Corinna mi segnala questo articolo e mi chiede cosa ne penso. Ci sono degli “studi” che farebbero concludere a – non so – ricercatori e ricercatrici il fatto che il Breastaurant fa male alla salute delle donne che lavorano con divise scollate nella ristorazione, in pub, bar, e non so che altro. Si generalizza, basandosi su non so che inchiesta, non so su che numero di persone intervistate, non so su quali basi, saperi, sulla tesi iniziale che si desiderava avvalorare e sulla cultura che si voleva legittimare. Già il fatto che si parli di conseguenze psicologiche sulle donne che lavorano in quei contesti, giudicando la depressione fattore che coinvolge una percentuale altissima di donne, cameriere, che espongono il corpo, mi fa comprendere che l’analisi è parecchio lontana da me.
Trovo che psicanalizzare le cameriere astraendo la questione dal contesto economico e sociale sia quanto di più banale e stereotipato ci possa essere. Alla ricerca di vittime da salvare o di donne da ricoprire (nel senso di “copriti donna”), con una morale che non tiene conto di fattori intersezionali e che rimuove la differenza di classe, con un prurito paternalista e moralista che scava sulle malefatte dei clienti, come a voler esplorare il numero di molestie subite prima ancora delle condizioni contrattuali nelle quali queste donne operano, regalando argomenti ad un femminismo moralista e abolizionista che va sempre alla ricerca di mestieri da abolire, includendo il sex working o il porno, volendo possiamo includere anche il balletto classico, con quelle divise aderenti e i tutù che non lasciano spazio all’immaginazione, perché andando di verifica in verifica dei centimetri di corpo scoperto le donne possono sempre essere considerate “oggetti sessuali” e mai “soggetti”, lavoratrici che hanno rivendicazioni che tutte quante noi abbiamo l’obbligo, il dovere, di ascoltare, prima di attaccare sulla loro pelle lo stigma della povera fanciulla indifesa da patologizzare perché indossa una minigonna e una canotta scollata.
Ho conosciuto tante cameriere e io stessa per un certo periodo di tempo, come secondo lavoro, ho fatto la cameriera e la mia divisa era una minigonna e una roba aderente o scollata sopra. In un ristorante potevo anche indossare i jeans aderenti e la canotta che lasciava scoperte un po’ di cose. Al pub eravamo tutte cameriere con la stessa divisa e il nostro lavoro richiedeva simpatia, capacità di tenere una buona conversazione e di rispondere con spirito alle battutacce. Mance e contesto erano ok. Cosa non andava? Il fatto che spesso era lavoro nero e che la paga non era fantastica e se avessi dovuto rispondere a un questionario di ricercatori o ricercatrici alla ricerca di dettagli sulla professione avrei parlato di quello, ricordando loro che pagare l’affitto e le bollette è qualcosa di prioritario e che solo chi non ha mai avuto necessità di lavorare nella vita può adoperare moralismo per analizzare quel contesto.
Quel lavoro non induceva alla depressione. Casomai è la precarietà che la istiga. Nessun trauma, nessun cliente violento, salvo qualche idiota ubriaco che poggiava le mani che immediatamente venivano rimesse al loro posto. Non ci sentivamo, parlo di me e delle colleghe, studentesse che si mantenevano mentre studiavano all’università, “oggetti” ma alla fine di una dura giornata o serata di lavoro ci sentivamo orgogliose di noi stesse, fiere di aver concluso un lavoro, di esserci guadagnate la pagnotta e di averlo fatto senza pietire nulla, senza chiedere elemosine, senza dipendere economicamente da qualcun@, a parte le nostre gambe, le nostre braccia, tutto quel che viene messo in gioco con il lavoro, prescindendo dal fatto che tu scopra il corpo o meno. Ogni lavoro richiede, se proprio vogliamo, l’oggettificazione del corpo, perché una operaia usa il corpo per lavorare ed è il corpo che diventa strumento di guadagno, a meno che non distinguiamo parti del corpo precise che riteniamo più degne di attenzione di altre. In quel caso tutto quel che ne consegue diventa moralismo, nulla più di questo.
E’ frustrante lavorare senza ottenere riconoscimenti, con contratti in scadenza, con datori di lavoro molesti, che possono essere tali anche quando vai a lavorare in giacca e pantalone classico – a me è capitato – in luoghi di “prestigio”. Non serve di certo lavorare come cameriere per essere viste come “oggetti” e non serve di certo “scoprirsi” per essere viste come tali, perché altrimenti diamo ragione ai maschilisti che ritengono dubbia la moralità della fanciulla in minigonna al cui stupro reagiscono con un "se l’è cercata", e non si capisce neppure come le donne copertissime, incluso quelle con un burka, siano vittime di molestie e stupri. Non è l’abito che ci rende “oggetti” ma la continua attribuzione di valore o disvalore a gonne, shorts, canotte, reggiseni, burkini o bikini, tenendo conto del fatto che tantissime sono le donne che quel valore e disvalore lo attribuiscono tanto quanto. Io sono soggetto se scelgo di essere tale e non c’è nessun ricercatore o nessuna ricercatrice che può dire il contrario. Neppure per guadagnare un contributo dall’università che paga il suo stipendio, perché casomai è in quel caso che, come dire, io mi sentirei oggetto di chi sulla mia pelle realizza conclusioni, tesi, classificazioni, stigmi, stereotipi, generalizzazioni, con pretesa di scientificità. Ecco, allora, spero di aver risposto alla domanda sul “cosa ne pensi”. Io penso questo.
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