di Michele Paris
La crisi in cui
si dibatte da tempo lo Yemen è sfociata ufficialmente in un nuovo
conflitto regionale in Medio Oriente nella mattinata di giovedì in
seguito ai bombardamenti aerei condotti dall’Arabia Saudita e dalle
altre monarchie assolute del Golfo Persico nel più povero dei paesi
arabi. L’obiettivo della “coalizione”, messa assieme dai sauditi e
appoggiata dagli USA, sono i “ribelli” sciiti Houthi che dallo scorso
autunno hanno progressivamente preso il controllo delle istituzioni
dello stato yemenita, estromettendo dal potere il burattino di
Washington e Riyadh, ovvero il presidente Abd Rabbu Mansour Hadi.
La portata dell’impegno militare in Yemen è stata descritta dal network saudita Al Arabiya.
La campagna di Riyadh conta su 100 velivoli da guerra, ben 150 mila
soldati e altre unità navali. Le incursioni nelle prime ore di giovedì
avrebbero già fatto alcune vittime tra i leader Houthi. Lo Yemen,
intanto, ha chiuso i principali aeroporti sul proprio territorio e lo
spazio aereo del paese è sotto il completo controllo saudita.
Della
“coalizione” fanno parte i paesi dell’ultra-reazionario Consiglio di
Cooperazione del Golfo (GCC) - tranne l’Oman - cioè Arabia Saudita,
Bahrain, Emirati Arabi Uniti, Kuwait e Qatar, più l’Egitto, la
Giordania, il Marocco, il Pakistan e il Sudan. Alcuni di questi ultimi
paesi avrebbero già manifestato la disponibilità a inviare truppe di
terra in Yemen.
Poco dopo l’annuncio dell’avvio delle manovre
belliche da parte dell’ambasciatore saudita a Washington, Adel
al-Jubeir, l’amministrazione Obama ha comunicato il proprio sostegno
all’alleato saudita, con la portavoce del Consiglio per la Sicurezza
Nazionale, Bernadette Meehan, che ha confermato come il presidente abbia
“autorizzato il supporto logistico e d’intelligence alle operazioni
militari” dirette dal GCC.
L’aggressione dello Yemen dovebbe
essere il tentativo di fermare l’avanzata degli Houthi, ritenuti una
forza al servizio degli obiettivi strategici dell’Iran. La
giustificazione formale dell’attacco sarebbe la richiesta presentata
qualche giorno fa dal presidente yemenita Hadi alle Nazioni Unite per
intervenire a favore della “legittima autorità” del suo paese e
respingere la minaccia degli Houthi, minacciosamente vicini alla città
di Aden, sulla costa meridionale. Qui, lo stesso presidente, costretto
ad annunciare le dimissioni nel mese di gennaio, si era rifugiato dopo
la fuga dalla capitale, Sanaa, dove era tenuto in stato di
semi-prigionia dagli Houthi.
L’ennesima guerra esplosa in Medio
Oriente rappresenta in primo luogo una nuova débacle per gli Stati Uniti
e la loro sconsiderata strategia per il dominio del mondo arabo sotto
forma di “guerra al terrore”. La disintegrazione della società di questo
paese della penisola arabica appare tanto più eclatante alla luce del
fatto che, solo pochi mesi fa, il presidente Obama aveva celebrato
pubblicamente la validità del modello yemenita nell’esecuzione della
strategia anti-terroristica americana.
Nelle
ultime settimane si è assistito piuttosto all’avanzata di una marea che
ha travolto il regime del presidente Hadi e, con esso, i piani degli
USA per lo Yemen. La stessa presenza della rappresentanza diplomatica
americana, delle forze speciali e della CIA in questo paese è stata
spazzata via con una serie di umilianti ordini di ritiro, culminati con
la recente conquista da parte degli Houthi della base di Al Anad,
quartier generale delle missioni di morte con i droni condotte dagli
Stati Uniti ufficialmente contro i membri di Al-Qaeda nella Penisola
Arabica (AQAP).
Proprio l’intervento americano in Yemen ha
causato l’aggravamento delle tensioni settarie e il risentimento di
ampie fasce della popolazione nei confronti di un regime percepito
correttamente al servizio dell’imperialismo a stelle e strisce. Secondo
varie fonti, i droni americani avrebbero fatto più di mille vittime in
Yemen, tra cui un numero imprecisato di civili innocenti.
La
guerra appena iniziata rischia così di infiammare ancor più il Medio
Oriente, in considerazione soprattutto della possibile reazione
dell’Iran. Il ministro degli Esteri della Repubblica Islamica ha
condannato giovedì l’iniziativa saudita, con la portavoce Marziyeh
Afkham che ha ricordato la necessità di implementare gli accordi mediati
dalle Nazioni Unite per giungere a una risoluzione pacifica del
conflitto interno allo Yemen.
I negoziati tra le parti in lotta
erano di fatto saltati nel mese di gennaio, a detta degli Houthi a causa
della mancata accettazione da parte del governo dei termini concordati
per attuare un piano di integrazione nelle istituzioni dei leader del
movimento che rappresenta le tribù sciite del nord dello Yemen dopo
decenni di repressione e marginalizzazione.
Riguardo all’Iran, è
significativo e con ogni probabilità tutt’altro che casuale che
l’operazione militare saudita prenda le mosse a pochissimi giorni
dall’ultima data utile per il raggiungimento di un accordo
internazionale preliminare sul nucleare di Teheran. Riyadh, assieme a
Israele e alle altre monarchie medievali del Golfo Persico, si oppone
fermamente alla risoluzione della crisi sul nucleare iraniano, temendo
che una certa rappacificazione tra Teheran e Washington possa consentire
alla Repubblica Islamica - vale a dire il proprio rivale storico - di
giocare un ruolo di primo piano in Medio Oriente, riducendo l’influenza
saudita.
Trascinando l’Iran in una guerra aperta nello Yemen,
secondo la propaganda ufficiale in appoggio a una milizia sciita
“ribelle” che intende rovesciare un governo e un presidente legittimi,
l’Arabia Saudita spera di assestare un colpo mortale alle trattative in
atto sul nucleare e di mantenere Teheran nello stato di isolamento in
cui si è trovato in questi anni.
Proprio la vicinanza di un
accordo con le potenze internazionali per risolvere l’annosa questione
del proprio programma nucleare, però, dovrebbe convincere l’Iran a
mantenere un atteggiamento prudente sullo Yemen, per lo meno nel breve
periodo, nonostante il relativo appoggio garantito finora agli Houthi.
Le
potenzialità esplosive del nuovo conflitto rischiano però seriamente di
allargare il fronte delle ostilità, tanto più in presenza di altri
gravissimi scenari di crisi in Medio Oriente. Gli stessi militanti
Houthi hanno già fatto sapere di avere radunato i propri uomini nel
governatorato di Saada, lungo il confine con l’Arabia Saudita, e di
avere intenzione di valutare una “risposta adeguata” all’aggressione dei
paesi del Golfo.
Un membro del politburo della milizia sciita,
denominata ufficialmente “Ansarullah”, ha definito l’attacco saudita
come una “dichiarazione di guerra contro il popolo yemenita”. Secondo
quanto riportato dai media, i primi bombardamenti avrebbero già fatto
una ventina di morti e decine di feriti.
Nella crisi dello Yemen è
impossibile non rilevare infine alcune contraddizioni e intrecci
apparentemente anomali che caratterizzano la “guerra al terrore” e le
manovre degli Stati Uniti e dei loro alleati.
Ad esempio,
l’ascesa degli Houthi sarebbe stata favorita da fazioni nelle forze
armate yemenite che continuano a fare riferimento all’ex presidente
Saleh, per decenni fedele alleato di USA e Arabia Saudita. Saleh era
stato deposto nel 2012 in seguito a un piano mediato da Riyadh per
mettere fine ai disordini provocati dalla “Primavera Araba” che
minacciavano la totale destabilizzazione dello Yemen.
Saleh era
stato costretto a farsi da parte per lasciare spazio al suo vice -
l’attuale presidente Hadi - in seguito a un’elezione-farsa nella quale
quest’ultimo appariva come l’unico candidato. Avendo mantenuto una certa
influenza nel paese pur essendo in esilio in Etiopia, Saleh ha fin
dall’inizio manovrato contro il nuovo regime, finendo per appoggiare la
campagna degli Houthi.
Singolarmente,
Stati Uniti e Arabia Saudita continuano inoltre a indicare come
obiettivo del proprio intervento in Yemen, oltre e ancor più degli
Houthi, la presenza di al-Qaeda.
Tuttavia, com’è accaduto in Siria con la campagna anti-Assad, anche
nella penisola arabica a essere combattuti sono ora coloro che conducono
la battaglia più intensa ed efficace contro il fondamentalismo sunnita.
Violenti scontri armati tra Houthi e al-Qaeda, infatti, sono stati
frequentemente registrati negli ultimi mesi in Yemen.
A
determinare il nuovo intervento militare unilaterale sul territorio di
un paese sovrano da parte degli USA o dei loro alleati è in sostanza la
prospettiva di uno Yemen nel caos totale o, ancora peggio, sotto
l’influenza iraniana attraverso il predominio di una formazione settaria
(sciita) come gli Houthi.
A fronte della povertà estrema della
propria popolazione e della devastazione sociale che lo caratterizza,
questo paese rappresenta uno snodo strategico fondamentale per le
potenze regionali e non solo. Lo Yemen, oltre a condividere una
lunghissima linea di confine con l’Arabia Saudita, a sua volta costretta
a fare i conti con un’irrequieta minoranza sciita nel proprio
territorio, si affaccia sullo stretto di Bab el-Mandeb che congiunge il
Mar Rosso con il Golfo di Aden e, quindi, l’Oceano Indiano, da dove
transitano importanti rotte commerciali che consentono il trasporto del
petrolio nordafricano e dell’export europeo e americano verso i paesi
del continente asiatico.
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