La “sindrome da anti italianità” è così diffusa e pervasiva da porre il problema delle sue cause. Gli italiani non si piacciono e non si stimano, questo è evidente, e coltivano atteggiamenti autolesionistici che non hanno riscontri in nessun altro paese in Europa, dove, dai greci agli inglesi, dai tedeschi agli spagnoli, di polacchi ai portoghesi, dai francesi ai rumeni o agli ungheresi sembrano tutti abbastanza orgogliosi della loro identità nazionale, pronti a rintuzzare eventuali accuse o critiche (spesso luoghi comuni).
Al contrario, in Italia l’autodenigrazione porta all’impudica esibizione delle piaghe nazionali, quasi a riscatto della propria identità individuale: italiani sono sempre gli altri.
Il fenomeno è diffuso a tutte le nostre latitudini religiose, regionali e sociali: i cattolici si sentono parte di una comunità mondiale e, tacitamente, non perdonano all’Italia la fine dello stato pontificio, i protestanti e gli ebrei di essere stati perseguitati dalla Chiesa e dal fascismo, gli industriali parlano dei loro operai come assenteisti che dovrebbero prendere esempio da quelli tedeschi o giapponesi, gli operai deprecano che il padronato italiano sia il più miserabile del pianeta, i lavoratori autonomi si sentono oppressi da uno stato esoso ed inefficiente, lo stato si lamenta dell’evasione fiscale dei lavoratori autonomi, i meridionali parlano dell’impresa dei Mille come di un episodio di colonizzazione, i settentrionali maledicono l’Italia che gli lega al piede la palla di piombo del Sud, persino i romani hanno da ridire su quell’Italia che gli consente di campare da più di un secolo.
E non parliamo dei partiti, nei quali serpeggia da sempre l’antitalianismo. I laici (repubblicani, liberali e soprattutto azionisti) da sempre ritengono che il peccato originale dell’assenza della riforma protestante non sia stato riscattato dall’unità nazionale, che non ha fatto di questo paese una nuova Inghilterra, ed alimentano una insopportabile polemica moralista (“L’italia alle vongole” diceva qualcuno per deplorare il costume nazionale proclive al lassismo). I comunisti ritengono di non essere mai andati al governo, in mezzo secolo di prima repubblica, perché questo è un popolo fatto guasto da clientele e corruzione (lagna puntualmente ripresa da Rifondazione, Sel, Idv, M5s), i socialisti ed i democristiani, al contrario, si lamentano della deriva giustizialista, frutto del populismo qualunquista che giace nella pancia del paese ed ha consegnato alle patrie galere una classe politica di ineguagliate capacità; persino i fascisti hanno atteggiamenti antitaliani, rimproverando agli italiani di aver perso la guerra per non aver saputo soffrire e combattere ed additano il fulgido esempio dei tedeschi (che, come è noto, la guerra l’hanno vinta).
Solo che:
- i liberali dimenticano di aver sgovernato questo paese per oltre 50 anni insieme a quegli inetti di casa Savoia;
- gli azionisti di non essere stati capaci da darsi un seguito di massa per il loro elitarismo;
- i repubblicani di aver allegramente banchettato per mezzo secolo con i democristiani, mentre rampognavano il paese sui suoi difetti morali;
- i comunisti di non aver saputo conquistare il consenso per il loro deleterio rapporto con l’Urss che li portava, troppo spesso, a subordinarvi l’interesse nazionale;
- socialisti e democristiani di essersi effettivamente corrotti in misura largamente superiore al sopportabile;
- i fascisti di aver dichiarato una guerra demenziale e di essere finiti a fare i servi dei tedeschi.
Come si vede l’antitalianismo è l’ottimo alibi morale per autoassolversi delle proprie colpe e insufficienze e, soprattutto, per lasciare tutto come è, perché, tanto, con il legno storto dell’italianità, più di questo non si può fare: “non sono io ad aver sbagliato, sono stati gli italiani a non essere all’altezza del mio progetto”.
A questo proposito è uso invocare certe tradizioni culturali che ne sarebbero la scaturigine, ad esempio si cita l’ “amoralismo” di Machiavelli ed il “particulare” di Guicciardini, ma chi fa di queste citazioni non ha letto né l’uno né l’altro ed esprime un imparaticcio orecchiato (altra piaga italica questa degli “acculturati a metà”). Machiavelli e Guicciardini non c’entrano niente e semmai la responsabilità è stata della lettura grossolana che se ne è fatta (o, più semplicemente, supposta).
Non è questa l’origine e la spiegazione di questa profonda auto disistima nazionale.
Certo non mancano pratiche profondamente deplorevoli, e c’è una “italianità deteriore” che provoca disgusto: vi dicono niente nomi come Berlusconi, Schettino, Riina, Cocciolone, Incalza o quelli della lista Falciani? Ma, per quanto non manchino pecche, l’auto diffamazione tocca punte che non si giustificano e, dunque, occorre scavare nella storia e nella psicologia di questo paese, per trovare risposte non banali.
Proprio in questo periodo sto scrivendo il mio prossimo libro che è dedicato ad una critica storica del potere in Italia e, pertanto, mi sto misurando con le costanti della vita nazionale, e questo mi aiuta a riflettere su paradosso dell’antitalianismo degli italiani.
Alla base penso ci sia una identità nazionale fragile, sempre insidiata, da un lato, da una proiezione universalistica, come è proprio del cattolicesimo, e, dall’altro, dal particolarismo localistico, eredità degli stati regionali del XVI secolo e, prima ancora, dell’ordinamento feudale. Su questo si sono poi innestate le guerre dal XV ed il XVII secolo, con il loro costante e degradante appello allo straniero contro il “nemico vicino”, e poi la perdita dell’indipendenza. Di qui il ritardo nell’unificazione nazionale e, di conseguenza, nella modernizzazione, alla cui tardiva maturazione l’Italia ha pagato prezzi assurdi.
La mancanza di un progetto chiaro di nazione, fra velleità imperialistiche e ripiegamenti autarchici e provinciali, ha compromesso le speranze dell’Unità nazionale sin dal nascere, per colpa di una classe dirigente liberale di bassissimo profilo: inetta, corrotta, chiusa, impreparata ed interessata solo a mantenere i privilegi della casta da cui proveniva. Se il ceto politico liberale fu cattivo, quello fascista fu pessimo.
Alimentò folli manie di grandezza accompagnandole con una gestione vertiginosamente al di sotto delle aspirazioni.
Il colpo di grazia è venuto dalla guerra, con la sconfitta che ha sepolto ogni aspirazione a giocare un ruolo autonomo ed a cercare un adattamento furbesco e subalterno. Il ceto politico della repubblica, pur inizialmente dignitoso, fu comunque il ceto politico di un paese sconfitto che covava in sé un profondo senso di colpa. Ad una prima positiva stagione di ricostruzione economica e di semina democratica – anche se non priva di ombre – seguì l’insuccesso dell’ondata del sessantotto e questo ridestò l’antica protervia delle classe dominanti. E fu la restaurazione degli anni ottanta, che, come tutte le restaurazioni, segnò il declino del paese. Di qui la permanente insicurezza di chi non si sente all’altezza delle sfide e si dà per vinto in partenza.
L’europeismo degli italiani fu solo il desiderio di oblio di una nazione che non credeva più in sé stessa. Ora, che anche la chimera europea svanisce mostrandosi matrigna, resta solo la cenere dell’autodenigrazione.
Ma non è questo che ci permetterà di uscirne. La coscienza delle proprie insufficienze e colpe è nulla se non si accompagna al desiderio di tornare a volare. E studiare il passato è necessario solo per capire quanto siano profonde le radici che si intende tagliare e distinguere quelle che possono ridar vita alla pianta.
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