriveva come la CIA avesse
cercato di ingannare l’Iran, spingendo i suoi scienziati ad accettare da
un doppio agente russo un progetto per un meccanismo di innesco
nucleare appositamente alterato. Questa informazione era contenuta in un
capitolo del libro di Risen “State of War” del 2006 ed aveva spinto il
Dipartimento di Giustizia ad aprire un procedimento penale nei confronti
della presunta fonte, identificato nell’ex agente della CIA Jeffrey
Sterling.
La causa aveva subito coinvolto Risen ma nel 2011 un
giudice federale aveva dato ragione a quest’ultimo, affermando che un
processo criminale non rappresentava una sufficiente giustificazione per
rivelare le fonti e, nel caso di Sterling, le accuse mosse dal governo
potevano essere dimostrate anche senza la testimonianza del giornalista.
L’amministrazione
Obama aveva però fatto appello e la già ricordata decisione del
tribunale di Richmond, in Virginia, aveva ribaltato il verdetto di primo
grado. Due dei tre giudici assegnati al caso avevano cioè sostenuto che
il Primo Emendamento della Costituzione americana - che garantisce, tra
l’altro, la libertà di parola e di stampa - non può essere applicato ai
giornalisti che ottengono notizie riservate e la cui diffusione
costituisce un atto criminale.
Risen, perciò, avrebbe potuto
essere costretto a testimoniare di fronte ad un Grand Jury nel caso
Sterling, dal momento che “un resoconto diretto e di prima mano... sulla
condotta criminale oggetto di indagine... non può essere ottenuto con
mezzi alternativi”.
La decisione della Corte Suprema di non
intervenire nel caso in questione equivale ad un’approvazione sia della
sentenza del tribunale d’Appello del 2013 sia della posizione del
governo. A differenza dei tribunali inferiori, la Corte Suprema può
infatti rifiutare le cause presentate alla propria attenzione senza
offrire alcuna spiegazione. La maggior parte dei casi, anzi, viene
trattata proprio in questo modo dalla Corte Suprema che può così
approvare in maniera tacita i verdetti emessi dai tribunali inferiori
senza apparentemente intervenire nel merito.
James
Risen, da parte sua, ha sempre sostenuto di essere pronto a finire in
carcere piuttosto che rivelare il nome della sua fonte. Di fronte alla
Corte Suprema, il reporter premio Pulitzer ha affermato che l’attività
giornalistica investigativa sulle questioni relative alla sicurezza
nazionale potrebbe diventare impossibile se il governo avesse facoltà di
costringere a rivelare l’identità delle fonti.
La decisione
della Corte Suprema di lasciare inalterata la sentenza della Corte
d’Appello di Richmond contro Risen contraddice inoltre una lunge serie
di verdetti di vari tribunali americani che, al contrario, in passato
hanno riconosciuto il diritto alla protezione garantita dal Primo
Emendamento ai giornalisti in relazione alle proprie fonti.
Sia i
precedenti verdetti che quello del luglio scorso della Corte d’Appello
si sono basati su un’altra decisione della Corte Suprema: “Branzburg
contro Hayes” del 1972. In quell’occasione, il supremo tribunale
americano aveva in realtà respinto l’interpretazione che il Primo
Emendamento possa proteggere tout court i giornalisti dall’obbligo di testimoniare imposto da un Grand Jury.
Tuttavia,
uno dei giudici della Corte aveva stilato un parere nel quale invitava i
tribunali a trovare “il giusto equilibrio tra la libertà di stampa e
l’obbligo di ogni cittadino di fornire la propria testimonianza” se
ritenuta “rivelante”.
Per oltre tre decenni, questa sentenza
della Corte Suprema è stata interpretata quasi sempre a favore dei
giornalisti e a sostegno di un principio democratico fondamentale. Poco
dopo il lancio della “guerra al terrore”, però, il clima è cominciato a
cambiare anche in questo ambito, così che la stessa sentenza è
utilizzata ora sempre più dai tribunali e dal governo per perseguire
quei giornalisti e le loro fonti segrete che rivelano notizie riservate,
anche se di rilevante interesse pubblico.
Questa involuzione e
il conseguente drammatico deterioramento del clima democratico negli
Stati Uniti sono confermati anche dal fatto che l’amministrazione Obama
continua a condurre una campagna senza precedenti contro le fughe di
notizie dall’interno delle agenzie governative. A tutt’oggi,
l’amministrazione democratica ha già avviato ben otto procedimenti
giudiziari contro presunti responsabili di rivelazioni di informazioni
segrete alla stampa, mentre tutte le precedenti amministrazioni
combinate si erano fermate a tre.
Consapevole delle resistenze
tra la popolazione e tra la maggior parte dei media contro un simile giro di
vite la cui vittima è la libertà di stampa, il Ministro della
Giustizia, Eric Holder, proprio la settimana scorsa aveva affermato
pubblicamente che il suo dipartimento potrebbe non richiedere
l’incarcerazione dei giornalisti che si riufiutano di testimoniare.
La
dichiarazione è sembrata essere un tentativo di placare le polemiche
che sarebbero esplose in seguito all’imminente decisione della Corte
Suprema sul caso Risen, peraltro non citato esplicitamente da Holder,
anche se essa è stata esposta come una semplice ipotesi e il governo
continua a riservarsi il diritto di incriminare i giornalisti che
intendono difendere le proprie fonti.
Secondo i principali media
americani, comunque, il governo avrebbe mostrato un certo ammorbidimento
negli ultimi mesi, come confermerebbe la pubblicazione lo scorso
febbraio da parte del Dipartimendo di Giustizia di nuove direttive
interne volte a limitare i casi in cui l’accusa nel corso di processi
possa costringere i giornalisti a testimoniare.
Le
nuove norme, in realtà, sono state soltanto l’ennesima manovra
diversiva dell’amministrazione Obama, visto che prevedevano il solito
compromesso tra le necessità della “sicurezza nazionale e la
salvaguardia del ruolo essenziale della libertà di stampa”, concendendo
quindi ampia facoltà di interpretazione di una direttiva ufficialmente
implementata a favore di quest’ultima.
La battaglia del governo
degli Stati Uniti contro giornalisti e fonti di rivelazioni spesso
esplosive è d’altra parte risultata più che evidente in questi anni con
persecuzioni ai danni, tra gli altri, di Bradley (Chelsea) Manning,
Edward Snowden, Julian Assange o John Kiriakou, l’ex agente della CIA
processato e incarcerato per avere ammesso pubblicamente il ricorso a
metodi di tortura negli interrogatori di presunti terroristi.
La
guerra di Washington alla libertà di stampa, infine, era stata palesata
clamorosamente anche lo scorso anno, quando era circolata la notizia che
il Dipartimento di Giustizia aveva disposto segretamente
l’intercettazione delle comunicazioni telefoniche di decine di
giornalisti della Associated Press nell’ambito di un’indagine
sulla rivelazione di una notizia riservata relativa ad un attentato
terroristico sventato dalle autorità.
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