La Fed alzerà il costo del denaro? Questo dubbio, assieme a quelli su
dimensioni e durata della crisi cinese, tiene in ansia i mercati
finanziari del mondo, generando turbolenze. Negli Stati Uniti il
dibattito fra gli economisti si fa serrato a mano a mano che la
decisione si avvicina, come testimoniano vari articoli (vedi, fra gli
altri, il NYT e l’Huff Post).
Leggendo le opinioni degli “esperti”, colpisce che costoro dissentano
soprattutto sulle strategie monetarie e sul loro impatto (da un lato:
attenti a non alimentare l’inflazione e nuove bolle speculative;
dall’altro: occhio a non innescare una stagnazione di lungo periodo,
associata alla deflazione). Su un punto invece sembra esserci accordo:
la ripresa è in atto e i posti di lavoro crescono, al punto che, fra non
molto, si dovrebbe arrivare a un tasso di disoccupazione (sotto il 5%)
che negli Stati Uniti viene assimilato alla piena occupazione. Qualche
timida voce, tuttavia, si alza a seminare dubbi: se è vero che
l’occupazione cresce, perché i salari crescono (se crescono) a un ritmo
assai inferiore (risibile, ove confrontato al tasso di aumento della
produttività)? Basta valutare i numeri, oppure occorrere interrogarsi
sulla qualità dei nuovi lavori? Infine: è vero, come vanno
predicando gli industriali dei settori più dinamici, che non ci sono
abbastanza laureati per fare fronte alla domanda di mansioni che
richiedono elevate competenze tecnico scientifiche?
Una ricerca del Washington Center for Equitable Growth
sovverte molte certezze in merito, smentendo soprattutto l’ultimo luogo
comune. Dai dati emerge un infatti un fenomeno che gli autori definiscono
“filtering down” e che consiste in questo: nella competizione per
accaparrarsi i posti di lavoro, i laureati prevalgono sui non laureati,
ma non perché crescano le mansioni qualificate e calino quelle
esecutive, bensì perché i laureati “rubano” mansioni a basso contenuto
di conoscenze e a bassa retribuzione agli altri. Ecco alcune cifre: dal
2000 al 2014 l’impiego di lavoratori laureati è cresciuto molto più
rapidamente nei settori che erogano salari più bassi (terziario
arretrato) che in quelli “avanzati”. Un esempio: i dipendenti laureati
di ristoranti e bar sono oggi il 16,3% del totale (erano il 14,2% nel
2000). In compenso nel settore finanziario (uno di quelli che erogano
salari più alti) il tasso dei laureati è calato dal 65,2% al 56,1% nello
stesso periodo.
Insomma: la tesi secondo cui non ci sono abbastanza lavoratori
qualificati per far fronte alla domanda è del tutto infondata, tanto che
gli autori della ricerca concludono: “incoraggiare e finanziare livelli
di formazione più elevati non risolvere il vero problema del mercato
del lavoro: la realtà è che non ci sono abbastanza posti per tutti”.
Questo perché – aggiungerei rilanciando una tesi che gli studiosi più
onesti e avveduti sostengono da tempo –: 1) le nuove tecnologie stanno
“mangiando” più posti di lavoro di quelli che creano; 2) la
disoccupazione tecnologica non colpisce più solo i colletti blu ma anche
i colletti bianchi.
E in Italia? Da noi i segni di ripresa del mercato del lavoro sono
ben più modesti di quelli americani (in barba ai panegirici di Renzi),
mentre sono ancora più disperanti la qualità e i livelli retributivi dei
lavori disponibili. Il che non impedisce di sollevare polveroni sulla
necessità: 1) di rilanciare un settore hi tech che non farà che
peggiorare ulteriormente i problemi strutturali del mercato del lavoro;
2) di frenare il calo delle iscrizioni all’università – calo che
rispecchia l’intuizione popolare in merito all’inutilità di tale
investimento per promuovere la mobilità degli strati sociali
medio-bassi. Rilanciare le iscrizioni è sì importante, ma per elevare il
livello di consapevolezza (e quindi il potenziale antagonista) delle
nuove generazioni, non per generare illusorie speranze di reddito e
lavoro dignitosi.
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