Più che la scuola, nel disegno di legge (ddl) presentato dal governo in materia, di buono c’è solo la sòla, come dicono a Roma. E se una sòla è buona, cioè fatta bene, c’è poco da stare allegri.
Dopo che il 60% circa dei partecipanti
alla consultazione on line sulla «Buona scuola» ha sostanzialmente
bocciato il progetto aziendalistico-meritocratico del governo,
quest’ultimo non si è dato per vinto ed è tornato a riproporlo senza
grandi cambiamenti di rilievo nella concezione di fondo. È un ddl vago,
nel complesso, che lascia aperti molti buchi, nei quali, probabilmente,
si inseriranno le spade degli emendamenti delle varie consorterie
partitiche, che saranno con ogni probabilità peggiorativi, in quanto
rappresentanti di interessi particolari congiunti a uno scarso uso
dell’intelligenza: Forza Italia, ad esempio, ha già annunciato che
intende raddoppiare, nei licei, le ore di tirocinio in azienda: da 200 a
400. Con ogni probabilità abbiamo di fronte un testo che, tra un po’, sarà peggiore di quel che già è.
Gli esiti, infausti per il governo,
della consultazione on line sulla «Buona scuola» hanno scatenato l’ira
funesta di Renzi, che ha pensato di servire l’ennesimo piatto avvelenato
sotto forma di ddl, soggetto quindi a possibili modifiche da parte del
parlamento. Forse per non assumersi la responsabilità piena di un
progetto che rischia molto? Forse perché in realtà gli importa solo aver
annunciato la riforma? Forse entrambe? O ancora: se in parlamento la
cosa «ristagnasse», allora Renzi potrebbe fare una mossa simile a quella
degli 80 euro, a fini elettorali, all’insegna del «ghe pensi mi» (ma in
un altro dialetto), facendo assumere i precari, anche se molti meno
rispetto a quelli annunciati inizialmente.
Particolarmente rilevante in
questo quadro è l’aumento delle ore di lavoro richieste agli insegnanti,
specialmente a quelli «funzionali», di là dal loro orario
ufficiale, per attività di vario tipo (ore di formazione permanente e
continuativa; attività supplementari ecc.). L’impressione, già presente
da anni nelle scuole private, è che si voglia liquidare il significato
dell’ora lavorativa, oltre la quale il lavoratore è libero di fare quel
che gli pare, per renderlo sistematicamente «organo funzionale» del
lavorio scolastico, con la spada del giudizio del dirigente scolastico e
della minaccia di mancato incremento stipendiale costantemente sopra la
testa. La rilevanza sociale del lavoratore-insegnante è ulteriormente svilita.
Il prezzo da pagare per avere un posto a tempo indeterminato, che
comunque non ci sarà per tutti quelli che hanno accumulato i titoli e
l’esperienza per averlo, è l’obbedienza e la disponibilità a sgobbare
dalla mattina alla sera. Un’idea che dimostra come questo governo, tanto
quanto quelli che lo hanno preceduto da trent’anni a questa parte,
mirino solo al suo asservimento all’etica efficientista del servizio
pubblico; facendo finta di non sapere che gli insegnanti (e anche gli studenti ministro Poletti!), per diventare migliori, hanno bisogno di tempo sottratto al puro lavoro.
Il progetto,
comunque, non presenta nulla di nuovo rispetto alle linee guida della
«Buona scuola» e, quindi resta, nel suo orientamento ideologico di
fondo, aziendalistico. La sconfitta on line, però, ha lasciato
dei segni, i cui effetti si manifestano nel tipico atteggiamento
vendicativo e cinico del premier.
Da un lato (la vendetta), la
verticalizzazione della gerarchia scolastica è accentuata dando ai
presidi-manager (che già esistono) anche il potere di scegliere gli
insegnanti (sebbene solo dall’organico funzionale, quello per
far fronte alle supplenze, per capirci), come avviene nelle scuole
private, che sono il vero modello a cui adeguare la scuola pubblica (o
quel che ne resta) e come avviene, ad esempio, in Germania, con la
differenza che, data la mobilità che ciò comporta, i docenti tedeschi
percepiscono un salario almeno doppio rispetto a quello dei loro
colleghi italiani. Che di salario invece non si parli acuisce la
dimensione vendicativa, assieme all’alta discrezionalità del meccanismo
premiale: molto più alta che nel progetto precedente. Va notato,
inoltre, che gli organi collegiali e consultivi sono nominati solo
tangenzialmente un paio di volte. Per il resto, tutto è affidato nelle
mani del dirigente scolastico. L’indecente meccanismo che avrebbe dovuto
premiare il cosiddetto merito viene eliminato nelle forme proposte dal
progetto della «Buona scuola» per essere reintrodotto attraverso un
fondo a disposizione dei presidi, che lo potranno elargire, sentiti i
pareri competenti, ai propri prediletti. Il tutto accompagnato da oscure a vaghe indicazioni sul «trattamento economico» degli insegnanti, che va modificato, ma non si sa in quale direzione. Sembra però improbabile un semplice aumento dello stipendio.
Dall’altro lato (il boccone avvelenato),
è approntato un amo con esca travestita da bonus di 500 euro l’anno per
le spese culturali dei docenti che ricorda molto la manovra degli 80
euro in busta paga per alcune fasce di reddito e, ancor di più, i pacchi
di pasta o le scarpe distribuite dalla vecchia DC e non solo in alcune
zone del Paese. L’idea in sé potrebbe perfino non essere cattiva, se
fosse proposta senza secondi fini e se fosse valorizzata di più: perché
non consentire la detrazione fiscale del costo dei libri e dei materiali
che ogni docente acquista per il proprio aggiornamento e per il buon
funzionamento della propria didattica, come fanno i liberi
professionisti con i loro strumenti di lavoro, ad esempio? Oppure, visto
che si tratta di poco più di 40 euro al mese, perché non mettere anche
questi in busta paga? O, ancora meglio, perché non rinnovare agli
insegnanti il contratto, scaduto ormai da parecchi anni, adeguandolo ai
salari europei? Di sicuro, ben altri fondi andrebbero stanziati per il rinnovamento delle scuole,
anche per porre fine alla tassazione mascherata delle famiglie, che
spendono di tasca loro per acquistare materiale di cancelleria, carta
igienica, attaccapanni e quant’altro serve al funzionamento dignitoso
della scuola dei loro figli.
Ovviamente, nulla è detto sui problemi della didattica e di che cosa significhi essere studenti o insegnanti oggi;
il problema educativo, insomma, è del tutto omesso, se non per
l’indicazione – positiva – sulla diminuzione del numero di studenti per
classe. Speriamo si realizzi con organici di fatto.
A questo si aggiunge lo scandalo
rinnovato dei finanziamenti alle scuole private in barba alla
Costituzione. Ma è ormai chiaro che per l’ideologo del Jobs Act e
della riforma della Rai, essa, come lo Statuto dei lavoratori, è poco
più che carta sporca. Scandalo che si unisce alle promesse disattese,
alla mancanza delle coperture finanziare (che si risolverà in un aumento
delle tasse), all’idea che la scuola sia solo l’anticamera del mercato,
che essa deve riprodurre in miniatura, affinché le giovani generazioni
capiscano subito e bene cosa li aspetta fuori. Un rinnovato centralismo in nome del mercato, altro che anti-centralismo,
come sostiene l’ex ministro Berlinguer che, da buon Rettore, ha molto
contribuito alla distruzione della scuola e dell’università italiane.
Niente di nuovo sul fronte occidentale,
dunque; solo tante parole e promesse (una volta si chiamava retorica,
oggi si chiama comunicazione), come al solito. L’unica novità,
se si può chiamar così, è l’adeguamento sempre più rigido a un’ideologia
ormai vecchia e stantia, del tutto fallimentare, qual'è l’aziendalismo; perfino il premio Nobel Paul Krugman avverte che un paese non è un’azienda,
ma per capirlo, anche senza leggere Krugman, bisognerebbe sapere che la
politica non è solo amministrazione e, soprattutto, non quella della
propria carriera. Perfino Gino Zappa, il maestro dell’economia aziendale
italiana, ha sempre preso le distanze dall’ipotesi dell’homo oeconomicus
e dalle teorie su di essa costruite riconoscendo la parzialità del
rigido utilitarismo. L’aziendalismo, insomma, è un’ideologia politica e
non una dottrina economica e quello in salsa renziana è un utilitarismo individualistico e irrazionale del tutto antieconomico, una forma di tecnocrazia che partecipa della nuova ideologia post-muro, per la quale tutto è azienda, anche i singoli individui. L’opera di reductio ad unum di questa ideologia, da un lato, con fare tipicamente italico, è spinta, coerentemente,
solo fin dove conviene, con l’indeterminatezza tipica di chi vuol
tenersi le mani libere per agire come meglio crede; dall’altro, è
caratterizzata un po’ dovunque da un’enorme carica farsesca, che non ne
mitiga però l’aspetto tragico. Che l’aziendalismo, non solo in Italia,
sia il modo in cui si cerca, stentatamente, di governare le
contraddizioni del sistema capitalistico-finanziario, mostra sia la
debolezza e la povertà teorica dei governi sia, alla fin fine, il loro
vero obiettivo politico: una forma di autoritarismo che fa del decisionismo agli ordini delle esigenze del capitale l’unico principio guida.
La conferma viene dall’ultimo aspetto
del ddl che è vendetta e abboccamento allo stesso tempo: l’assunzione di
più di centomila docenti (contentino), ma non subito (vendetta), bensì
un po’ alla volta e, soprattutto, non di tutti i 148.000 previsti o dei
più di 200.000 che ne avrebbero diritto. I ricorsi sono già pronti e
vinti, grazie alla sentenza europea che prevede l’obbligo
dell’assunzione per chi abbia lavorato più di 36 mesi consecutivamente
nella pubblica amministrazione. Non a caso, il governo pensa a un fondo
di ammortamento per pagare le multe!
Non è certo questo ddl l’unico caso,
semmai è solo l’ultimo, ma è urgente a questo punto chiedersi perché il
«giovine» Renzi abbia idee così vecchie e perché non sia l’unico giovane
ad averle. È la questione del perché il «nuovo» che viene proposto appaia ormai sempre più come qualcosa di vecchio, riverniciato e condito in salsa anti-operaia e anti-comunista.
È la questione del paternalismo (la vera natura dell’aziendalismo) che
torna, come già nella retorica berlusconiana, del buon Padre di
famiglia, che, come il Duce, era anche buon Preside, buon Imprenditore,
buon Soldato e via dicendo. È su quel «buon» che vanno sollevati dubbi e
strali, perché se davvero esso realizzerà al meglio le figure che
qualifica (Padre, Preside, Imprenditore, Soldato ecc.), allora sì il
fascismo non sarà più lontano e non avrà solo il volto del Matteo
legaiolo.
Questo panorama pone un’esigenza
di comunismo nel ripensamento teorico e nell’agire pratico riguardante
la formazione contro il neo-autoritarismo vecchio e continuista che
propone Renzi. La formazione è sempre stata al centro
dell’interesse dei comunisti. Essere comunisti oggi vuol dire anche
ri-cominciare a occuparsi di questo tema (oltre a quello dei migranti,
del lavoro, dei precari, della redistribuzione ecc.) senza essere
nostalgici – di questi ce ne sono fin troppi – ma per continuare a porsi
il problema del comunismo come unico orizzonte pratico, cioè politico e
scientifico, la cui soluzione può far uscire dall’incubo del liberismo,
dal capitalismo e dalla metafisica della sua gioventù.
Chi è il soggetto di questo sforzo? Chi risponderà all’appello? Non è dato saperlo. Di certo, insegnanti e studenti possono essere i protagonisti, assieme ad altri soggetti, di questo sforzo.
Senza di loro non vi sarà mai una scuola degna del suo nome. Di certo,
per essere all’altezza di queste e altre sfide, non abbiamo bisogno di
un altro Partito comunista, ma di un «movimento organizzato» come
dicevano Marx ed Engels: un’idea che porta a guardare con interesse a
quanto accaduto di recente a Francoforte
(non sul versante della Bce, ovviamente). Di certo, non abbiamo bisogno
di altri Partiti socialdemocratici, che negozino, che medino, che
gestiscano il potere in nome degli altri, sempre esclusi: siano operai o
migranti, donne o uomini. Abbiamo bisogno, invece, di organizzare la
forza di classe, contro i terrorismi, tutti: di Stato o di governo, del
capitale o delle religioni. La classe non c’è, si dirà. Certo, la classe
non c’è mai prima della lotta, che diventa di classe perché chi la fa
si costituisce in classe solo facendola. La classe non è un gruppo
sociologico, non è permanente, ma muta col mutare dei tempi. La classe,
oggi, sarà, se sarà, formata da coloro che si pongono il problema del
comunismo come prospettiva da costruire: contro i nostalgici, contro gli
alternativi, contro il post-marxismo che, come diceva James O’Connor, è
«una nuova fase di anarchismo o anarchismo-populista o comunitarismo o
libertarismo».
Dixi et salvavi animam meam,
scrisse Marx. Ma non basta, non è mai bastato. Non è di un gruppo di
puri che c’è bisogno, ma di donne e uomini capaci di mettere le mani in
pasta e mettere in discussione se stessi: solo così si potrà avere una
trasformazione reale dello stato di cose presente senza processi
d’autocritica, ma attraverso un agire che trasformando il reale generi
nuovi soggetti, nessuno dei quali è all’orizzonte, nessuno dei quali
coincide con le identità sin qui assunte e sventolate come bandiere. Studenti
e insegnanti, assieme a tutte le donne e gli uomini che si sentono
chiamati in causa da questa urgenza, devono partire da ciò che si agita
nelle scuole e nei movimenti, dalle lotte per una scuola migliore e dalle proposte di legge popolare come quella «Per una buona scuola della repubblica» (di cui ci parlava Carlo Salmaso), per provare, anche tumultuosamente, a «conquistare la nostra organizzazione», quella necessaria ad abolire questo presente stato di cose.
Nessun commento:
Posta un commento