Pubblichiamo questo interessante
scritto di Dante Lepore cogliendo l’occasione per ricordare ai nostri
“concittadini” (tutti sì, dagli stronzi razzisti ai “caritatevoli”
sfruttatori democratici) che in questa società-mondo non siamo in
presenza di un complotto
orchestrato da qualcuno o da qualcosa, che il sistema NON è riformabile
e che di rapporto sociale tra persone si tratta. Bisogna scegliere da
che parte stare, in una società di classe: o con chi, nell’ambito
istituzionale e non, difende il capitalismo, oppure con chi lotta per il suo superamento nel mondo intero. Nardella e gli hashtag tipo #firenzesiamonoi
sono solo l’ennesima presa per il culo, assieme all’immancabile
retorica degli “angeli del bello”, sempre solerti quando si tratta di
cancellare le scritte politiche “scomode” sui muri, MAI per quelle dei
razzisti (oltre al danno, la beffa). Dobbiamo invece lottare per un
mondo senza denaro, salario, capitale, profitto e loro “derivati”
(quindi guerre, drammi sociali, abusi di ogni tipo e via dicendo), prendendocela con i veri responsabili, i padroni e i loro rappresentanti.
In un articolo del 26 agosto su «il
manifesto» (Sinistra: «La battaglia possibile»), lo storico Luciano
Canfora faceva riferimento ad uno studio della CGIL che stimava in 400
mila i lavoratori in condizione di schiavitù, con l’avvertenza che la
cifra è riferita soltanto a ciò che è visibile, non al sommerso. Questa
«nuova schiavitù», cui si aggiungerebbe un «gigantesco ceto medio
condannato a un crescente impoverimento» subentrerebbe al tradizionale
operaio di fabbrica, soggetto sociale tradizionale dei partiti di
sinistra, che numericamente sarebbe in via di estinzione. Da altre fonti
(1) sappiamo che, per quanto ridotta numericamente, la classe operaia
soprattutto manifatturiera, concepita come la tradizionale «avanguardia
cosciente», nonostante ristrutturazioni, delocalizzazioni e sicuramente
riduzioni numeriche, è ancora consistente, per quanto cambi fisionomia.
Ma il fenomeno della nuova schiavitù, soprattutto quella sommersa, non
solo nell’industria, ma anche nell’agricoltura, è certamente il fenomeno
più dirompente e destinato a permanere e congiungersi con il fenomeno
della così detta «emergenza migranti».
Già a maggio, dopo l’inaugurazione al
lacrimogeno dell’expo milanese anche esso a base di lavoro gratuito, al
termine della Conferenza Unificata e prima del vertice
sull’immigrazione, il ministro Alfano ha cominciato a richiamare la
maggiore applicazione di una circolare del Viminale del 27 novembre (2) e
a mettere la pulce nell’orecchio ai sindaci dei comuni, sul cosa farne
dei migranti: «Invece di farli stare lì a non far nulla che li facciano
lavorare… dobbiamo chiedere ai Comuni di applicare una nostra circolare
che permette di far lavorare gratis i migranti» (3), subito accusato di
«schiavismo» da Salvini, dalla Santanché, dai Verdi e da SEL, ma in
realtà già assecondato da non pochi comuni, soprattutto del Nord e
Centro, a partire da Rovereto, poi Novara, Udine, fino a quelli balneari
e a Livorno, che utilizzavano i richiedenti asilo per la manutenzione
delle aree pubbliche, del verde pubblico, e per la pulizia delle spiagge
e dei fondali marini e fluviali.
Con l’alluvione di Firenze, la proposta – che tra l’altro si è concretizzata
nei giorni successivi – è stata avanzata dal governatore della Toscana
Enrico Rossi e dal sindaco di Firenze, renziano, Dario Nardella, i
quali, subito dopo l’alluvione, hanno esaminato varie ipotesi, tra le
quali c’era «anche la possibilità di utilizzare i profughi ospitati in
Toscana per i primi interventi di pulizia e ripristino, utilizzando
anche la convenzione attivata con Inail per l’assicurazione per lavori
di pubblica utilità»(4). Nardella confermava che «i profughi ospiti
della Regione Toscana, e in particolare quelli che sono a Firenze e nei
comuni limitrofi, da domani potranno essere di supporto alla Protezione
Civile di Firenze […] e saranno utilizzati in particolare per il
ripristino del verde pubblico» e Rossi rincarava i propositi: «In cambio
dell’accoglienza ci deve essere la disponibilità a prestare attività di
carattere volontario a vantaggio della comunità». In Toscana ciò
avviene già. A Torrita di Siena i profughi accompagnano, sotto l’egida
della locale Misericordia, i bambini a scuola e aiutano gli anziani a
salire sui pulmini dei servizi sociali. A Monteriggioni lavorano per un
associazione creata dal parroco garantendo l’apertura di spazi pubblici.
A Prato spazzano e puliscono i giardini. A Firenze hanno offerto il
loro aiuto nel dopo-nubifragio. «Ma con le due delibere approvate di
recente dalla giunta regionale – conclude Bugli – è ancora più semplice.
Abbiamo infatti sciolto gli ultimi problemi burocratici e normativi, a
partire dall’assicurazione obbligatoria, che potevano creare un
ostacolo»(5) .
L’elenco dei comuni e province che si
sono susseguiti a siglare accordi e a sottoscrivere protocolli d’intesa
tra prefetture ed enti locali per cogliere questa opportunità e
schivando il problema del lavoro non pagato o comunque non tutelato
mediante assicurazione contro gli infortuni ecc., è piuttosto nutrito (6). Dopo il comune di Rovereto (Trento), dove il sindaco Andrea Miorandi
apostrofava Salvini dicendo «abbiamo una ramazza anche per te»,
l’assessore provinciale alla solidarietà sociale della provincia
autonoma di Trento, Donata Borgonovo Re, siglava un protocollo «per
legare il concetto di accoglienza a quello di reciprocità, e mettere in
contatto, creando un rapporto di fiducia, chi arriva nel nostro paese
con la popolazione residente». Il 9 maggio, a Livorno 30 profughi
venivano incorporati nel progetto «spiagge e fondali puliti»; Vittorio
Veneto (Treviso) siglava un protocollo d’intesa per richiedenti asilo
ospitati in città per attività di volontariato che la stessa comunità
dei migranti avrebbe suggerito al sindaco.
La Prefettura e l’Associazione servizi
per il volontariato di Modena sottoscrivevano a loro volta un patto per
utilizzare gli immigrati in attività socialmente utili, millantata come
«opportunità per permettere ai migranti di ricambiare l’ospitalità che
ricevono». A Cesena il sindaco Paolo Lucchi vanta che già da tempo i
profughi indossano la pettorina gialla dei volontari e, attrezzi alla
mano, puliscono strade, parchi pubblici e si occupano degli orti
sociali, messi a disposizione dall’amministrazione per le famiglie in
difficoltà: «Un po’ di concretezza romagnola in una situazione
d’emergenza che prosegue da anni». Alle Cinqueterre i migranti
provvedono alla manutenzione dei sentieri, e a Sarzana 30 profughi tra i
18 e 20 anni avrebbero ripulito parchi ed aree verdi. A Tabiano e a
Salsomaggiore dal prossimo novembre 34 migranti faranno volontariato dal
lunedì al venerdì, dalle 9 alle 12, per pulire i marciapiedi,
raccogliere le foglie e occuparsi dello svuotamento dei cestini
stradali. Non possono mancare all’appello le cooperative in questo
business, quali enti gestori dell’assistenza e garanti della copertura
assicurativa, ed ecco i primi cittadini, di centrosinistra, di Este,
Baone, Battaglia Terme e Due Carrare e i vertici della cooperativa
“Ecofficina”, in Prefettura per sottoscrivere l’accordo di programma che
fissa le modalità per il coinvolgimento dei migranti in attività e
servizi di volontariato a favore delle collettività che li ospitano. E
che di lavoro gratuito si tratta lo stabilisce sfacciatamente il testo
del vero e proprio accordo semestrale rinnovabile, redatto dai sindaci
in prefettura con la predetta cooperativa: «L’accordo al punto 3
evidenzia che le attività possono essere svolte da stranieri-migranti
che abbiano presentato istanza per il riconoscimento della protezione
internazionale, che abbiano sottoscritto la dichiarazione di
disponibilità ad attività di volontariato sull’apposito modulo e che
siano ospiti delle strutture di accoglienza all’interno del programma
coordinato dalla Prefettura di Padova. Ai migranti viene altresì chiesto
che abbiano aderito ad una associazione di volontariato operante nel
territorio. Questa adesione comporta l’impegno di rendere una o più
prestazioni personali, volontarie e gratuite»(7) .
Ma neppure il Sud è rimasto sordo
all’appello di Alfano. Ci ha pensato in agosto, ovviamente non senza
mugugni da parte CGIL e del Movimento politico di Noi con Salvini, il
sindaco Antonio Decaro, dopo una proposta già precedente del
centrodestra. I richiedenti asilo spesso restano nel centro di
accoglienza di Bari Palese per 8-9 mesi e più, in attesa dello status di
rifugiato, condizione indefinibile, come color che son sospesi e in
cui, per legge, non possono lavorare ed essere retribuiti. « Gli ospiti
del Cara [Centro di accoglienza per richiedenti asilo, dove sono in
circa 1300] i migranti potrebbero collaborare nella manutenzione delle
aree a verde o nella pulizia di giardini, delle piste ciclabili o delle
spiagge dando una mano alla collettività. Potranno partecipare i
migranti che vorranno, nessuno li costringerà ma a titolo gratuito in
quanto per legge non possono lavorare e ricevere una paga»(8).
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