Quattro mesi di bombardamenti non hanno fermato l’avanzata
dell’autoproclamato Stato Islamico, ma per la coalizione anti-Isis i
risultati ci sono: le forze irachene e i peshmerga curdi hanno ripreso
il controllo di alcuni territori in Iraq. In Siria, però, la situazione è
diversa, i jihadisti dominano vaste zone del Paese, quelle dove si
trovano le risorse energetiche. Tuttavia, il bilancio appare abbastanza
positivo ai 60 Stati che compongono la coalizione e che oggi a Bruxelles
hanno deciso di incrementare i raid su Iraq e Siria.
Saranno intensificati i bombardamenti nei due Paesi
minacciati (e in parte occupati) dai miliziani di al-Baghdadi; sarà
incrementato l’addestramento dei combattenti dell’opposizione siriana,
quelli che da oltre tre anni cercano di rovesciare il presidente Bashar
al Assad che resta sempre nel mirino di Stati Uniti e Turchia; si
interverrà per ostacolare il flusso di stranieri nelle file del
cosiddetto califfato e di denaro nelle sue già pienissime casse.
Nessuna indicazione, invece, sulla possibilità di inviare truppe di
terra in Siria e in Iraq, ipotesi che alcuni governi della coalizione
caldeggiano.
Tutto questo rinnovato impegno, ha precisato la coalizione, prenderà
però molto tempo. Più raid non significherà che il conflitto finirà a
breve. D’altronde, nonostante i “buoni risultati” vantati al termine del
meeting di Bruxelles, sul terreno le cose non vanno affatto bene. E
soprattutto per la popolazione la situazione resta drammatica.
Sul fatto che ci vorrà tempo è d’accordo anche Assad, ma soltanto su
questo, ovviamente. Il presidente, in un’intervista al giornale
francese Paris Match,
ha definito i raid americani in Siria “illegali” e ha detto che non
lascerà il potere, proprio come un capitano non abbandona la propria
nave.
Assad ha insistito sull’inefficacia dell’intervento
dell’aviazione Usa - “non sta facendo la differenza” nel conflitto tra
Forze armate siriane e Isis - e ha respinto al mittente le accuse che gli
sono state mosse in questi anni. Ha spiegato che sarà una
guerra lunga e difficile, perché si combatte villaggio per villaggio:
“L’esercito siriano non può essere ovunque contemporaneamente. Dove non
c’è, si infiltrano i terroristi”.
Il presidente siriano ha anche contestato le cifre delle Nazioni
Unite sulle vittime del conflitto (quasi 200.000), definendole
un’esagerazione mediatica, e ha puntato il dito contro Washington che lo
ha accusato di avere permesso ai jihadisti di entrare in Siria in
funzione anti-ribelli. “Lo Stato Islamico (Isis) è nato in Iraq nel
2006. Gli Usa occupavano l’Iraq, non la Siria”, aggiungendo che il
leader al-Baghdadi fu detenuto in una prigione Usa in quel periodo.
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