di Michele Paris
In un tribunale di Washington, qualche giorno fa è iniziato un nuovo
processo contro quattro ex mercenari della famigerata compagnia militare
privata americana Blackwater, responsabili della sparatoria in una
piazza di Baghdad che nel settembre del 2007 si concluse in una vera e
propria strage di civili. La riapertura del procedimento giudiziario ai
danni degli ex contractor del governo USA è stata seguita dalla
pubblicazione di alcuni documenti del Dipartimento di Stato, dai quali
si comprende a sufficienza sia il potere raggiunto da simili compagnie
private nell’Iraq occupato sia la quasi totale libertà d’azione a loro
garantita grazie alla protezione dei rappresentati di Washington nel
paese mediorientale.
Alla sbarra presso il tribunale distrettuale
della capitale degli Stati Uniti ci sono Nicholas Slatten, Dustin
Heard, Evan Liberty e Paul Slough. Il primo è accusato di omicidio di
primo grado, mentre le altre tre ex guardie private di omicidio
(“manslaughter”) volontario e tentato omicidio. Le pene previste in caso
di condanna potrebbero arrivare fino all’ergastolo per Slatten e
partire da un minimo di trent’anni per i rimanenti imputati nel caso
fossero riconosciuti colpevoli anche di altri reati di minore gravità. Un
quinto ex dipendente di Blackwater coinvolto nei fatti del 2007 è stato
invece scagionato e un altro ancora ha raggiunto un patteggiamento con
il Dipartimento di Giustizia.
Il risultato della sparatoria che
vide protagonisti gli uomini di Blackwater nell’affollata piazza Nisoor
di Baghdad fu la morte di 14 iracheni e il ferimento di altre 18
persone. Secondo la versione sempre sostenuta dai mercenari americani,
la loro azione sarebbe stata la risposta a un possibile attacco suicida
degli “insorti”. In un simile scenario, gli uomini che viaggiavano sul
convoglio di Blackwater avrebbero perciò agito per legittima difesa.
Numerose
indagini e testimonianze hanno però smentito categoricamente questa
ricostruzione. Un’analisi degli avvenimenti fatta dal New York Times
già nell’ottobre del 2007, ad esempio, aveva mostrato come non ci fosse
stata alcuna minaccia per i contractor del governo americano. In
particolare, la prima auto contro cui le guardie private spararono nella
piazza, perché identificata come possibile minaccia, si era in realtà
scontrata con i mezzi di Blackwater solo dopo che il suo conducente era
stato colpito alla testa e aveva perso il controllo della vettura.
Una
prima scarica di colpi di arma da fuoco sparati in piazza Nisoor dai
mercenari americani sarebbe stata così seguita da una valanga di
pallottole e granate, dirette anche contro le auto e i passanti che
cercavano in tutti i modi di allontanarsi o trovare rifugio. Nessuna
prova o testimonianza ha invece mai confermato spari da parte irachena,
provenienti dalle auto nella piazza o dagli edifici adiacenti.
A
sostegno dell’accusa in un processo inizialmente abbandonato nel 2009 ci
sono ora le testimonianze di decine di cittadini iracheni superstiti,
il cui trasferimento negli Stati Uniti è stato coordinato dall’FBI.
Secondo uno degli assistenti del procuratore impegnati nel procedimento,
alcune delle vittime della sparatoria erano civili che cercavano di
evitare il fuoco dei contractor. Questi ultimi, una volta lasciata
piazza Nisoor, iniziarono al contrario a far circolare la propria
versione dei fatti, sostenendo che il convoglio su cui viaggiavano era
stato assaltato dagli “insorti”, a cui avevano risposto armi alla mano
per garantire la loro sicurezza.
Inoltre, lo stesso assistente
procuratore ha spiegato come il Dipartimento di Stato americano avesse
atteso quattro giorni prima di inviare alcuni uomini nella piazza di
Baghdad per indagare sulla strage. Come se non bastasse, la stessa
indagine ufficiale è stata definita caotica e incompleta, dal momento
che era stata avviata con il solo scopo di “scagionare i contractor” al
servizio proprio del Dipartimento di Stato.
Nei
giorni scorsi alcuni testimoni iracheni hanno già raccontato in aula la
loro drammatica esperienza nella piazza Nisoor. La commozione di
Mohammed al-Razaq Kinani, ad esempio, ha costretto il giudice che
presiede l’udienza a licenziare temporaneamente i giurati. Kinani ha
ricordato tra le lacrime di come il figlio di nove anni era stato ucciso
dagli uomini di Blackwater dopo che una pallottola lo aveva raggiunto
alla testa mentre era sul sedile posteriore della sua auto.
I
legali degli accusati hanno bollato come “fabbricate” questa e altre
testimonianze. La loro strategia difensiva, secondo quanto riportato dai
media americani, si baserebbe sul tentativo di convincere la giuria che
il livello di violenza in quel periodo a Baghdad era tale da
giustificare una reazione così forte in risposta alla minima minaccia
percepita. A loro disposizione ci sarebbe poi un presunto testimone che
avrebbe accertato la presenza di “insorti” intenzionati a prendere di
mira il convoglio di Blackwater. Infine, lo stesso numero molto elevato
di testimoni dell’accusa potrebbe generare confusione circa la corretta
ricostruzione dei fatti, senza fornire un quadro sufficientemente chiaro
degli eventi e delle responsabilità.
La strage del settembre
2007 a Baghdad, in ogni caso, non è stata in nessun modo un caso isolato
ma solo uno degli esempi più sanguinosi della dura repressione ai danni
della popolazione irachena, messa in atto dai militari e dalle guardie
private americane nel corso dell’occupazione del paese mediorientale.
Episodi
come quello di piazza Nisoor, oltre a rimanere quasi sempre impuniti,
rivelano il vero volto di un esercito di mercenari a cui ricorre sempre
più frequentemente il governo americano e con il quale le forze armate
ufficiali operano in stretto coordinamento. Blackwater, soprattutto, ha
spesso occupato le pagine dei giornali di mezzo mondo per le proprie
operazioni criminali, non solo in Iraq ma anche in Afghanistan, dove ha
ottenuto appalti del valore di miliardi di dollari dal Dipartimento di
Stato e dalla CIA.
Secondo la stampa tedesca, addirittura, uomini
di Blackwater - il cui nome è stato cambiato in Xe Services nel 2009 e
in Academi nel 2011 - sono stati recentemente impiegati anche in Ucraina
al fianco dei gruppi paramilitari neo-fascisti promossi dal nuovo
regime di Kiev per reprimere nel sangue le manifestazioni
anti-governative nelle regioni orientali del paese.
Il fondatore
di Blackwater, l’ex membro delle forze speciali “Navy SEAL” Erik Prince,
aveva ceduto la compagnia nel 2010 e proprio qualche settimana fa essa
si è fusa con la rivale Triple Canopy, assumendo la nuova denominazione
di Constellis Holdings.
Il livello di integrazione di questa
compagnia con le forze di occupazione in Iraq e lo strapotere che essa
aveva raggiunto sono state messe in luce da un dettagliato articolo
pubblicato nel fine settimana dal New York Times a firma dell’autorevole giornalista investigativo James Risen.
I
fatti raccontati da Risen sulla base del contenuto di documenti finora
mai pubblicati risalgono all’agosto del 2007, poche settimane prima
della strage di piazza Nisoor. Nell’estate di quell’anno, il
Dipartimento di Stato aveva inviato in Iraq due investigatori - Jean
Richter e Donald Thomas - con il compito di valutare la condotta già più
che discutibile di Blackwater nel paese occupato.
Nella
lunga lista di violazioni del proprio contratto con il governo
riscontrate da Richter e Thomas spiccavano, tra l’altro, la variazione
senza il permesso del Dipartimento di Stato delle norme di sicurezza
previste per la protezione dei diplomatici USA, come la riduzione del
numero di guardie private da impiegare nei vari incarichi.
Inoltre,
i mercenari tenevano armi e munizioni nelle proprie stanze private,
dove davano vita a frequenti feste a base di alcool e in presenza di
donne. Molte guardie avevano anche a disposizione armi che non erano
autorizzate a usare. Tutt’altro che rari erano infine i casi in cui
Blackwater gonfiava le proprie fatture dopo avere falsificato i registri
del personale addetto alla protezione degli uomini del Dipartimento di
Stato.
Secondo i due investigatori, Blackwater aveva potuto
mantenere un simile comportamento grazie agli stretti legami stabiliti
tra la compagnia e il personale dell’ambasciata americana in Iraq. I due
investigatori avrebbero trovato conferma a loro spese della correttezza
di questa conclusione.
Il 20 agosto del 2007, Richter fu infatti
convocato dal responsabile per la sicurezza dell’ambasciata USA, Bob
Hanni, il quale lo informò di avere ricevuto una richiesta per
“documentare il comportamento inappropriato” dello stesso investigatore.
Il
giorno successivo, Richter e il suo collega, Donald Thomas, si recarono
dal “project manager” di Blackwater in Iraq, Daniel Carroll, anch’egli
ex Navy SEAL, per discutere dell’esito della loro indagine. Secondo
quanto lo stesso Richter avrebbe successivamente comunicato al
Dipartimento di Stato, Carroll minacciò di ucciderlo in maniera
esplicita, aggiungendo che, vista la situazione dell’Iraq in quel
periodo, non ci sarebbe stata per lui nessuna conseguenza penale.
Correttamente,
Richter prese “sul serio la minaccia di Carroll”, dal momento che le
questioni sollevate nella sua indagine potevano avere un “impatto
potenzialmente negativo su un proficuo appalto per la sicurezza” dei
diplomatici americani. Il collega di Richter, a sua volta, avrebbe
confermato la versione del collega circa l’incontro con il numero uno di
Blackwater in Iraq.
A rendere ancora più inquietante la
situazione per Richter e Thomas fu il mancato appoggio ottenuto
dall’ambasciata degli Stati Uniti nonostante le minacce di morte
ricevute. A questi ultimi fu infatti ordinato di lasciare immediatamente
l’Iraq, poiché la loro presenza era diventata “un ostacolo alle
operazioni quotidiane e creava un ambiente inutilmente ostile” per i
contractor privati.
Richter e Thomas furono così costretti ad abbandonare bruscamente il loro lavoro e a fare ritorno a Washington il
giorno successivo. Quando, pochi giorni dopo, alcuni uomini della
Blackwater si sarebbero resi protagonisti del massacro in piazza Nisoor a
Baghdad, il Dipartimento di Stato avrebbe finalmente preso in
considerazione gli avvertimenti dei due investigatori sulla compagnia
stessa, ma senza decidere alcun provvedimento.
Le stesse
successive indagini ufficiali sui fatti del settembre 2007, a cominciare
dalla speciale commissione istituita dall’allora segretario di Stato,
Condoleezza Rice, avrebbero accuratamente evitato di raccogliere la
testimonianza dei due uomini che meglio di chiunque altro avevano
descritto il comportamento criminale della principale agenzia di
sicurezza privata operante in Iraq con la colpevole complicità del
governo degli Stati Uniti.
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